domenica 15 dicembre 2019

Una donna di marmo nell'aiuola



Colma della sapienza di chi ha assaporato prospettive e dimensioni plurime in viaggi ampi, perfino estremi, ancorché senza usuali lasciapassare, mezzi di trasporto o documenti di transito, Una donna di marmo nell’aiuola, la raccolta più recente di Cristina Bove (con prefazione di Annamaria Ferramosca, Campanotto Editore 2019), predilige l’endecasillabo per dare vita a resoconti, a illuminazioni, a rilevazioni e a rivelazioni in un continuum sì armonioso, tuttavia non disgiunto dalla registrazione di note dissonanti.
Per chi legge e ascolta da anni la poesia di Cristina Bove questa raccolta è una conferma della originalità della sua voce poetica e, inoltre, un passo avanti dal punto di vista progettuale, del filo conduttore così come di tutto l’impianto. In un passaggio della quarta poesia del volume, Farsi parola e nome, si annida la chiave di accesso a Una donna di marmo nell’aiuola: se l’esistere con consapevolezza – progressiva, ma pur sempre consapevolezza – significa riconoscere la prossimità di punto di partenza e punto di approdo, in una dimensione straordinariamente ampia, ben oltre la sfera individuale, è importante, d’altro canto, individuare, analizzare, contemplare, perfino, le fasi ‘intermedie’ di quel costante perdersi, equivocare, illudersi ed errare che è il camminare su questa terra: «in fondo sono luce anche le pietre/ e noi gherigli dentro un mallo amaro/ che mettemmo tra noi per farci noi/ di vista incerta _ch’eravamo dio_/ per ritrovarci dopo esserci persi/ e questo è il gioco».
Illuminata anche dal richiamo a Little Gidding, il quarto dei Quattro quartetti di Eliot («e il termine d’ogni nostro ricercare / sarà arrivare lì dove iniziammo», nella mia traduzione), a chi percorre queste pagine di Cristina Bove si palesa una caratteristica fondamentale, vale a dire la presenza di un movimento che da altezze vertiginose (da un trauma, da una cesura irreversibile sono derivate, così come narrava l’autrice nel romanzo Una per mille, doti spiccate di discernimento), dalle quali è possibile intuire essenze e persistenze attraverso lo spazio e il tempo (a ragione Annamaria Ferramosca scrive del ritorno della “dimensione cosmica”), si avvicina, si fa sempre più dappresso all’obiettivo dell’attenzione, per evitare equivoci e banalizzazioni, oltre che per affondare con la maggiore precisione possibile la lama della parola nel tessuto molle delle auto-giustificazioni, delle scusanti e dei bassi interessi.
Non c’è pausa in questo moto incessante che va dall’estrema rarefazione del dire, dai voli mistici, perfino dai toni cromatici e musicali della spiritualità, fino alla fustigazione puntuale e amarissima di quelli che ebbi a definire “riti tribali affantoccianti”.
L’eterea presenza di luce – candida e celestiale tra chioma e pupilla – è anche la impeccabile, tra asettica e implacabile, ricercatrice delle umane falle, di ipocrisie e incoerenze: «Insieme d’incostanze: l’io depone/ l’uovo del suo sentirsi unico/ tra le infinite repliche/ nasce l’uomogirino e in una virgola/ a sua insaputa è già cambiato il mondo/ i tu/ i voi/ i noi/ i loro».
Di varia natura e ampiezza, così come le dimensioni toccate, sono le fonti alle quali si abbevera lo spirito, di cui si nutre una penna che, per ricorrere a una metafora che in questa raccolta fa apparizione, tutto fa tranne che semplicemente imbrattare e imbibirsi di inchiostro. A chi legge affido il compito di individuarle, oltre i confini delle belles lettres, oltre le distinzioni tra letture filosofiche, scientifiche e divulgative, tra musica e arti figurative.
Quello che resta, straniante e rivelatore insieme, è una cifra inconfondibile; quello che resta sono la tela, i colori, la tessitura della poesia di Cristina Bove.

venerdì 18 gennaio 2019

recensione di Luigi Paraboschi

La simmetria del vuoto
di Cristina Bove     – ed Arcipelago Itaca



Ho scelto come inizio di questo mio discorrere attorno all'ultima raccolta di Cristina Bove qualche verso che possiamo trovare  a pag. 14:

... starsene fermi/ su questo mondo che ci ruota attorno/perennemente in viaggio verso est/ e dirsi in versi/ forse nel tentativo di sottrarsi/ non solamente al male/ ma anche alla terribile bellezza/ che annichilisce e ammalia /

perché mi sembra che  il loro insieme ritrae abbastanza bene la posizione interiore di questa multiforme artista che spazia tra la poesia, il romanzo, la pittura e la scultura.

