lunedì 4 gennaio 2021

nota critica di Giuseppe Martella a "La simmetria del vuoto"

 



la simmetria del vuoto - verdearancio


Il tratteggio:  

Nella sua perspicua e illuminante prefazione, Anna Maria Curci propone la parola tedesca schweben, “fluttuare, stare in bilico, esser sospesi”, come chiave di lettura di questo testo e della intera poesia di Cristina Bove. Seguo questo suggerimento e aggiungo altri due termini, sempre di ambito tedesco: Ausdruck: “espressione, frase, detto” ma anche “sguardo e voce”. Da cui Ausdruckweise: “fraseggio”. E poi Abgrund: “abisso, pendio, precipizio, salto nel blu.” Etimologicamente “assenza di fondamento”. Filosoficamente, quest’ultimo termine indica infatti il fondamento nullo del nostro essere al mondo, tra realtà biologica e rappresentazione psicosociale: la terribile simmetria del vuoto. Tra fluttuazione e spro-fondamento dell’esserci si svolge infatti il fraseggio poetico di Cristina Bove.

Una triangolazione fra le costellazioni semantiche di Ausdruck, Schweben e Abgrund (espressione, bilico e abisso) può svelarci il luogo proprio e offrici l’orientamento di fondo della versificazione di Cristina Bove, cioè anche una cartografia del suo dire (Dichtung). C’è infatti nel termine Ausdruck (espressione, manifestazione, frase) un nesso fra sguardo e voce, assente nei suoi corrispettivi italiani, che implica quel cooperare nell’espressione poetica dell’occhio e della mano, che Walter Benjamin già indicava come la virtù precipua dell’antico cantastorie, il suo saper trarre da una tradizione condivisa le formule verbali e le alchimie del verso e della performance, il suo saper catturare e tenere avvinti gli ascoltatori nel giro della frase, nella reciprocità degli sguardi, nella cerchia dell’ascolto, che è la base di ogni circolo ermeneutico. Da qui parte la mia ipotesi: il dettato (Dichtung) di Cristina Bove sta sempre in bilico sull’abisso del proprio esserci. Una ipotesi che coniuga quell’esitazione fra suono e senso che Valery indica come carattere saliente della poesia, con la sua funzione primaria di testimonianza e terapia della finitudine e precarietà dell’essere al mondo insieme ad altri.

Una poesia della soglia, dunque, e del filo: liminale e sorvegliata. Filata sulla sottile ragnatela del carro della regina Maab (in Sogno di una notte di mezza estate) ma anche tessuta con la dedizione e la sapienza con cui Penelope tesse e disfa quella tela che è il sostrato comune del canto di tutti gli aedi dell’Odissea, Ulisse compreso. Una struttura flessibile, leggera e ferrea, come quella di un ponte d’acciaio teso sopra l’abisso. Quando indicherò nella maestria del fraseggio (Ausdruckweise) una sua virtù caratteristica, intenderò anzitutto questo convenire dello sguardo e della voce, questo accennare, nell’intervallo minimo fra pause e battute del verso, a un altrove, a quel fondo da cui emergono tutte le sue nitide figure, nel saper cogliere il tempo giusto (kairòs) perché la grazia (charis) della parola incarnata risulti efficace. Il dettato di Cristina Bove è danza graziosa sull’abisso che si intravede nella luminosa trama (nell’ultrasenso e nell’oltreluce) delle sue figure, nel chiaroscuro impeccabile, dei suoi versi.  

Questa espressione dell’esserci come esser tra, frammezzo, sospeso e intrappolato nello stesso atto del dire, di tracciare percorsi e indicare luoghi, e costruire una dimora per abitarla, è forse il senso eminente di questa simmetria del vuoto. I suoi versi intrecciano una danza fra dettaglio e disegno, fra macro e microcosmo, dove risuona, nella squisita e tenace volontà di forma dell’io poetico, l’eco sfinita della risata tragica dell’es stretto “nel labirinto delle sue mutazioni”. (13) In una serie di attributi felicemente variati di un soggetto-fondamento mancante, volatile, spro-fondante appunto in un interminabile salto nel blu – quel colore che pare essere il preferito della nostra autrice, a giudicare dalle composizioni di videoarte che spesso ne accompagnano i versi sul suo blog e su Facebook. E’ un verde-blu iridescente che, attraversando la gamma dei colori, pare sfumare nel diafano da cui ci invia riflessi di figure, sovrimpressioni, fantasmagorie. Ecco: la trasparenza è un’altra caratteristica dei versi di Cristina Bove, nel senso intuitivo del termine (poiché si tratta di figure luminose, leggere, sfumate) ma anche in quello del confine sottile che passa tra riflessione e rifrazione di un raggio di luce. Del punto cruciale in cui un medium qualsiasi, in parte assorbe e in parte riflette il messaggio luminoso. Così come la memoria riflette l’evento rifrangendolo nelle molteplici tangenti delle sue figurazioni inconsce. Quella di Cristina Bove è anche una poesia della trasparenza e della soglia, una esplorazione dei limiti del diafano nel linguaggio: una videoarte del dire.

