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mercoledì 27 febbraio 2013

Recensione di M. Carmen Lama




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“Mi hanno detto di Ofelia” è un titolo assai intrigante per questa nuova silloge di Cristina Bove, che sembra sempre essere giunta all’apice del suo discorso poetico e invece constatiamo che con ogni sua nuova opera l’apice si sposta indefinitamente e si rimane con la sensazione (di per sé piacevolissima) di un’illusione ottico-mentale, anticipatrice di nuove attese… in un crescendo che non ha mai fine.

Ofelia è un personaggio tragico, una donna immersa nel fiume della sua vita-morte, del cui dramma viene a conoscenza l’amato-amante Amleto, ma solo quando questo si è ormai consumato. E lo stesso Amleto non ha consapevolezza della realtà della donna e dell’accaduto, né di se stesso. Cristina Bove entra perfettamente nel personaggio di Amleto per mostrargli la sua in_coscienza di uomo, mentre gli fa confessare di aver saputo della tragedia di Ofelia ma di non credere, o meglio, di non sapersi decidere a credere alla realtà del fatto e della stessa vita-morte dell’amata, personaggio nel quale pure la poetessa si identifica, con lo scopo implicito di rappresentare simbolicamente il destino tragico che la donna in quanto tale molto spesso subisce.
Dare voce alle donne attraverso le sue poesie, è una funzione che Cristina svolge con profonda empatia, e dare spazio ad Ofelia già nel titolo di un’opera in cui molte sono le poesie che attraversano la fatica dell’essere donna, in una società e in un mondo monco, è una scelta simbolica forte.
Diventa per il lettore una prima chiave di lettura dei testi poetici presentati in questa raccolta.

Ma ci sono altre aperture, così come ci sono altri incontri con la stessa anima poetica di Cristina Bove.
Non è semplice trasferire in una poesia il proprio sentire, facendosi nel contempo carico di rappresentare un vissuto che appartiene anche ad un universo più vasto del proprio.
Ma l’opera poetica di Cristina è una fucina in continua evoluzione, dove la regia sapiente della poetessa consiste nel creare sempre nuove forme con un materiale di base reso duttile dalle sue stesse idee. L’uso del linguaggio, infatti, è sorprendente sia per gli accostamenti lessicali arditi,  sia per le immagini originali composte, sia per le atmosfere che può respirare chi oltrepassa la soglia del suo laboratorio poetico.
Ed è proprio grazie a questo sperimentare sempre nuove forme che la poesia di Cristina emerge.
La sua ricerca è incessante e profonda, il mondo che scandaglia è quello invisibile ai più, ma che a lei semplicemente si mostra, richiedendole soltanto un’immersione, come in apnea, e un ascolto attento della vita che nel profondo della psiche e del mondo si svolge.

Questa fondamentale caratteristica del lavoro poetico di Cristina, comune soltanto ai veri poeti, è una modalità legata alla ricerca della coincidenza, e quindi dell’unità, tra l’essere e la realtà.
Soltanto nella visione poetica (o nel sogno) quest’unità può essere vissuta come tale, ma è necessario successivamente risalire in superficie, (o destarsi dal sogno) per rielaborare la visione.
Trovarsi immersi in una sorta di atemporalità, in un’assenza di tempo, fa sì che all’essere proprio si restituisca la “purezza” originaria, che coincide con l’assoluto, ed è questa l’unica condizione in cui per pochi istanti si vive la realtà così come essa è, con_fusa con l’essere, unità assoluta che soddisfa la ricerca poetica.  
La poesia salva l’invisibile che si mostra per qualche istante. E l’invisibile è come un fantasma, intercessore del tempo, che appare per un momento, prima che la corrente del fiume del tempo lo trascini via, solo per un istante, poiché non è sua natura il durare, l’estendersi nel tempo, perché questo lo altererebbe nel suo “essere”. Può tornare, sì, ma se si ferma un istante lo fa per ottenere l’unica cosa che può salvarlo: essere fissato in un istante perenne. Ed è proprio quest’azione del fissare l’istante, la visione fugace, quello che si richiede al poeta e quello che Cristina Bove fa con le sue poesie. Un sogno o una visione possono essere salvati, rendendoli visibili, facendoli entrare nel mondo della realtà che è quella del tempo, quindi attraverso la rielaborazione cosciente del risveglio, del ritorno in superficie, e della presa di coscienza di quel che è stato e della scrittura poetica.

