“Mi hanno detto di Ofelia” è un
titolo assai intrigante per questa nuova silloge di Cristina Bove, che sembra sempre
essere giunta all’apice del suo discorso poetico e invece constatiamo che con
ogni sua nuova opera l’apice si sposta indefinitamente e si rimane con la
sensazione (di per sé piacevolissima) di un’illusione ottico-mentale,
anticipatrice di nuove attese… in un crescendo che non ha mai fine.
Ofelia è un personaggio
tragico, una donna immersa nel fiume della sua vita-morte, del cui dramma viene
a conoscenza l’amato-amante Amleto, ma solo quando questo si è ormai consumato.
E lo stesso Amleto non ha consapevolezza della realtà della donna e dell’accaduto,
né di se stesso. Cristina Bove entra perfettamente nel personaggio di Amleto
per mostrargli la sua in_coscienza di uomo, mentre gli fa confessare di aver
saputo della tragedia di Ofelia ma di non credere, o meglio, di non sapersi
decidere a credere alla realtà del fatto e della stessa vita-morte dell’amata,
personaggio nel quale pure la poetessa si identifica, con lo scopo implicito di
rappresentare simbolicamente il destino tragico che la donna in quanto tale molto
spesso subisce.
Dare voce alle donne
attraverso le sue poesie, è una funzione che Cristina svolge con profonda
empatia, e dare spazio ad Ofelia già nel titolo di un’opera in cui molte sono
le poesie che attraversano la fatica dell’essere donna, in una società e in un
mondo monco, è una scelta simbolica forte.
Diventa per il lettore una
prima chiave di lettura dei testi poetici presentati in questa raccolta.
Ma ci sono altre aperture,
così come ci sono altri incontri con la stessa anima poetica di Cristina Bove.
Non è semplice trasferire in
una poesia il proprio sentire, facendosi nel contempo carico di rappresentare
un vissuto che appartiene anche ad un universo più vasto del proprio.
Ma l’opera poetica di Cristina
è una fucina in continua evoluzione, dove la regia sapiente della poetessa
consiste nel creare sempre nuove forme con un materiale di base reso duttile
dalle sue stesse idee. L’uso del linguaggio, infatti, è sorprendente sia per
gli accostamenti lessicali arditi, sia per
le immagini originali composte, sia per le atmosfere che può respirare chi
oltrepassa la soglia del suo laboratorio poetico.
Ed è proprio grazie a questo
sperimentare sempre nuove forme che la poesia di Cristina emerge.
La sua ricerca è incessante e
profonda, il mondo che scandaglia è quello invisibile ai più, ma che a lei
semplicemente si mostra, richiedendole soltanto un’immersione, come in apnea, e
un ascolto attento della vita che nel profondo della psiche e del mondo si
svolge.
Questa fondamentale
caratteristica del lavoro poetico di Cristina, comune soltanto ai veri poeti, è
una modalità legata alla ricerca della coincidenza, e quindi dell’unità, tra
l’essere e la realtà.
Soltanto nella visione poetica
(o nel sogno) quest’unità può essere vissuta come tale, ma è necessario
successivamente risalire in superficie, (o destarsi dal sogno) per rielaborare
la visione.
Trovarsi immersi in una sorta
di atemporalità, in un’assenza di tempo, fa sì che all’essere proprio si
restituisca la “purezza” originaria, che coincide con l’assoluto, ed è questa
l’unica condizione in cui per pochi istanti si vive la realtà così come essa è,
con_fusa con l’essere, unità assoluta che soddisfa la ricerca poetica.
La poesia salva l’invisibile
che si mostra per qualche istante. E l’invisibile è come un fantasma,
intercessore del tempo, che appare per un momento, prima che la corrente del
fiume del tempo lo trascini via, solo per un istante, poiché non è sua natura
il durare, l’estendersi nel tempo, perché questo lo altererebbe nel suo
“essere”. Può tornare, sì, ma se si ferma un istante lo fa per ottenere l’unica
cosa che può salvarlo: essere fissato in un istante perenne. Ed è proprio quest’azione
del fissare l’istante, la visione fugace, quello che si richiede al poeta e
quello che Cristina Bove fa con le sue poesie. Un sogno o una visione possono
essere salvati, rendendoli visibili, facendoli entrare nel mondo della realtà
che è quella del tempo, quindi attraverso la rielaborazione cosciente del
risveglio, del ritorno in superficie, e della presa di coscienza di quel che è
stato e della scrittura poetica.
Tale condizione si addice ad
ogni essere umano, ma molto spesso (e comunemente) non si è capaci di discendere nelle
profondità della propria anima, né di ascoltarne i richiami o di decifrarne i
messaggi, neppure quando nella totale inconsapevolezza sono i sogni ad
alimentare la nostra psiche.
Per il poeta invece è un
aspetto imprescindibile e lo è tanto più quanto più si affina la sua sensibilità.
Diventa, alla fine, il suo habitus psico-mentale. Ed è anche, possiamo dire, la
realizzazione del sé. Che però non è mai finita, mai definitiva, se ci
atteniamo a quanto, in merito a ciò, ha chiaramente espresso Maria Zambrano in
tutto il percorso filosofico del suo pensiero.
