martedì 15 dicembre 2020

Una donna di marmo nell'aiuola - prefazione di Annamaria Ferramosca




      Contro ogni marmo non resta che mendicare il sogno dei folli e dei poeti

Tra opere d’arte varia (pittura, scultura, video-art) e dopo tre raccolte di poesia pubblicate e il successo del romanzo autobiografico Una per mille, la poliedrica artista Cristina Bove ritorna alla poesia con questo nuovo incandescente libro, frutto di un imponente lavoro di introspezione e percezione del mondo e del suo senso.
 La donna di marmo nell’aiuola è proprio lei, l’autrice, che inscena il grandioso spettacolo della vita e pure la sfera oscura dell’oltrevita, indagando l’essenza dell’umano e del mondo, incalzando con testi serrati la stessa esistenza a rivelare il versante indicibile, tutta la sua assurdità, perfino ad ammetterne il possibile non-sense. Attraverso un andamento simil-poematico che procede per testi separati, ma che risultano tutti interconnessi e senza rompere l’opera in sezioni, Cristina Bove dipana le sue interrogazioni metafisiche e lo fa con toni lievi, quasi dialoganti, e con una continua sottile ironia, che salva la scrittura dal rischio di sconfinamento filosofico.
Ritorna la sua visione cosmica - gli esseri come frammenti di infinito nell’infinito – o come lembi vaganti di pensiero o anche nomi in volo che aspettano di essere riconosciuti, comunque minime cosmiche entità in un continuo gioco del ritrovarci dopo esserci persi. Una verità ineludibile, che gli umani continuano a non vedere, perché oscurata dai guasti che essi stessi insistono a perpetrare sul mondo, quasi in una maledetta coazione a ripetere, un destino gramo che fa dimenticare l’immenso da cui si proviene. Ecco perché l’autrice dichiara di restare in attesa dell’andata e del non ritorno, come per ritornare alla serenità dell’origine, e di sentirsi già nel momento del trapasso tra fuoco e ghiaccio, chiedendo per sé solo un prato di giunchiglie (l’aiuola del titolo, metafora di uno spazio di pace). La ricerca di senso accade per visioni oniriche e sprazzi dal sapore profetico, con figure di creature mitiche che nel ricordo della poetessa emergevano dalle mura domestiche già dalla lontana infanzia e che - come simboli di illusione – la informano della possibile totale inconsistenza della realtà.
e non si appare che vestiti vuoti
appollaiati alle finestre
vapori a fil di vento
a tessere giornate in spazi assenti

città dipinte nei colori onirici
intorno a tutti i sé temuti e amati
-ci si può stare in tanti –
suggeriscono strade sul confine
oltre le cose conosciute e solide
varchi da cui si possa intravedere
un altro esistere               - forse -            (n.9)
E l’ironia, che a volte sconfina nel sarcasmo, è il corrimano cui Bove si aggrappa per resistere al senso di vuoto che avverte, devastante, come nei versi
L’aria che avvolge i corpi
è il calco d’ogni forma
-una fusione a cielo perso -   
e
anime confinate nei minuti
- lo spazio, un vuoto a rendere -         (n.11)
 Perfino il possedere una stanza tutta per sé, di woolfiana memoria, non basta a diradare la nebbia persistente. Restano i bambini, figure-archetipo della pura percezione della verità, a intuire e suggerire, e resta l’amore, che in questo buio-luce è ineliminabile fuoco. Anche se dell’amore non si può dire - di fronte alle macerie umane che sommergono - sia per eccesso di pudore, sia perché è quasi impossibile un vero amoroso incontro, nonostante la vicinanza degli amanti.     

Con il suo naturale andamento metrico in settenari ed endecasillabi e nel lessico l’uso frequente  di termini polifusi,     l’affabulare poetico di Cristina Bove procede in sonora tensione ritmica e forza immaginativa indagando bellezza e fragilità del mondo e scavando nelle pieghe dell’io, snodi cruciali di questa poetica. Bove pure riconosce le difficoltà dello scavo e la distanza che sempre si frappone con il proprio focus di verità, quel “segreto centro” borgesiano, sorgente di suggestioni e tracce rivelatrici, eppure mai completamente raggiungibile.