Tale condizione si addice ad ogni essere umano, ma molto spesso (e comunemente)  non si è capaci di discendere nelle profondità della propria anima, né di ascoltarne i richiami o di decifrarne i messaggi, neppure quando nella totale inconsapevolezza sono i sogni ad alimentare la nostra psiche.
Per il poeta invece è un aspetto imprescindibile e lo è tanto più quanto più si affina la sua sensibilità. Diventa, alla fine, il suo habitus psico-mentale. Ed è anche, possiamo dire, la realizzazione del sé. Che però non è mai finita, mai definitiva, se ci atteniamo a quanto, in merito a ciò, ha chiaramente espresso Maria Zambrano in tutto il percorso filosofico del suo pensiero.
Ogni essere umano ha bisogno di rinascere ogni giorno, e compie questa sua rinascita attraverso il risveglio dal sogno e la rielaborazione dello stesso o, per il poeta, attraverso la rielaborazione delle sue visioni dell’invisibile, della ulteriorità del reale, o, in altri termini, attraverso l’intuizione della trascendenza di tutte le cose, degli esseri umani e dei viventi in generale.
Cristina Bove, a mio modo di vedere incarna al più alto grado l’essenza poetica, perché questa coincide con il suo essere la persona che è.

Nelle sue poesie, in particolare in quelle di questa raccolta, si trova la sua anima dislocata, anche a piccoli frammenti, nei versi, nelle figure retoriche, nei ritmi, nella liricità.
Anche quando una poesia parla di cose minime, di oggetti comunissimi e che si potrebbero definire insignificanti, a maggior ragione per questo aspetto vi si coglie un frammento lirico perché l’anima abbandonata alle minimalia sembra essere rassegnata. E questa scoperta segna inevitabilmente l’animo di chi legge.

In poesie come Bora, Una ciotola, Huaca, Riflesso marginale, Sbalordire, Perché la resa, Minime (?) COSE, Per aspera, VERSO IL TACERE, Daojiao, Legend, Fuori dal campo, è eclatante questo sentimento di marginalità in cui si sente risiedere la poetessa, e la lettura dei versi, se rallentata al ritmo del cuore di Cristina mentre “sentiva” quello che ha scritto, conduce immediatamente nei dintorni di una con_divisione del sentire.
Non una volta, ma più e più volte, leggendo e rileggendo le poesie di Cristina_Ofelia, ho provato questo senso di vicinanza con la sua anima, con il suo sentire profondo, qualcosa che mi fa essere partecipe di una vita SubLIMINALE, interiorità sofferta e lirica, appunto.

Senza pretendere di esaurire l’analisi delle poesie di questa silloge in una breve recensione, vorrei tuttavia segnalare due poesie per me fondamentali per individuare il senso più autentico anche di tutte le altre, proprio perché le ritengo emblematiche di un sentimento vitale che in qualche modo è scosso dalla vita stessa che procede su binari non previsti o non auspicati, come spesso accade per chiunque. Si tratta delle poesie Porta e Di solitudini.
La prima: Riconobbi la soglia / una fotografia fatta di vento / lo riportava a me dall’infinito // Il camino era spento e la finestra / si spalancava sull’eternità // le distanze incolmabili generavano spazio / su gradini sbreccati ero seduta / di crepa in crepa / a rattoppare il tempo.
La seconda: Alla tua solitudine lo posso raccontare / dei miei pensieri cavi, e delle notti / calate sulle rive di soppiatto. / Tu la conosci, è specchio al tuo sottrarti / anche la mia / ch’è sabbia, neve, voli e / speronate a picco. // A te lo posso dire, fatta di nebbia io sono / quindi nei vuoti d’aria m’abbandono / per una tregua minima / se vuoi / tu che ti specchi nel mio nulla / puoi, nella forma del buio, / porgere la tua mano alla mia assenza.
Non occorre commentare, credo. La bellezza e il senso di queste due poesie confermano (ovviamente, per me) il messaggio che ho recepito, sotteso nel complesso di tutte le poesie della silloge, e che ho cercato di esplicitare con questa recensione.