Dalla frequentazione di queste varie forme espressive l'idea che traspare dai versi  e cioè che “la terra è un campo coltivato a sassi“ sia lo spunto dal quale ha di certo preso  l'avvio  tutto il suo lavoro poetico, e forse non solamente quello.

E quali saranno gli ausili espressivi per sondare quel ”campo coltivato a sassi”, dei quali essa  si serve lungo il suo cammino artistico?

Alcuni li troviamo a pag. 15, nel finale della poesia:

... mi allontano _spossata_ /vestita solamente del mio dire/ ché preferisco tinte delicate/ se proprio devo esprimere un pensiero//.

Appare chiaro che la fuga da quella realtà frustrante che la circonda e  “annichilisce e ammalia“  la induce a rifiutare nella sua tavolozza linguistica  le tinte forti  perché come  sa chi conosce anche un minimo di pittura, è facile nascondere, o meglio coprire, i “pentimenti“ del pittore usando colori accesi, ma ho la sensazione che l'autrice non abbia avuto pentimenti scrivendo, anche se predilige le tinte delicate, perché il  suo dire è tutto celato dentro queste parole di pag. 24  “... ciò che nessuno vede per davvero/ è la prigione dove stagna il cuore“.

A volte sembra difficile accostarsi alla poesia come genere letterario a causa di una  presunta difficoltà interpretativa, ma i due versi riportati poco sopra sono la sfida per eccellenza per coloro che amano connettersi con il sentimento fondante di ogni autore, che nel caso della Bove, è “ la prigione dove stagna il cuore“.

E dove e da cosa è imprigionato il cuore della nostra autrice?

Si può identificare questa prigione con qualcosa accaduto lontano, molto lontano nel tempo, che deve avere imprigionato il suo animo allora e per sempre.

Scrive a pag. 20: ”... il trenta agosto di tanti anni fa/ sembra passato da un solo minuto“. E' evidente quanto questa data è stata fondamentale per lei, come un giorno di  “morte/e/resurrezione“, per usare due termini di carattere religioso, e rintracciamo a pag. 83 il chiarimento essenziale per divaricare un poco quelle sbarre che le imprigionano il cuore:

E  vivo al posto suo/ da quella notte del trentuno agosto/ che lei precipitò dalla ringhiera/ e poi si addormentò sul marciapiede/ io me ne andai/ lasciandola sul posto _e venni al mondo/ pagandomi l'accesso dal balcone“.

In quell'agosto del '61 sarebbe potuta scomparire una giovane di 18 anni, ma è sopravvissuta, risorgendo sotto nuove vesti che costrinsero allora, e lo fanno ancora, il prima ed il dopo della sua vita a convivere (più o meno felicemente) dentro un rapporto di coppia tutta femminile nel quale la ragazza di allora si è fatta progressivamente  donna adulta e madre, portando così avanti quella che a pag. 40 definisce: “... la sua condanna a vivere“, e si trovò, come scrive a pag. 12 - pagando il prezzo di essere viva -. “da sola/ a incorniciare riccioli di polvere“.

Ma se, come si legge a pag.16, “... esiliarsi non basta/ per ingannare il tempo e la ragione”, non possiamo non avvertire tutta l'amarezza che essa sa racchiudere dentro questi versi nel finale della stessa poesia: “// bisognerebbe eliminare intralci/ non solamente tralci/ quando si smette di produrre fiori“//.

La poetica di “la simmetria del vuoto“ però non  si  esaurisce nella semplice conoscenza del SÉ, non si autocelebra, è  ben radicata nel mondo in cui nasce e si esprime con stizza e durezza nei confronti di quel  Potere che vorrebbe lei e le altre donne come una sorta di
”Penelope stanca di (t)essere, come afferma il titolo molto originale della poesia a pag. 33 in cui leggiamo: “ vorrebbe abbandonare trama e ordito/ allontanarsi dall'intreccio/ perdere il filo del discorso _subbio e liccio_/ salvarsi dal ribattere del pettine/ le scie dei sottintesi/ e diventare quasi evanescente //.