La sapiente variazione dei suoi versi equivale all’intero gradiente di rifrazione dei corpi al messaggio della luce. In questo senso, anche le figure del suo discorso assumono la valenza di una fantasmagoria in cui trascendenza e immanenza si incontrano come il riflesso e la frattura di una immagine in un punto sulla superficie della rappresentazione. Pertanto le figure in sospensione nei versi di Cristina Bove si possono considerare anche come degli ologrammi, delle produzioni sul foglio di carta di immagini tridimensionali, attraverso il reticolo di diffrazione dei suoi versi. Ologrammi metafisici che coniugano riflessione e rifrazione, trascendenza e immanenza, manifestazione ed essenza del nostro essere al mondo. In una sapiente orchestrazione della “toccata e fuga di se stessi” (44), tra valenze aforistiche e chiusure epigrammatiche, tra sottolineature e motteggi, nonsense e paradossi.  

Il lievitare misurato della parola rigenerata (logos egeneto), il fraseggio accurato, l’equilibrio di una versificazione interstiziale in cui la espressione sapiente riunisce la mascherata della vita e quella dell’arte, facendone un bilancio lucido e mirabile, spassionato e implacabile, realistico e visionario, dove nell’umana confessione si può leggere talora in palinsesto una dichiarazione di poetica. (54) Il fraseggio di Cristina Bove si svolge in una fluttuazione caratteristica tra l’espressione linguistica come manifestazione dell’esserci e il suo fondamento nullo, cioè anche tra figura e fondo, linguaggio e silenzio. In questo senso, la sua è una poetica del tratteggio e della sottrazione, dell’adombramento e della sospensione sistematica di ogni (pre)giudizio di esistenza. Una fenomenologia e una ermeneutica della finitezza e dell’impermanenza, a tutti gli effetti, che spesso si esprime per calembours e paradossi, intesi come controlli severi ed esperimenti cruciali sui limiti del nostro linguaggio e della visione del mondo che su di esso si basa. L’insieme di questi giochi linguistici converge graficamente poi verso il punto, da una parte e il trattino basso, dall’altra. La punteggiatura, nella poesia di Cristina Bove in generale, risulta pressoché assente ma tale assenza indica il suo esser tra le righe, il suo essere stata completamente assorbita (sospesa, messa in mora, epochizzata) nel fraseggio e nella versificazione. O se si preferisce nel fondo del suo dettato poetico. Tranne che nell’unico caso, nella presente raccolta, in cui compaiono dei puntini di sospensione (61) a marcare l’irrazionale poetico. O in quello, assolutamente singolare, della poesia dal titolo esplicito, “.mettere un punto” (86), dove il punto appare in posizione anomala, a inizio frase, e messo in correlazione coi trattini bassi  che compaiono nell’ultimo verso del componimento. L’uso del trattino basso è invece estremamente frequente, nell’intera poesia di Cristina Bove, fungendo quasi da supplemento alla punteggiatura rarefatta e indicandone infine lo sprofondamento nell’abisso della dizione. I trattini bassi, vera e propria ossessione grafica della nostra autrice, croce e delizia dei suoi editori, non sono certo un vezzo ma costituiscono il tratto distintivo della sua versificazione, il suo svolgersi al limite dello spro-fondamento del discorso, del riassorbimento delle figure della espressione (Ausdruck) sul fondo (Abgrund) della nuda vita. L’uso del trattino basso, il tratteggio ritmico-semantico che funge da basso continuo della sua versificazione, costituisce inoltre la condensazione grafica di quel fraseggio (Ausdruckweise) e di quella lievitazione del dire (Schweben) che ho indicato all’inizio e che caratterizzano in modo inconfondibile la sua poesia. Mentre il punto anomalo è qui manifestazione grafica della coincidenza delle varie prospettive, o fasci di luce coerente riflessi-rifratti dal s/oggetto della rappresentazione, a costituire quella configurazione ologrammatica del discorso che ne rappresenta un’altra caratteristica saliente. Il punto, infine, qui segna il limite di quella funzione di dis/orientamento al mondo che è propria della poesia in generale, ma che qui assume tutti i connotati di una ascesi della parola e di una sobria composizione del luogo del discorso attraverso un costante esercizio di eliminazione del superfluo, in una pratica della sottrazione che è da attendersi in una poeta che è anche scultrice e il cui alter ego, in una recente raccolta, appare come “Una donna di marmo nell’aiuola”.  