E in conclusione di questo breve resoconto della “mia” lettura della silloge Mi hanno detto di Ofelia, vorrei sottolineare, se ce ne fosse bisogno, l’eleganza dello stile di Cristina Bove, l’originalità e la personalità di ogni suo componimento, che inutilmente ci si sforzerebbe di incanalare in una qualche corrente poetica.
Sono poesie, le sue, frutto di un vissuto di immedesimazione nella vita di tutti i giorni e nella vita sociale, umana e universale, frutto anche di una cultura molto ampia che affiora in molti modi, e frutto di una sensibilità fine, di un’intelligenza intuitiva straordinaria, di una generosità insita nel DNA del suo animo che le rende molto naturale darsi, attraverso le poesie, agli animi sensibili dei suoi lettori.



27 febbraio
M.Carmen Lama 

sabato 31 ottobre 2009

recensione di Carmen Lama


Attraversamenti verticali
di Cristina Bove
- Il Foglio ed. -

Attraversamenti verticali dell’universo per scandagliarlo nelle sue infinite possibilità di enigmi e misteri, con la speranza di coglierne qualche minimo barbaglio?
Oppure, più semplicemente, ricerca accurata, a partire dalla propria esperienza, del significato dell’esistenza umana, di cui poter cogliere almeno i tratti essenziali?
In un caso e nell’altro, la ricerca della Bove non si presenta affatto come esercizio mentale semplice e non approda (non sarebbe possibile!) a risultati definitivi. Questa consapevolezza è così forte e profonda che passa nelle poesie sotto forma di struggimento, di melanconia, di incompiutezza, di quasi rassegnazione, a volte. Ma con il sottile intendimento di “tornare alla carica” prendendo vie nuove, cercando di scavare più a fondo, per giungere al momento in cui le cose, le parole, gli uomini e le loro caratteristiche essenziali hanno origine, come per poterne poi seguire passo passo l’evoluzione e comprendere così il perché di ogni cosa, di ogni fatto, di ogni comportamento. Ricerca filosofico-poetica a tutto tondo, insomma.
L’evidenza è però sempre velata da qualcosa che non permette di comprendere per intero, c’è sempre uno scarto tra quel che appare e quel che è. E ciò è tanto più vero, quanto più l’oggetto della ricerca poetica di Cristina è rivolta alla psiche umana, alle emozioni che danno vita ai sentimenti, talvolta così imprevedibili, talaltra così contradditori, oppure del tutto inspiegabili sotto il profilo logico, eppure così reali e profondi da costituire l’unica possibilità di esistenza per chi li vive.
Trattandosi della terza silloge poetica di Cristina, le considerazioni fin qui svolte possono ritenersi più che plausibili, in quanto, proprio con questa nuova raccolta, la Bove dimostra di stare costantemente in allerta, sul filo della continuità della sua ricerca, ma ora con nuove modalità espressive, con nuovi strumenti di indagine che le permettano un’analisi sempre più fine, sempre più approfondita.
Analizzando più da vicino le singole poesie, cominciamo a trovare una conferma di quanto sopra accennato, già a partire dalla bellissima Attraversamenti verticali, a cui fa da contrappunto Impermanenza.
Nella prima, viene utilizzata un’efficacissima metafora tratta dalla scultura, (altra arte in cui Cristina eccelle), per parlare del corpo come “modello a cera persa”, contenuto in un incavo (il calco) da cui ricavare l’impronta: ma è difficile estrarre la vera forma (come dire, l’essenza) dell’essere umano che, quanto più si sente in qualche modo minacciato nella propria interiorità, tanto più la difende contraendosi sempre più fino a mostrare solo la punta della fiamma (della propria vita, la parte più superficiale), attraverso la luce degli occhi. Ma è un lampo, un istante, e poi si ritorna a nascondere il proprio nucleo, il centro della propria anima, o così sembra agli altri, che non osano palesare nemmeno a se stessi l’incapacità di cogliere la vera essenza umana. E se qualcuno volesse credere d’aver compreso nel profondo l’altro da sé, sappia che di sola immagine riflessa (lune dipinte…) si tratta, sembra voler dire la poeta con gli ultimi tre versi, mentre continua a sentire la propria unicità, fluttuando lenta nell’ondeggiare delle poseidonie, incurante (e quasi compiaciuta) di non mostrare agli altri in modo completo il proprio vero sé. Qui si potrebbe forse anche intercalare un’interpretazione che mette in evidenza una sorta di inevitabilità: attingendo alla psicologia di Joe Luft e Harry Ingham, entriamo metaforicamente in uno dei quadranti della finestra detta di Johari (dalle iniziali dei loro nomi) e scopriamo che c’è una parte di noi che anche volendo non potremo mai svelare agli altri perché è ignota anche a noi stessi, ed è il nostro inconscio, che pure agisce in noi a livello profondo.