L'indice è puntato verso coloro che la  spingono a domandarsi se “esserci o no“ // a volte quasi estranea/ nell'ascoltarsi dire e dubitare/ di avere detto ciò che andava detto/ _aumenta la distanza _/ tra chi recita un mantra e chi non sente/ chi la vorrebbe solo un io narrante/.

La conclusione della poesia è quella nella quale talvolta siamo anche noi  indotti a rifugiarci:

“Invece lei/vorrebbe accantonare la matassa/e starsene accucciata ad aspettare/ sotto la balconata dei ricordi _un filo d'oro / che termini la tela _

L'impegno verso gli aspetti più eclatanti della diseguaglianze sociali, lo sdegno per gli intrallazzi del Potere, il disgusto per lo sfruttamento della buona fede dei cittadini appaiono con tutta la loro evidenza in questa poesia di pag. 17 che trascrivo per intero, dal titolo: Ipnagogica

Ombre cinesi/ mobili appena al gesto delle mani/ sulle pareti nude/ intorno il circo degli imbonitori/_bisognosi d'aerei personali/ sennò come si è pari/ a presidenti, papi, imperatori?//
 
Il balbuziente dio delle borgate/ acclama l'afasia degli istrioni/ a un pupazzo e i suoi accoliti gli onori/ al gregge la pastura, ammaestrare/ la pecora che basta lavorare/ mangiare e defecare, guardare la tivù/ versare i contributi e le prebende/ schiattare sulla terra col sudore/ piegarsi ad ogni altare/ ché tanto poi l'accoglierà Gesù/ nel paradiso di chi muore qui/ per far la vita agiata al suo predone//
il potere ha lo sporco nelle unghie/ _un supermarket delle ambiguità_/ distribuzione di foraggiamenti/ appalti e nomine, tanto a pagare sarai sempre tu/ tu prono col tuo codice fiscale/ illuso d'esser libero/ ma incatenato e con la palla al piede//

Ma se è vero ciò che Bove scrive a pag. 38 in Luogo a recedere:

“... ogni paese ha mezzelune e croci profilate  nei cieli/ angusti varchi tra minareti e cupole: a quel dio/ dal bellicoso cuore, immagine degli uomini/ che hanno perduto il senno/ _e sono morti tutti gli ippogrifi_ non abbiamo più scampo/ in questi tempi di furore e sangue/ narcotizzati come siamo, talpe/ bulimiche all'ingrasso/ cincischieremo ancora con le pagine/ di network e affini/ c'illuderemo d’essere importanti/ accompagnando versi con le cetre/_intanto che/ le capitali degli imperi bruciano/ perché siamo incapaci/ di progettare mondi alternativi/ al n(m)ostro vivere //

Il linguaggio poetico della Bove è sottile, spesso arguto, ironico e vorrei chiudere citando alcuni dei versi più graffianti:
a pag. 18:... e capiremo che l'assuefazione/ ne uccide più di distruzioni in massa/
a pag. 36: il titolo della poesia è Verbicitante e già di per sé è un piccolo capolavoro d'ironia, e per la guarigione alla fine troviamo “il medico prescrive: un cucchiaio di silenzio/ lontano dai tasti“
e a pag. 4& appare alla fine questa zampata: “così m'avvio per luoghi più sicuri/ in fuga dalle sale predatorie/ perché sono malata seriamente/ d'insufficienza venale“.

E questo sguardo amaro, ma ironico è la chiave di salvezza che l'autrice consiglia  a noi lettori.

 8 gennaio 2019
lettura di Luigi Paraboschi

mercoledì 9 gennaio 2019

M.Carmen Lama su "Una donna di marmo nell'aiuola"


Un vero poeta si riconosce da molti dettagli, primo fra tutti dallo stile personale, originale, e senza dubbio anche dai temi indagati con le sue poesie. Salta subito all’occhio, alla prima lettura, anche la forma con i suoi ritmi e la musicalità. Ma queste caratteristiche sono, vorrei dire, intrinseche al poetare, così come la metrica, la rima o i versi liberi che, se pure non di secondaria importanza, assumono un valore aggiunto quando la poesia esprime pensieri profondi o rimanda ad esperienze per così dire ‘universali’, sommovendo emozioni e sentimenti genuini, o evocando atmosfere, risvegliando ricordi, nostalgie, suscitando speranze e ottimismo, anche.