E centrale appare il testo Desistenze (n.39), dove è inscenato un dialogo tra la poetessa e un altro - non importa chi sia, compagno di vita o amico/a -, in cui il desiderio di ricomposizione di un’interiorità lacerata e pure la fame di salvezza da un sistema esterno che travolge l’umano, si scontrano con la consapevolezza di un destino di solitudine e di finale totale evanescenza. Resta potente la rappresentazione della miseria umana, dell’imperturbabile sordità dei responsabili al potere verso il grido che si leva dagli ultimi della terra. La poetessa si spinge così a prefigurare un’autoestinzione dei viventi, epilogo molto probabile dell’umana vicenda, forse - a parziale discolpa degli umani - con colpo finale dato da eventi catastrofici geologici, quando la Terra vorrà scrollarsi dalle pulci. (n.72)
Si percepisce nettamente da questa scrittura colma d’amarezza l’impronta di una cicatrice non rimarginata, l’esito di un fiero dolore-mancanza che ha capovolto quella capacità di visione che siamo soliti dire “normale”, rendendola acuta e nitida, fino all’incandescenza. E tutto questo accade in un perimetro privato, angusto come è quello domestico, tra un taglio di patate e una pentola lasciata bruciare, o uno sguardo sul giardino fuori dalla finestra: condizioni che qui invece dilatano e accelerano l’acuzie del pensiero, capace di lanciare fuori dal bunker una parola autentica, debordante, memorabile. Il suo ritmo curatissimo, il suo tono ora colloquiale, ora stralunato, dà vita ad una scrittura che Cristina Bove sa colorare di tinte inafferrabili e arcane, come fa con le sue oniriche e rarefatte opere di videoart. Basta soffermarsi sui testi E di siffatte favole dormire (n.59) e Come in un quadro di Chagall (n.60), dove, nonostante tutto, anche in contraddizione con altra tesi poeticamente sostenuta in precedenza, emerge - impellente di necessità - il desiderio di vicinanza e sostegno affettivo. Così la poesia di Bove lascia sottendere che, soprattutto in poesia, occorre fare i conti con la contraddizione, che non è altro che uno specchio della molteplicità del reale. Dal grigiore ci si può infatti sollevare volando, magari con le labili ali di Icaro che ci faranno ammarare senza salvagente, ma con la consapevolezza che ci sarà concesso di guardare quella turbolenza all’orizzonte, ultima parvenza di una possibile realtà benigna.
nel tempo limitato degli sguardi
nello spazio di cose sottoscritte
l’angelo che ci assiste se ne va
toccato e arreso
 ci lascia sopraffatti dalla vita
 spenti alla luna, accesi in altri mondi
ciascuno nella propria solitudine            (n.40)
Tutto il libro si rivela dunque un cammino che esplora senza paura i tanti aspetti del buio che ci sommerge, una voce familiare che sembra prenderci per mano, che ci lascia pure una sua ultima accorata richiesta di perdono e infine lancia una sorta di aperta profezia, che la vita forse sarà sempre un mendicare il sogno dei folli e dei poeti. (n.49)
Cristina Bove ha saputo costruire in questi nostri giorni disastrati e disconnessi un raro ed esemplare modello di poesia sul senso dell’esistere, con una scrittura limpida, coraggiosa, fuori da ogni maschera. Offrendo la propria inquietudine e la propria elaborazione poetica, e insieme una soglia raggiunta di serenità, la poetessa ha sospinto la parola oltre i confini della finitezza, laddove la sua comunicazione si fa più acuta e il senso intravisto degno di memoria. E’questa oggi la responsabilità che si richiede alla poesia.
                                                                                          Annamaria Ferramosca 
 

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