In questa poesia sono anche bellissime le immagini utilizzate nelle tre strofe e seguendole, attraverso le espressioni poetiche e metaforiche che le rappresentano, con un’analisi ancora più ampia di quanto abbiamo fatto con il primo scandaglio, sembra quasi di vedere i movimenti di questo corpo che si trova “costretto” in una forma che non ha scelto e da cui cerca quasi di divincolarsi per assumerne una più completa (nel cammino dell’esistenza, ogni essere umano cerca di migliorare, aspirando a realizzare la propria maturità in un modo che sia per sé sempre più soddisfacente), salvo mostrare la propria vitalità nel breve giro di boa dell’esistenza (sboccio come fiamma dalla brace) per spegnersi poi nella sabbia sul fondale. E qui riprendendo e continuando in altra forma la vita.
In quest’altro senso, ancora più complesso e direi, ancestrale, la poesia trova il suo completamento nella seconda indicata più sopra e che già dal titolo indirizza il lettore verso il significato: Impermanenza, infatti, è una qualità riferita al corpo, alla materialità dell’essere umano, che sperimenta la sua scarsa maniera di consistere, un’approssimazione per difetto e s’infila di sbieco nella storia, soffermandosi almeno un giorno a credere di essere, di stare, senza accorgersi invece che è tutta un’illusione, che il corpo è un’apparenza.
Sembra di ripercorrere qui la ricerca schopenhaueriana della distinzione tra il fenomeno, ciò che appare, e il noumeno, ciò che è la vera essenza, quest’ultima sempre nascosta dal velo di Maya, cosicché l’illusione si perpetua facendoci credere vero ciò che invece è solo mera apparenza.
Ho intenzionalmente mostrato il senso di queste due poesie, analizzandole per prime, perché questo senso filosofico dell’esistenza si ritrova poi sotteso in molte altre poesie nelle quali il contenuto è di tutt’altra natura: proviamo, ad esempio, ad entrare in Simbiosi con la natura, come fa Cristina costruendosi il suo attico in cima ai rami di un albero, da cui vedremo anche noi avanzare il nulla e non potremo far altro che racchiuderci dentro la nostra forma (che è umana e di albero nello stesso tempo, perché in questo ci siamo identificati simbioticamente), e sentire soltanto il respiro dell’anima, in attesa….
Così, ci accadrà di non essere compresi neanche da chi, pur essendoci stato vicino tutta la vita e pur potendo attingere ai ricordi, non se ne può servire a questo scopo, in quanto incapace di scrutare nel nostro nucleo più profondo, ha Lo sguardo altrove, esattamente come chi, dell’albero, vede solo la corteccia e invece ignora il suo modo di crescita, di cui solo gli anelli interni possono dar veramente conto.
In un’altra bella poesia, Vuoto, la Bove utilizza ancora la metafora dell’albero, ma questa volta assediato da rampicanti e piante parassite che si nutrono della sua linfa, lasciandolo sempre più vuoto: con questa immagine, ripercorre le sue sensazioni più intime, le sole capaci di ridestare la sua vitalità e di riempire il vuoto dell’esistenza, altrimenti visibile come abisso ignoto ed eterna solitudine.
Ancora riappare lo sfondo filosofico-esistenziale discusso più sopra, in una bella poesia d’amore, Accade, nella quale diventa possibile perfino toccare un sogno, accendere un sorriso tra le mani, pur non comprendendo il misterioso realizzarsi, vero, concreto, di questo atto. Infatti è la stessa poeta a sorprendersi per prima e ad essere contemporaneamente incredula e felice, tanto da esprimere l’audace desiderio che si potesse dipanare il sole (affinché permanga accesa la luce del cuore) / e che un prodigio tridimensionale / unisse due figure sul confine (passando dalla bidimensionalità del sogno, alla materializzazione e unione concreta dei due amanti).