                                                                                 *      

Per corroborare la linea ermeneutica adottata, sarà ora opportuno fornire alcuni esempi di ordine tematico-strutturale. A partire proprio dalla messa a punto della propria poetica che  Cristina Bove compie nella poesia prima menzionata (“.metter un punto”) e che val la pena citare per intero, per dare una idea dello spessore e della consapevolezza del suo dire: “Per solidificare la parola estinta/_il suo vissuto termina sul foglio_/magari farle un monumento/solo di interpunzioni/dedicarlo ai poeti che non scrivono/           Mi ci metto/perché non ho mai scritto un bel silenzio/perché non ho saputo eliminare/una vita di sillabe/           mi arrendo nel mimare un’esistenza/_tra due trattini stesi_”. (86) Questa lirica è nel contempo un compendio della sua poetica e una convalida di quanto abbiamo osservato: tutta giocata com’è sulla linea d’ombra, sulla lievitazione tra vita e forma, mondo e linguaggio, cose e parole: su quello schweben che abbiamo menzionato all’inizio e che implica anche una sorta di sospensione del giudizio di esistenza  (o epoché trascendentale) del mondo ricevuto, che qui viene messa a tema e in forma, tutta racchiusa fra il punto anomalo dell’inizio e i due trattini stesi alla fine, che insieme sottolineano e sdoppiano, sottendono e mettono in mora, il valore dell’enunciato, cioè della loro stessa verbalizzazione. Questo per dire tutta la sottigliezza, complessità, condensazione, humour, ironia e lucidità di cui è capace Cristina Bove. Che qui in partenza si esercitano sullo statuto stesso della poesia, “la parola estinta” in quanto “il suo vissuto termina sul foglio” e dunque anche il luogo in cui la vita trapassa e si fissa nella parola. E su quello dei poeti, che vengono chiamati in causa con elegante sprezzatura, come coloro che nutrono “una vita di sillabe” ma che non riescono mai a giungere al cuore del reale galleggiando sulla superficie del discorso.  Una sprezzatura che però presto si volge in autoironia poiché lei stessa afferma di non aver mai  “scritto un bel silenzio”.  

In questi versi, metricamente calibrati e variati, vien fuori la perfetta congruenza tra la fluttuazione metafisica e il fraseggio poetico, come tratto fondante e distintivo della versificazione di Cristina Bove. E si tratta di una declinazione singolare e memorabile di quello Unter-Schied (differenza-relazione o interferenza fra linguaggio e mondo) che per Heidegger costituisce il sostrato della poesia in quanto tale e che qui nel testo di Cristina Bove si traduce graficamente nell’uso insistito del trattino basso. Si tratta dunque di una messa a punto onto-logica del proprio dire che si esprime poi in un metro e in una sintassi meravigliosamente esatti e variati, in un minidramma della ipostasi della parola scritta che, fra peripezie e riconoscimenti, squisitamente infine si arrende al silenzio che la attende. Per cui questa ironia che non fa sconti, questa umanissima certificazione dei propri limiti, umani e poetici, finisce per tramutarsi infine, in virtù del suo proprio stesso disincanto, in una muta domanda che esprime tutta la pietà del pensiero. E infatti, nel componimento seguente, il tratteggio poetico rivela la trama esistenziale da cui è sotteso: “le questioni mai risolte/tra la vita e la morte” (87). Quella sospensione dei mortali che sanno di “esistere per poco” e null’altro sapendo sospettano di essere solo “sogni/di un dio che ad ogni suo risveglio/ha già dimenticati.” (ibid.)    

Ma la fluttuazione ontologica è endemica nella poesia di Cristina Bove, e i suoi tratti ritornano in una molteplicità di profili e intagli come accade, con evidente allusione alle opere di Lucio Fontana, nella poesia “Fontaniana” appunto, dove il taglio della tela di un quadro appare come un “varco tra pensiero e corpo” (83) e pertanto assume la valenza metafisica del frammezzo, “la zona franca aperta sulla tela” fra essenza e apparenza, in quel continuo dialogo fra essere e coscienza che si svolge nei suoi versi, senza che le due parti possano mai veramente scindersi né coincidere, (“_perché il male ci dispensa dall’amalgama_”), (ibid.) come monadi che danzano alla cieca il ballo in maschera dell’esistenza, in bilico sul filo del rasoio, in attesa di una finale messa a punto di cui ignorano il tempo e il luogo. Questa arlecchinata metafisica ha peraltro già avuto un’esposizione magistrale nella splendida “Maestri (s)concertatori” dove “in un emiciclo di ripercussioni”, (44) l’intera sinfonia dell’esserci appare intesa a “lustrare gli occhi spersi di chi sa/che tutto muore/come le note già suonate/nella toccata e fuga di se stessi.”  Su questa stessa pratica della espressione  fenomenologicamente sospesa sul fondamento nullo dei suoi trattini bassi, del fraseggio come correlativo verbale del frammezzo esistenziale tra dettaglio e disegno, nomi e cose, essere e coscienza, si veda per esempio anche l’impeccabile umorismo di “Inquilini e scalatori” dove ci si può esprimere solo “Per interposta ragnatela”, (53) perché “non si trova il modo/di dare un altro nome a ciò che accade”, e ci si trova “intrappolati ai muri e ai versi”, presi in tenzoni futili, quasi dimentichi che “tanto sarà per poco” e che ci tocca “nel frattempo/vivere di miracoli a ritroso/esserci quanto basta”. E dove infine la charis (grazia, dedizione e cura) di ogni dire risulta funzionale a riempire il frattempo che ci divide dall’attimo fatale.    

