"Mi hanno detto di Ofelia"
Quasi_volo
un tempo diverso
per camminare astratti
non proprio volare
ma quasi
come essere foglie e pappi
in sentieri di vento
appoggiare a mezz’aria
passi senz’orma
vestiti solamente del tacere
le parole comprimono l’estasi
intralciano i poeti
li definiscono in cataloghi
allora ammutolisco per sentire
e non vendermi agli echi.
Sarò d’ali permesse appena
in tempo
per proseguire a lato di me stessa.
il tempo di far credere che esisto
e poi scompaio
geco fantasma
m’inerpico sui vetri
e dico al vento
amico mio non scuotere
le imposte
respirami profondo, a distaccare.
[...]
Il sole non candeggia
la biancheria ammuffita o il seno brullo
né l’ala del cucù
filtra soltanto tra listelli e buchi
disegnato di punti su piastrelle
il piatto cede, rifornisce rose.
In deltaplano
funambola in assetto
gioca la mia ragazza dei silenzi
la muta dei ritorni e degli infissi
cardini sottotraccia
sa di quella finestra mai richiusa.
Qualora fosse il caso
se le porte sprangate a fil di buio
reggessero per anni
avrebbe almeno via d’uscita
il non ritorno sugli stessi passi…
un volo finalmente completato.
VERSO il TACERE
Saranno secoli? Attimi che mi giro
a tascapane, a giustacuore, a scudo
e di necessità virtù mi allaccio scarpe
camminare dovrò
per la carrozza han già preso la zucca
a me non resta che la mezzanotte
la mia fata madrina s’è distratta.
Mi cucio sulla lingua un che di fiato
zenzero e cinnamomo retrogusto
enzima di saliva mordiefuggi
e mi farò bastare ancora il gioco.
Tanto mi sveglierò, verrà il silenzio
quello che non sopporta ancora voci
né le cose sospese
quello che non s’inganna con le impronte
di parole calcate nella sabbia.
E avrò la colpa d’essere poeta
per abuso di suono.
semplice non è mai piegare il tempo
né tantomeno mascherare il dire
m’accompagna il silenzio
presuntuoso
di sussurrargli al cuore.
E poi c’è l’incarico fondamentale d’ogni portavoce, quello di fare ricordare tutto ciò che si è dimenticato, l’essenza di sé, quello che siamo e che sempre ci sfugge.
[…]
noi venimmo dal tempo
ch’era il mare un ritaglio di cielo
ed esultanze, ignote geometrie
carezzavano addosso.
E poi dimenticammo.
Adesso veglio – sola – a ricordare.
Case abissali
Parole orfane
come lutto del dire
a fluttuare in uno schermo di
cristalli liquidi
nascoste nelle mani
al riaffiorare
d’alga di sale plancton
carezza d’ombra
scena depositata sui fondali
si tace
quando
si sta toccando l’anima
di spalle.
E tacere si può quando la Poesia vive di vita propria.
Quasi_volo
un tempo diverso
per camminare astratti
non proprio volare
ma quasi
come essere foglie e pappi
in sentieri di vento
appoggiare a mezz’aria
passi senz’orma
vestiti solamente del tacere
le parole comprimono l’estasi
intralciano i poeti
li definiscono in cataloghi
allora ammutolisco per sentire
e non vendermi agli echi.
Sarò d’ali permesse appena
in tempo
per proseguire a lato di me stessa.
Dall’assenza
prende vita la materia, dal vuoto apparente prendono forma le figure, i
gesti, da un non-tempo personale si tracciano le linee del ricordo,
fino alla grande negazione, la parola che si fa muta, che tace proprio
per farsi udire meglio, per distinguersi dal chiasso indistinto che
offende la Poesia.
Mi hanno detto di Ofelia è la quarta silloge di Cristina Bove,
poetessa dalla parola fluida e potente, dotata di un lirismo innato che
le permette di trasformare in versi tutto ciò che la circonda. Forse
l’abbondanza degli spunti deriva dalla sua molteplicità, dal sapere
prendersi gioco di sé, dal riuscire ad ironizzare sulle tante
manifestazioni dell’esperienza umana e su tutto quello che non ha a che
fare con la realtà tangibile, ma che ciascuno di noi conosce, anche se
non ne è cosciente. Ed è questa la capacità dei grandi poeti d’ogni
tempo, quella di riuscire a sentire e poi trasmettere qualcosa che la
maggior parte di noi nemmeno ipotizza, trasferendo su carta il canto
doloroso oppure gaio di tutte quelle cose che non hanno voce.
Appaioil tempo di far credere che esisto
e poi scompaio
geco fantasma
m’inerpico sui vetri
e dico al vento
amico mio non scuotere
le imposte
respirami profondo, a distaccare.
[...]
Come tutti i precursori, gli
sperimentatori, gli indagatori di percorsi inusitati Cristina si diverte
a disorientare il lettore, laddove sembra concedere squarci di luce,
presto fa ripiombare nell’incertezza cognitiva, in una girandola di
ellissi ed iperbole in cui le trame oscure del significato sembrano
perdersi, per poi accorgersi invece che il senso era proprio lì, davanti
agli occhi stupefatti di fronte ad una chiusa chiarificatrice e al
tempo stesso culmine poetico (ed è così che sento il mio vissuto / farsi macigno quando / vorrei poter partire / e non posso che stare).