In Capovolgimento, Cristina svela tutta la sua cruda consapevolezza che la verità si nasconde ai nostri occhi, proponendo di capovolgere la realtà per far sì che diventi quella che dev’essere, che i concetti significhino quello che si vuole con essi esprimere, e che anche il futuro si concretizzi nel modo voluto. Ma è solo un desiderio, ed è irrealizzabile.
E tuttavia, la poeta persiste nella sua volontà di mostrare la realtà dei sogni, ad esempio in un’altra bellissima lirica d’amore, SSSHHH, dove la descrizione dell’amato ha inizio con alcune titubanze, come se lei stessa non fosse del tutto sicura di ciò che vede.
Eppure, al minimo accenno di possibilità di considerare astratto l’amato, si erge a difesa della propria visione e lo rende così reale che lo si vede mentre con le sue campiture nette / ai quattro lati / nel giardino di rose a volte sbuca / e mi attraversa. Ride. Immagine nitidissima, quasi filmica.
Non è possibile esaminare nello specifico tutte le poesie, né sarebbe opportuno. Il farlo toglierebbe al lettore la responsabilità di comprenderle a suo modo, di seguire il suo intuito e la sua logica, forte del proprio background culturale che, solo, può aiutare a discernere il senso profondo di ogni creazione poetica.
Ma seguendo la scia segnata da alcuni argomenti che a Cristina stanno particolarmente a cuore, in questa come nelle sue due precedenti pubblicazioni, non si può lasciare sotto silenzio la sua attenzione alla sorte degli altri esseri umani, siano essi bambini, donne, o semplicemente gente comune che si lascia irretire da chi in vari modi sa indurre falsi bisogni, sa sacrificare gli altri a falsi idoli, sa impadronirsi della loro stessa anima: due esempi per tutte: Resto, e Velo. Quest’ultima particolarmente toccante, in quanto rivela come si possa del tutto cancellare un essere umano e la sua identità, spegnendo il nome sotto il manto. Qui è evidente il riferimento alla vessazione delle donne da parte di chi dovrebbe salvaguardarne in massimo grado la dignità.
Un ultimo accenno ad una lirica (Nulla da raccontare) in cui Cristina ripercorre un po’ la sua vita: da quando, ancora adolescente, credeva di non avere nulla da raccontare, a quando sopraffatta dal dolore e dalla sofferenza ancora credeva di non avere nulla da raccontare ma pregava che le fosse risparmiata la vita per potersi prender cura dei suoi affetti familiari, a quando scambiando versi poetici con altri cultori di poesia ancora credeva di non avere di suo nulla da raccontare, a quando finalmente ha sperato di poter avere tutto da raccontare a qualcuno che mostrava interesse ad ascoltarla, dovendo invece verificare che spesso la stessa vita si presenta in forma di metafora e il branco uccide a colpi di sorrisi: con un guizzo delicato quanto elegante, la lirica si conclude con un volo nel sole, cioè nella luce dell’esistenza, mettendo a frutto l’insegnamento dantesco (Inf. III, 51) del “non ragioniam di lor, ma guarda e passa”.
Una recensione che potesse dirsi all’altezza del libro che sta esaminando dovrebbe poter spaziare anche su altri aspetti che, in particolare nel campo poetico, sono ritenuti essenziali. E cioè, lo stile, la musicalità dei versi, l’originalità dei contenuti, il messaggio poetico, e quant’altro possa dar modo di comprendere che la lettura che si intraprenderà sarà stimolante e soddisfacente. Su tutti questi elementi invece non mi soffermerò, sia perché ritengo esaurita a questo punto la pazienza di chi sta leggendo queste mie riflessioni, sia soprattutto perché avendo recensito i due precedenti volumi di poesie della Bove, non farei altro che confermare la peculiarità del suo modo poetico di esprimersi, anche se mi piace sfidare il lettore a soffermarsi, da solo, nel modo e nel tempo che ritiene più opportuni, su quegli aspetti delle poesie qui non indagati, ferma restando la fiducia in ciò che ho all’inizio affermato e che ancora sottolineo: Cristina Bove, nelle liriche di questa raccolta, ha reso la sua ricerca poetica più sofisticata, ha sfruttato le sue potenzialità espressive ad alto livello, tuttavia mantenendo la sobrietà che la caratterizza come poeta e l’efficacia nella comunicazione delle sue emozioni più profonde, con l’umiltà che solo un grande poeta possiede.

Carmen Lama