L’equivalenza tra frammezzo esistenziale e fraseggio verbale, viene sviluppata ancora nella lirica che segue, “Considerando il dentro e il fuori”, dove la sinfonia dell’esistenza trova ulteriori accordi nel tenore metapoetico del testo e la commedia umana nuovi scenari, (tra dentro e fuori, tra essere e coscienza), un intero copione di metafore gastronomiche che riconducono l’ispirazione poetica alla sua base organica, mentre la poesia appare ancora una volta come farmaco (rimedio-veleno) contro il male di vivere: “sta quasi per accendersi la festa/si pronuncia l’antitodopoesia da bocca a bocca” per render il “mondo commestibile” e chiudere gli occhi sui “_transiti scatologici_”/di questa mascherata cromosomica/che ci consegna ad un perenne oblio.” Mentre “l’aria che si annida negli alveoli, ad ogni inspirazione/incendia le apparenze e ci consuma/           malgrado innumerevoli varianti, siamo carboni ardenti”. (54) La ironica e spassionata demistificazione dell’arte sfocia infine, nella lirica seguente, in quella della religione, dove “il dio dei fallimenti programmati/in palinsesti onirici” (55) per non farci accorgere “che non esiste porto/né un orizzonte per colare a picco”, viene rappresentato in tutta la sua comica impotenza mentre “è lì che aspetta il sorgere del mondo”.

Su questi incroci prospettici fra realtà e rappresentazione, si producono dunque quelli che ho chiamato gli ologrammi poetici di Cristina Bove, nel senso degli incroci di prospettive o di raggi laser sull’oggetto che appare così traslucido e multidimensionale. Ma anche nel senso di una inclusiva grammatica della creazione che sa mettere insieme dettaglio e disegno, in una fantasmagoria dell’esistenza che è nel contempo lucidissima e visionaria. Questo “Paradigma ologrammatico” (significativo anche in vista delle sue applicazioni all’arte digitale di Cristina) trova d’altronde una esatta definizione nella lirica eponima, dove lo sdoppiamento e la fluttuazione ricorrente fra essere e coscienza, dettaglio e disegno, micro e macrocosmo, trovano una messa a tema e una definizione esplicita: “è che assistiamo/_contemporaneamente_/ad ogni tempo della nostra vita/il vivere e il morire a ogni momento/essere il sognatore ed il suo sogno”  perché “di fronte ad uno schermo/siede il frammento e tutto l’universo” (50): un disegno frattale impeccabile che va ad arricchire l’ologramma poetico-esistenziale, in cui lo sdoppiamento di essere coscienza, reso in una costante variazione aspettuale e prospettica, distillato nell’alambicco di un linguaggio senza fronzoli, genera quella geometrica veggenza che caratterizza la poesia di Cristina Bove: “immagine riflessa _pupille come fori_/negli occhi innumerevoli e diversi/attraversati dalla stessa luce/un solo aspetto/eppure il tutto riversato in esso/nell’illusoria percezione che/ci si veda soltanto un po’ per volta”. (ibid.) E qui si nota chiaramente come l’oscillazione caratteristica del dettato di Cristina Bove, non riguarda soltanto i diversi livelli di realtà ma anche l’ordine temporale dell’accadere, muovendosi tra due tagli verticali (Kairoi), l’attesa dell’evento ineludibile della morte e il ricordo non già della nascita, ma di un evento traumatico, di un tentato suicidio, in una notte “del trentuno agosto/che lei precipitò dalla ringhiera/e poi si addormentò sul marciapiede” (83). Evento che assume però qui i connotati gnostici della metempsicosi, di una caduta dell’anima nella prigione del corpo, segnando l’inizio di quel dialogo fra sé e sé, di quello sdoppiamento, prospettico ed esistenziale, e di quella veggenza  che caratterizzano la poesia di Cristina Bove: “io me ne andai/lasciandola sul posto_ venni al mondo/pagandomi l’accesso dal balcone.”, “Però le ho sempre raccontato tutto/e lei non ha mai smesso di volare/_non si ricorda d’essere atterrata_/:sogna di me piombata sull’asfalto/sagoma disegnata con il gesso/e nel suo sogno lei si crede viva/ed io nel mio fingo d’essere morta”. (ibid.) Questo dialogo fra self and soul, che mi ricorda una splendida poesia di W.B. Yeats, costituisce l’arco teso su tutta la poesia di Cristina Bove, l’arcobaleno iridescente che contiene tutte le sfumature della sua veggenza e i magnifici doni che essa sa offrirci, e che a mio parere fanno di lei uno dei maggiori poeti viventi, ancora in attesa di un pieno e doveroso riconoscimento.  

