sabato 10 gennaio 2015

Nota critica di Andrea Poletti

su Una per mille



Il tuo libro ha qualcosa di Vincenzo Consolo,  Le pietre di Pantalica, nello specifico. Ha radici profondissime nel tempo e nella parola. La tua prosa è un duello continuo con le sonorità più profonde e lascia sul campo figure retoriche prostrate, prive di qualsiasi rilievo sintattico, operi sulla singola proposizione come Meneghello... O De Luca. Entrambi figli di Petrarca. 
È come se usassi le parole quali pietre focaie, quelle che producono scintille dal loro sfregamento e godono di un'immunità particolare:  le figure classiche: sineddoche, enjambement, chiasmo, etc. cedono tutte il passo a sinestesie e onomatopee che però mutano in metronomi delle sensazioni,  la musica prende il sopravvento sulla struttura e le catene danzano finché ogni cliché retorico abdica esausto alla propria funzione.
C'è qualcosa di ancestrale nella tua scrittura, una danza della memoria a cui l'elemento maschile si può solo affacciare ma mai addentrare, pena la perdita della propria identità di genere. Si prova sovente una sensazione di vertigine leggendoti e non è sempre un'esperienza salutare. Tocchi dei nodi che non si sciolgono se non vengono tagliati ed una sorta di trauma è destinato a ripetersi così come nella poetica di Yeats.
Tu parli di ferite ctonie che mai si rimargineranno, non c'è tempo né anima che possa compiere questo miracolo. Esiste solo un destino: ripetere questo doloroso tableau vivant all'infinito, ricordandolo.
Leggerti è stato sconcertante come ogni letteratura che sia degna di questo nome.
Dirti se mi sia piaciuto... ecco, diciamo che il tuo è uno dei rari libri per cui verrebbe piuttosto da chiedersi "ma io sarò piaciuto a lui?"

Andrea Poletti

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