Questo breve preambolo mi porta a considerare che nella nuova silloge di Cristina Bove, ‘Una donna di marmo nell’aiuola’, gli elementi sopra accennati si ritrovano tutti, e rendono la lettura delle poesie molto piacevole.
È anche vero che, se non si ha una certa familiarità con il suo modo di poetare, già dalla prima lettura occorre una attenzione particolare, verso per verso, e successivamente una ri-lettura che consenta di verificare la comprensione, o di assaporare, quantomeno, il distillato dell’essenza di ogni poesia. Questo perché Cristina spazia nei cieli immensi della sua anima e si rischia di perdersi se non ci si lascia condurre per mano.

In questa silloge, in particolare, l’autrice ci offre una sua lettura in controluce del reale, come attraverso una sorta di ‘diaframma’ del pensiero, che mostra mentre anche nasconde: sono riflessioni sulla vita, sull’amore, sul tempo, sulla psicologia dell’io.. ecc.. tutte tematiche molto complesse, che si lasciano solo parzialmente scandagliare e che quindi comportano una continua rivisitazione, poiché ogni volta si coglie appena un minimo aspetto, lasciandone in ombra un’infinità.

Volendo fare di questa mia breve nota qualcosa come una lettura a volo d’uccello, mi soffermerò soltanto su aspetti salienti, visibili -appunto- nell’insieme delle poesie, a cominciare da una strategia molto efficace utilizzata da Cristina in molte poesie di questa silloge, e cioè l’andatura contrappuntistica della versificazione, così che, mentre si ascolta una prima ‘melodia’ e se ne coglie il senso, è già a disposizione una successiva ‘voce poetica’ che in qualche modo incalza la prima, la ricorda, la riafferma, ma è diversa pur essendo simile, creando così un effetto di accordo-relazione tra le varie parti, pur indipendenti dal punto di vista della musicalità.

Oltre a questo godibile modo di procedere poetico, si possono agevolmente rilevare:

- delle contrapposizioni ‘diafane’ di negativo e positivo, sfumate dall'uno nell'altro, come rivela già il titolo della silloge: l’impietrirsi della donna (di marmo) ma sull’aiuola (sul morbido); altre contrapposizioni le troviamo tra vita/morte, calore/gelo, ombra/luce, ecc…

- l’utilizzo, a volte spiazzante, di metafore, molte delle quali tratte dal mondo marino, come se l’acqua fosse un valido supporto per l’effimero che è rappresentato dalla vita (infine arresa ai silenziosi flutti / mi spiaggerò su quella stessa riva / male che venga _come una risacca_ - v. ‘Male calmo’ - pag. 47)

- talvolta aforismi metaforici come questo, bellissimo: le pietre non carezzano le pietre / _è compito del sole farle vive_ -  v. ‘Esaurivento’ - pag. 67)

- la categoria della solitudine, insistita, in più d’una poesia, perché elemento costitutivo di ogni essere umano

- una lucida consapevolezza del tragico destino comune

- un rapporto controverso con il tempo, tra la sparizione dei minuti, l’effimero presente e una presunta eternità

- una sottesa amarezza, nei versi e, a volte, nei titoli stessi delle poesie; non disgiunta, tuttavia, da sottile ironia, semplice escamotage per resistere alle insidie del tempo, ma anche sguardo intelligente sull’accadere, in generale

- un ‘nutrimento’ culturale vastissimo, (come già evidenziato in precedenti mie recensioni di altre sillogi della Bove), che non smette mai di essere  metabolizzato in modi sempre nuovi

- e, certamente fondante della poetica boviana, il sentimento di comunione profonda con ogni aspetto dell’universo (condiviso con Walt Whitman, in Foglie d’erba).

E già, il mondo! Tutto quello che Cristina pone sotto la sua lente poetica di ingrandimento, è il mondo nella sua stanza: → ricordi visioni sogni parole illusioni immagini, tutto passato al vaglio attraverso quell’in_certo ‘diaframma’ del suo pensiero, anche mentre se ne sta a fare altro… (solo un esempio, Poi la nave bianca, pag. 79)

Ma ad andare ancora più in profondità nell’analizzare le poesie di Cristina Bove si rischia, di nuovo, non di non comprendere, ma di essere certi di aver compreso bene quel che voleva dire e nello stesso istante essere certi che voleva dire anche altro, perché la sua è la poetica del dire-non dire (come molto ben esplicitato ne’ L’oscuro lato della poesia, pag. 51).

Una sfida per il lettore, e forse anche una sfida per la stessa poetessa.