Giuseppe Martella

 

 

 


martedì 15 dicembre 2020

Una donna di marmo nell'aiuola - prefazione di Annamaria Ferramosca




      Contro ogni marmo non resta che mendicare il sogno dei folli e dei poeti

Tra opere d’arte varia (pittura, scultura, video-art) e dopo tre raccolte di poesia pubblicate e il successo del romanzo autobiografico Una per mille, la poliedrica artista Cristina Bove ritorna alla poesia con questo nuovo incandescente libro, frutto di un imponente lavoro di introspezione e percezione del mondo e del suo senso.
 La donna di marmo nell’aiuola è proprio lei, l’autrice, che inscena il grandioso spettacolo della vita e pure la sfera oscura dell’oltrevita, indagando l’essenza dell’umano e del mondo, incalzando con testi serrati la stessa esistenza a rivelare il versante indicibile, tutta la sua assurdità, perfino ad ammetterne il possibile non-sense. Attraverso un andamento simil-poematico che procede per testi separati, ma che risultano tutti interconnessi e senza rompere l’opera in sezioni, Cristina Bove dipana le sue interrogazioni metafisiche e lo fa con toni lievi, quasi dialoganti, e con una continua sottile ironia, che salva la scrittura dal rischio di sconfinamento filosofico.
Ritorna la sua visione cosmica - gli esseri come frammenti di infinito nell’infinito – o come lembi vaganti di pensiero o anche nomi in volo che aspettano di essere riconosciuti, comunque minime cosmiche entità in un continuo gioco del ritrovarci dopo esserci persi. Una verità ineludibile, che gli umani continuano a non vedere, perché oscurata dai guasti che essi stessi insistono a perpetrare sul mondo, quasi in una maledetta coazione a ripetere, un destino gramo che fa dimenticare l’immenso da cui si proviene. Ecco perché l’autrice dichiara di restare in attesa dell’andata e del non ritorno, come per ritornare alla serenità dell’origine, e di sentirsi già nel momento del trapasso tra fuoco e ghiaccio, chiedendo per sé solo un prato di giunchiglie (l’aiuola del titolo, metafora di uno spazio di pace). La ricerca di senso accade per visioni oniriche e sprazzi dal sapore profetico, con figure di creature mitiche che nel ricordo della poetessa emergevano dalle mura domestiche già dalla lontana infanzia e che - come simboli di illusione – la informano della possibile totale inconsistenza della realtà.
e non si appare che vestiti vuoti
appollaiati alle finestre
vapori a fil di vento
a tessere giornate in spazi assenti

città dipinte nei colori onirici
intorno a tutti i sé temuti e amati
-ci si può stare in tanti –
suggeriscono strade sul confine
oltre le cose conosciute e solide
varchi da cui si possa intravedere
un altro esistere               - forse -            (n.9)
E l’ironia, che a volte sconfina nel sarcasmo, è il corrimano cui Bove si aggrappa per resistere al senso di vuoto che avverte, devastante, come nei versi
L’aria che avvolge i corpi
è il calco d’ogni forma
-una fusione a cielo perso -   
e
anime confinate nei minuti
- lo spazio, un vuoto a rendere -         (n.11)
 Perfino il possedere una stanza tutta per sé, di woolfiana memoria, non basta a diradare la nebbia persistente. Restano i bambini, figure-archetipo della pura percezione della verità, a intuire e suggerire, e resta l’amore, che in questo buio-luce è ineliminabile fuoco. Anche se dell’amore non si può dire - di fronte alle macerie umane che sommergono - sia per eccesso di pudore, sia perché è quasi impossibile un vero amoroso incontro, nonostante la vicinanza degli amanti.     

Con il suo naturale andamento metrico in settenari ed endecasillabi e nel lessico l’uso frequente  di termini polifusi,     l’affabulare poetico di Cristina Bove procede in sonora tensione ritmica e forza immaginativa indagando bellezza e fragilità del mondo e scavando nelle pieghe dell’io, snodi cruciali di questa poetica. Bove pure riconosce le difficoltà dello scavo e la distanza che sempre si frappone con il proprio focus di verità, quel “segreto centro” borgesiano, sorgente di suggestioni e tracce rivelatrici, eppure mai completamente raggiungibile.