Si potrebbe obiettare che è un percorso
già sfruttato, ma non è forse vero che la reale sperimentazione passa
proprio per il già visto? La particolarità della poesia di Cristina Bove
sta anche nel fatto che qui non si crea innovazione a tavolino, con la
volontà di smussare e rimaneggiare fino all’ottenimento del prodotto
ideato, qui gioca tutto la spontaneità creativa, quella che sgorga da
fonti normalmente inavvicinabili e pure invisibili. E mi sconnette il cuore un soliloquio.
La poetessa dialoga con se stessa, con le tante sé e con il lettore
utilizzando immagini, suoni, accostamenti improbabili, una profonda
ironia, realizzando un nuovo modo di comunicare, con un linguaggio
inedito fatto però delle parole quotidiane e al tempo stesso di termini
arcaici o scientifici, messi lì, quasi a caso, ma sempre intonati alla
musicalità dell’insieme. Sì perché la poesia è anche musica.
Aperture a latereIl sole non candeggia
la biancheria ammuffita o il seno brullo
né l’ala del cucù
filtra soltanto tra listelli e buchi
disegnato di punti su piastrelle
il piatto cede, rifornisce rose.
In deltaplano
funambola in assetto
gioca la mia ragazza dei silenzi
la muta dei ritorni e degli infissi
cardini sottotraccia
sa di quella finestra mai richiusa.
Qualora fosse il caso
se le porte sprangate a fil di buio
reggessero per anni
avrebbe almeno via d’uscita
il non ritorno sugli stessi passi…
un volo finalmente completato.
Cristina non offre soltanto la voce, ma
sa anche ascoltare con la pazienza di chi conosce bene il silenzio e il
vuoto incolmabile che solo le parole sanno dare, (le parole comprimono l’estasi / intralciano i poeti).
E poi ci sono suoni, sveglie, ticchettii, echi, violoncelli e
l’impalpabile, aria in movimento, fondali che pulsano, voli a mezz’aria,
dissolvimenti, dislocazioni e i profumi, spezie arabe, petali di rosa,
piante dai nomi impronunciabili e i colori dei luoghi, delle cose, dei
paesaggi interiori, della memoria.
Saranno secoli? Attimi che mi giro
a tascapane, a giustacuore, a scudo
e di necessità virtù mi allaccio scarpe
camminare dovrò
per la carrozza han già preso la zucca
a me non resta che la mezzanotte
la mia fata madrina s’è distratta.
Mi cucio sulla lingua un che di fiato
zenzero e cinnamomo retrogusto
enzima di saliva mordiefuggi
e mi farò bastare ancora il gioco.
Tanto mi sveglierò, verrà il silenzio
quello che non sopporta ancora voci
né le cose sospese
quello che non s’inganna con le impronte
di parole calcate nella sabbia.
E avrò la colpa d’essere poeta
per abuso di suono.
Ma allora qual è il reale segreto di
tanta bellezza? Quella piacevole concatenazione delle parole tesa fino
allo scatenarsi di forti emozioni? Oltre alla rivelazione della
conoscenza, c’è la grazia della creazione che ha come scopo principale
il piacere senza attese, la gioia di poter scrivere poesia solo per
diletto e perciò senza alcun tipo d’ansia e con in tasca uno scacco
contro il Tempo, privato in tal modo d’ogni potere, di ogni urgenza,
essendo modellato a propria misura, compreso nel cerchio senza inizio e
senza fine.
[…]semplice non è mai piegare il tempo
né tantomeno mascherare il dire
m’accompagna il silenzio
presuntuoso
di sussurrargli al cuore.
E poi c’è l’incarico fondamentale d’ogni portavoce, quello di fare ricordare tutto ciò che si è dimenticato, l’essenza di sé, quello che siamo e che sempre ci sfugge.
[…]
noi venimmo dal tempo
ch’era il mare un ritaglio di cielo
ed esultanze, ignote geometrie
carezzavano addosso.
E poi dimenticammo.
Adesso veglio – sola – a ricordare.
Quando si crea per necessità, la spinta
arriva da luoghi insondabili e scrivere allora è sì moto d’inchiostro
che s’incide sulla carta, ma è anche attraversamento, un continuo
sconfinare in un’ansia di fuga e al tempo stesso consapevolezza d’essere
in ogni istante, ovunque ci si trovi, è lo sguardo commosso di chi si
vede dall’esterno con tutte le debolezze dell’umanità addosso, testimone
di quella parte che vaga ancora nell’oscurità, inconsapevole d’essere
sempre anche altrove. L’attesa è nel dissolversi della linea di confine,
nel riportare, finalmente, quell’essere limitato all’interno del tutto
che lo comprende. (Scrivo per chi / non taglia l’acqua con le mani / affonda e non ha voce)
Parole orfane
come lutto del dire
a fluttuare in uno schermo di
cristalli liquidi
nascoste nelle mani
al riaffiorare
d’alga di sale plancton
carezza d’ombra
scena depositata sui fondali
si tace
quando
si sta toccando l’anima
di spalle.
E tacere si può quando la Poesia vive di vita propria.