Ogni essere umano ha bisogno
di rinascere ogni giorno, e compie questa sua rinascita attraverso il risveglio
dal sogno e la rielaborazione dello stesso o, per il poeta, attraverso la
rielaborazione delle sue visioni dell’invisibile, della ulteriorità del reale,
o, in altri termini, attraverso l’intuizione della trascendenza di tutte le
cose, degli esseri umani e dei viventi in generale.
Cristina Bove, a mio modo di
vedere incarna al più alto grado l’essenza poetica, perché questa coincide con
il suo essere la persona che è.
Nelle sue poesie, in
particolare in quelle di questa raccolta, si trova la sua anima dislocata,
anche a piccoli frammenti, nei versi, nelle figure retoriche, nei ritmi, nella
liricità.
Anche quando una poesia parla
di cose minime, di oggetti comunissimi e che si potrebbero definire
insignificanti, a maggior ragione per questo aspetto vi si coglie un frammento
lirico perché l’anima abbandonata alle minimalia sembra essere rassegnata. E questa
scoperta segna inevitabilmente l’animo di chi legge.
In poesie come Bora, Una ciotola, Huaca, Riflesso marginale, Sbalordire, Perché la resa,
Minime (?) COSE, Per aspera, VERSO IL TACERE, Daojiao, Legend, Fuori dal campo, è eclatante questo
sentimento di marginalità in cui si sente risiedere la poetessa, e la lettura
dei versi, se rallentata al ritmo del cuore di Cristina mentre “sentiva” quello
che ha scritto, conduce immediatamente nei dintorni di una con_divisione del
sentire.
Non una volta, ma più e più
volte, leggendo e rileggendo le poesie di Cristina_Ofelia, ho provato questo
senso di vicinanza con la sua anima, con il suo sentire profondo, qualcosa che
mi fa essere partecipe di una vita SubLIMINALE,
interiorità sofferta e lirica, appunto.
Senza pretendere di esaurire
l’analisi delle poesie di questa silloge in una breve recensione, vorrei
tuttavia segnalare due poesie per me fondamentali per individuare il senso più
autentico anche di tutte le altre, proprio perché le ritengo emblematiche di un
sentimento vitale che in qualche modo è scosso dalla vita stessa che procede su
binari non previsti o non auspicati, come spesso accade per chiunque. Si tratta
delle poesie Porta e Di solitudini.
La prima: lo riportava a me
dall’infinito // Il camino era spento
e la finestra / si spalancava
sull’eternità // le distanze
incolmabili generavano spazio / su
gradini sbreccati ero seduta / di
crepa in crepa / a rattoppare il
tempo.
La
seconda: Alla tua solitudine lo posso
raccontare / dei miei pensieri cavi,
e delle notti / calate sulle rive di
soppiatto. / Tu la conosci, è
specchio al tuo sottrarti / anche la
mia / ch’è sabbia, neve, voli e /
speronate a picco. // A te lo posso dire, fatta di nebbia io sono /
quindi nei vuoti d’aria m’abbandono /
per una tregua minima / se vuoi / tu che ti specchi nel mio nulla / puoi, nella forma del buio, / porgere
la tua mano alla mia assenza.
Non
occorre commentare, credo. La bellezza e il senso di queste due poesie
confermano (ovviamente, per me) il messaggio che ho recepito, sotteso nel
complesso di tutte le poesie della silloge, e che ho cercato di esplicitare con
questa recensione.
E
in conclusione di questo breve resoconto della “mia” lettura della silloge Mi hanno detto di Ofelia, vorrei
sottolineare, se ce ne fosse bisogno, l’eleganza dello stile di Cristina Bove,
l’originalità e la personalità di ogni suo componimento, che inutilmente ci si
sforzerebbe di incanalare in una qualche corrente poetica.
Sono
poesie, le sue, frutto di un vissuto di immedesimazione nella vita di tutti i
giorni e nella vita sociale, umana e universale, frutto anche di una cultura
molto ampia che affiora in molti modi, e frutto di una sensibilità fine, di
un’intelligenza intuitiva straordinaria, di una generosità insita nel DNA del
suo animo che le rende molto naturale darsi, attraverso le poesie, agli animi
sensibili dei suoi lettori.
27 febbraio
M.Carmen Lama
È una recensione bellissima, cara Carmen, piena di empatia con l'autrice e di comprensione di alcuni suoi tratti profondi dai quali sprizza questa poesia che è acqua pulita per la sete del nostro spirito. È una gioia leggere tali parole per tali poesie.
RispondiEliminaUna recensione profonda e particolareggiata, una recensione che è una vera opera d'arte. Cristina è un'autrice come poche: le sue poesie toccano vari argomenti e si rifanno spesso al vissuto quotidiano, alla triste realtà della quale siamo spettatori, Cristina dà voce anche ai nostri risentimenti. E' un piacere leggere un tributo così.
RispondiEliminaUn caro saluto
Annamaria
GRAZIE INFINITE!!!
RispondiEliminaGrazie! leggo solo ora questi commenti e ne sono felice! Grazie davvero, Cristina è unica! Carmen
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