E centrale appare il testo Desistenze (n.39), dove è inscenato un dialogo tra la poetessa e un altro - non importa chi sia, compagno di vita o amico/a -, in cui il desiderio di ricomposizione di un’interiorità lacerata e pure la fame di salvezza da un sistema esterno che travolge l’umano, si scontrano con la consapevolezza di un destino di solitudine e di finale totale evanescenza. Resta potente la rappresentazione della miseria umana, dell’imperturbabile sordità dei responsabili al potere verso il grido che si leva dagli ultimi della terra. La poetessa si spinge così a prefigurare un’autoestinzione dei viventi, epilogo molto probabile dell’umana vicenda, forse - a parziale discolpa degli umani - con colpo finale dato da eventi catastrofici geologici, quando la Terra vorrà scrollarsi dalle pulci. (n.72)
Si percepisce nettamente da questa scrittura colma d’amarezza l’impronta di una cicatrice non rimarginata, l’esito di un fiero dolore-mancanza che ha capovolto quella capacità di visione che siamo soliti dire “normale”, rendendola acuta e nitida, fino all’incandescenza. E tutto questo accade in un perimetro privato, angusto come è quello domestico, tra un taglio di patate e una pentola lasciata bruciare, o uno sguardo sul giardino fuori dalla finestra: condizioni che qui invece dilatano e accelerano l’acuzie del pensiero, capace di lanciare fuori dal bunker una parola autentica, debordante, memorabile. Il suo ritmo curatissimo, il suo tono ora colloquiale, ora stralunato, dà vita ad una scrittura che Cristina Bove sa colorare di tinte inafferrabili e arcane, come fa con le sue oniriche e rarefatte opere di videoart. Basta soffermarsi sui testi E di siffatte favole dormire (n.59) e Come in un quadro di Chagall (n.60), dove, nonostante tutto, anche in contraddizione con altra tesi poeticamente sostenuta in precedenza, emerge - impellente di necessità - il desiderio di vicinanza e sostegno affettivo. Così la poesia di Bove lascia sottendere che, soprattutto in poesia, occorre fare i conti con la contraddizione, che non è altro che uno specchio della molteplicità del reale. Dal grigiore ci si può infatti sollevare volando, magari con le labili ali di Icaro che ci faranno ammarare senza salvagente, ma con la consapevolezza che ci sarà concesso di guardare quella turbolenza all’orizzonte, ultima parvenza di una possibile realtà benigna.
nel tempo limitato degli sguardi
nello spazio di cose sottoscritte
l’angelo che ci assiste se ne va
toccato e arreso
 ci lascia sopraffatti dalla vita
 spenti alla luna, accesi in altri mondi
ciascuno nella propria solitudine            (n.40)
Tutto il libro si rivela dunque un cammino che esplora senza paura i tanti aspetti del buio che ci sommerge, una voce familiare che sembra prenderci per mano, che ci lascia pure una sua ultima accorata richiesta di perdono e infine lancia una sorta di aperta profezia, che la vita forse sarà sempre un mendicare il sogno dei folli e dei poeti. (n.49)
Cristina Bove ha saputo costruire in questi nostri giorni disastrati e disconnessi un raro ed esemplare modello di poesia sul senso dell’esistere, con una scrittura limpida, coraggiosa, fuori da ogni maschera. Offrendo la propria inquietudine e la propria elaborazione poetica, e insieme una soglia raggiunta di serenità, la poetessa ha sospinto la parola oltre i confini della finitezza, laddove la sua comunicazione si fa più acuta e il senso intravisto degno di memoria. E’questa oggi la responsabilità che si richiede alla poesia.
                                                                                          Annamaria Ferramosca 
 

lunedì 30 novembre 2020

"La simmetria del vuoto" Recensione a cura di M. Carmen Lama

 

Cristina Bove - La simmetria del  vuoto - Arcipelago Itaca

 

 

Una silloge che si presenta in modo inusuale già dal titolo, questa di Cristina Bove, edita da Arcipelago Itaca nel 2018: La simmetria del vuoto.

Ma come fa il vuoto ad essere simmetrico? Come fa Cristina Bove a immaginare di poter attribuire al vuoto delle caratteristiche topologico-geometriche come la simmetria?

E poi, quale tipo di simmetria ha in mente Cristina? Quella speculare, o rotatoria-radiale, o traslatoria che si usa nell’arte pittorica? 

Certo è che si tratterebbe, nell’arte poetica, così come nell’arte pittorica, di dare equilibrio e armonia all'opera in cui si utilizza, cosa che certamente riesce in questa silloge all’autrice.

Ma è l’immaginazione del vuoto sottoposto a qualsiasi operazione, geometrica o artistica o d’ogni altro tipo, che pone un dilemma: si può dare una forma, qualunque essa sia, a qualcosa che non è?

O il vuoto ha consistenza? E se sì, di che particolare “materia” si tratta? E dove si trova il vuoto? Avrà un suo luogo dove poterlo osservare o è solo un’illusione meta_fisica? 

Ecco, cominciando da così tante domande, si intuisce che si sta per entrare in un mondo tutto da esplorare, da scoprire e da com_prendere.

E che bisogna munirsi di strumenti sofisticati per riuscire a venirne a capo. 

Nella silloge non c’è alcuna poesia che faccia esplicito riferimento al concetto di simmetria del vuoto. Tutte le poesie, però, hanno caratteristiche abbastanza simili, non tanto nella struttura compositiva, quanto nell’adattamento dei versi a quel che viene trasmesso, sia pure senza una vera e propria consapevolezza intenzionale.

La confrontabilità delle poesie sul piano dell’intreccio formale e contenutistico-emozionale, che è quanto arriva al lettore (parlo per me, in questo caso, ovviamente), balza così in primo piano che se ne potrebbe fare una rappresentazione visiva attraverso uno schema, semplicemente servendosi di versi-chiave: alcuni che mettono in evidenza un vissuto di sofferenza psichica, ma non particolarmente accentuata, bensì quasi sfumata, altri che tentano un’evasione in qualche oasi di positività, così da equilibrare il senso di malessere che pervade l’animo.

Darò soltanto alcuni esempi, per rendere più chiaro quanto appena scritto, che rimanda alla mia personale percezione:

e dirsi in versi

forse nel tentativo di sottrarsi

non solamente al male

ma anche alla terribile bellezza

che annichilisce e ammalia (pag. 14)

vestirsi del saluto d’ogni giorno

scriversi addosso che la vita è vita

se si rimane svegli

dagli ibridi parlanti   dalle parole obese

dalle follie diacroniche

mi allontano _spossata_ (pag. 15)

vestita solamente del mio dire

ché preferisco tinte delicate

se proprio devo esprimere un pensiero

ciò che nessuno vede per davvero

è la prigione dove stagna il cuore (pag. 24)

trovare pace in zone misteriose

dove si fa preghiera l’intelletto

e senza più parole

dire di sé quanto rimane acceso

 

raccolsi ogni tuo modo di morire

non potevo sapere

quanto ti avrebbe consentito il vivere (pag. 62)

Ed in quell’altro modo ch’è restare

sfogliandosi di tutte le risposte

scriversi un colorato ricordare

braccata dalla nostalgia

si percepiva sempre più straniera (pag. 69)

_ne verrai fuori_

dissero dalla luce sopra il pozzo

in cui precipitò

[…]

come in un fermo-immagine

vede con gli occhi chiusi

luminose nonforme ad aspettare

Vagabondare intorno ai propri passi

nel guscio della casa

o starsene sospesi  (pag.73)

si va restando immobili nel corpo

si sta mentre si spazia oltre il sensibile

nell’universo dell’iperesistere

la strada andava ed era in viaggio il suolo

correva sotto il premere dei passi

_a volte mi mostrava denti aguzzi_

ingranaggi serpenti

capelli di medusa nello specchio

ed io guardai

[…]

la mia canzone già precipitava

-hai visto- disse il monte dalla vetta?

-hai visto come cade giù la sera?-  (pag. 76/77)

Ma distolsi lo sguardo

misi il pensiero in stallo

vidi me stessa uscire dalla roccia

e fui soltanto un ruscellare d’acqua

 

E si potrebbe continuare con molti altri simili modelli.

Ma preferisco passare a dare spazio “anche” ai pensieri di Cristina, così come li ha esternati in alcuni versi:

ci si ammalava di pensieri morti” – p. 39

pensiero ricorrente che attanaglia” – p. 68

“_era una volta liscio ogni pensiero_” – p. 72

“_le scorte di pensieri andate a male_” – p. 74

tra cocci di pensieri” – p. 84

 

Questi pochi versi evidenziano quale modalità di pensiero sia sottesa alla percezione della realtà da parte di Cristina, in questa particolare silloge.

Non ci sono poesie in cui si possa cogliere la delicatezza del porgere il proprio malessere senza farlo trapassare nel lettore, perché subito stemperato dall’ironia; ironia che, nelle precedenti sillogi, era più “dominante” e smussava, appunto, ogni pensiero pietroso, aguzzo, che incideva ferite nell’anima della poetessa e che, per questa sua dolorosa caratteristica, doveva essere in qualche modo neutralizzato. 

Qui si coglie invece quasi una rassegnazione, una disillusione e, per contrasto, una precisa consapevolezza dell’irrimediabilità delle spine del tempo, delle sue lacerazioni e dei suoi strappi, della sua continua limatura del corpo ma anche degli stessi pensieri. 

Quasi mai il tempo è esplicitamente menzionato. Ma se ne coglie tutta la sua forza e pesantezza e nello stesso tempo tutto il suo sfuggire senza mai lasciarsi guidare né tanto meno dominare.

Il tempo infatti non fugge, ma semplicemente sfugge. Quanto più si vorrebbe agguantarlo, tanto più sfugge alla nostra presa. Ed è questa nostra incapacità di incidere almeno un poco sulla realtà, dominata dal tempo che la usura, quel che ci lascia interdetti e impotenti, specialmente mentre sentiamo che l’anima non si lascia sottomettere, anzi cerca ancora spazi per sé, non più scalpitando, ma chiedendo soltanto giustizia.

Ma poi, no. Si accorge, con una piena evidenza, non consentita alla mente, che  il vuoto, compatto o rarefatto, comunque sia è perfettamente sovrapponibile e coincidente con se stesso in ogni punto, in ampiezza e in profondità. E se suddiviso idealmente in due metà, è davvero anche simmetrico e sovrapponibile a specchio. E se immaginato sferico, sovrapponibili saranno gli spicchi di vuoto.

E l’anima sa anche che è inutile chiedersi dove esso si trovi.

Perché non si saprebbe dove trovare le risposte. Non si saprebbe dove cercare, non certamente in qualche modalità esperibile nel concreto, con tanto di sperimentazione, né in modo logico-formale.

E neppure nella geometria.

E tuttavia, l’anima sa bene cosa sia il vuoto, anche se la mente non sa definirlo o localizzarlo.

Perché è proprio lei che ne subisce gli attacchi.

Il vuoto toglie la consapevolezza di essere quel che si è, ci fa sentire nulla, un vuoto, appunto! Che tautologico mistero!

A volte, è talmente insopportabile la sua insidia che tentiamo di colmare tutte (crediamo…) le sue concavità e asperità, siamo portati a pensare che somigli un po’ al silenzio assoluto e per questo lo riempiamo di parole. Talvolta soltanto di pensieri.

Non ci accorgiamo, però, che ogni volta rimangono angoli fessure depressioni imbuti di vuoto che non riusciamo a raggiungere, perché sfuggenti sempre oltre, in direzione di uno sbocco “naturale” nell’infinito, perché tale è la sua essenza e dimensione: l’infinito.

Inutile provare ad ampliare i nostri raggi d’azione. Siano pur raggi luminosi, come le poesie di questa silloge, non ci conducono mai fino agli estremi limiti, nonostante in qualche modo sentiamo una specie di promessa di vittoria e per questo mettiamo in campo tutti gli sforzi necessari.

Ma il risultato non cambia. La nostra volontà è insufficiente, anche se è lodevole esplicarla al massimo.

Alla fine bisogna arrendersi, spossati, insoddisfatti. Proprio come fa Cristina Bove che, pur cercando spiragli di luce, di benessere, sa che sono provvisori, effimeri, illusori.

Ma ciò non vieta di riprendere nuovo slancio e riprovare ancora e ancora e ancora… magari con la scrittura di nuove poesie che, a loro modo, si configurano come un antidoto al tempo che ci travalica, ci oltrepassa. Al tempo che forse ci permetterà soltanto di fare -da soli- gli ultimi passi, abbandonando, lui-subdolo, la nostra pur fragile presa.

Intanto ci sentiamo come esseri in dissolvenza… con l’amara consapevolezza che niente e nessuno ci potrà trattenere dallo scivolamento…

Forse la sensazione di vuoto è costitutiva dell’animo umano, come la solitudine.

Ora non so con precisione da quali sensazioni, emozioni o atmosfere Cristina Bove sia stata attraversata scrivendo le poesie di questa sua raccolta, né in che modo abbia voluto intenderle.

So soltanto, e senza dubbio, che questa mia interpretazione risente moltissimo di mie suggestioni, mentre Cristina avrà forse scritto con altri intenti e con altre sue percezioni.

Ma la poesia vive di vita propria ed è efficace ed incisiva se dà al lettore quel che egli chiede.

A me, la lettura delle poesie di questa peculiare silloge ha dato quel che ho voluto/potuto sentire in questo momento, in questo tempo ingrato che, oltre ad essere il mio specifico tempo, è anche un tempo universale, un tempo che si aggira per il mondo eludendo i suoi obblighi e le sue promesse, mentre, con irresolubile nonchalance, anche (e soprattutto!) raggira.

E ci lascia vuoti, completamente vuoti di senso, del tutto disincantati. Noi, brevi segmenti di Tempo, sottilissime linee di demarcazione fra il nulla che ha preceduto l’inizio della nostra vita e il nulla che ne seguirà la fine.
Noi, linea di mezzo | specchio in cui il vuoto del prima riflette esattamente, simmetricamente, il vuoto del dopo. Vladimir Jankélévitch
docet!



(Robbiate, 21.12.2020)