Parafrasando: chi è Ofelia? Paradigma
della devozione fino allo sfinimento e alla negazione di sé, fragile,
incapace di trattenere Amleto dal suo delitto, strumento nelle mani
altrui, folle? Soltanto nel contrasto con il destino acquista spessore.
La sua devozione e la sua bellezza non la salveranno. Oppure Ofelia è
solo un fantasma, la parte di psiche che si oppone al super-io, che
resta rannicchiata sul fondo e compare come nei sogni (o negli incubi) a
chiedere una ragione che non è meno folle della sua inconsistenza?
Ofelia sta nel titolo di questo libro di splendide poesie di Cristina
Bove; non solo, Cristina afferma di averla incontrata. L’affermazione
appare azzardata, dopotutto Ofelia è un personaggio letterario, ma
sicuramente ha una sua giustificazione nelle poesie che costituiscono
il corpus del libro non solo in quella che riporta lo stesso titolo.
Essa riassume la filosofia sottesa all’insieme delle poesie: il vano
tentativo di incidere sulla realtà quotidiana con le armi linguistiche,
con la poesia come Ofelia disarmata, oblativa, inerme ma capace di
profetare.
Le poesie della raccolta sono erratiche per argomento, c’è un io
ingombrante che viene con cura celato e zittito, si legge chiaramente un
discorso sui mala tempora e sulla irrimediabilità del disfaci-mento cui
va incontro la bellezza sulla terra a cui fa da contraltare un
decadimento della persona, la sua impossibilità di azione incisiva. E
c’è il silenzio a capo rigo, quel silenzio detto con i bellissimi versi:
“si tace/ quando/ si sta toccando l’anima/ di spalle.”
Guardare l’anima di spalle significa trovarsi dentro un’immensità che
però non ha nessun tipo di appiglio per la sua decodifica, significa
capire che la bellezza è ovunque ma ovunque si sgretola e noi non
abbiamo né le parole né gli strumenti per porvi rimedio.
Il credente confida; Cristina dice chiaramente di non esserlo ma afferma di detenere forze e ali per
“proseguire a lato di me stessa”, incerta, con la visione sbieca e forse
parziale ma con la chiarezza della meta accompagnata dal silenzio
presuntuoso del sussurro del cuore.
Tanta fragilità è riscattata dall’umana pietà, dal mettersi all’interno
del girotondo degli affaticati della vita. E la parola è al servizio
della vita; Cristina la usa come un setaccio per comunicare, certamente,
ma anche per lasciare che filtrino solo le parole ri-generate.
Le arti visive e la musica appartengono al mondo conoscitivo della
poetessa e ne usa il lessico per espandere il mondo semantico delle sue
liriche, coinvolgerle in quel discorso erratico di cui ho det-to, così a
fianco del Tau può starci la consapevolezza del procedere solitario
perché nessuno può en-trare del tutto nell’animo di un altro, perché
Degas sta presso Vincent Van Gogh che sta presso Mo-zart che sta presso
Cnosso che sta presso Cristina Bove.
Poiché si scrive poesia solo per passione, non avendo altre logiche
motivazioni, avviene che essa, come succede per l’amore, accada; ci
prende per mano, ci sussurra sibillina, ci spinge a scoprire le impronte
del nostro cammino, i moti d’animo bruschi e/o intimi, padrona senza
reticenze, libera e senza confini. La poesia. Poi esiste la scrittura
cercata, ampiamente ragionata, condotta là dove si vuole che vada. Con
quanto affermato non intendo dire che la poesia sia qualcosa di
irrazionale, anzi; il setaccio della ragione e della competenza
interviene e deve farlo per ripulire il materiale, sezionarlo,
riportarlo al suo fine.
E’ la grande fatica dei veri poeti. Cristina, che annoveriamo fra
questi, confessa che sì, potrebbe parlare di dolcetti al miele ma “la
cantilena a mantice di un gatto/ suggerisce deliri/ e tu lo vuoi.”
La libertà della poesia trova il suo spazio d’azione nelle sinapsi della
mente, fra le circonvoluzioni neuronali; non è anarchia, è audacia.
E’audacia infatti restare ad aspettare Godot sapendo che non arriverà
mai :
“……….
ma qui, sediamo tutti intabarrati
pesanti d’anni e di malinconia
stampigliata nel codice l’origine
la data di scadenza indecifrabile
pescatori di nebbia
nell’attesa di vivere davvero.”
La vita vera non è quella promessa da Dio; Cristina ci dice di porre un
punto interrogativo dopo la parola; chissà che cosa è vivere davvero,
forse è vivere senza aspettare inutilmente Godot, senza avere la testa
in nugoli di cielo, è vivere la gioia che fa l’incontro con
l’accoglienza dell’altro mentre invece siamo terrestramente dannati ad
una finta accoglienza: all’assetato è offerta una bottiglia vuota.
Voglio tornare a citare qualche verso di due poesie consecutive molto
diverse per tema ma quasi sovrapponibili per significato che danno
ragione al colore di fondo del libro ( e di Ofelia?):
“ ma qui di niente si è sicuri/ mai” e “ sento che siamo il vuoto e il pieno/ a combaciare.”
Credo che questi pochi esempi aprano un barlume sulla erratica tematica;
non diversamente lo stile è omogeneo: a versi icastici, di forti cesure
si alternano dettati distesi; il timbro, la melodia del canto, però
restano unici con ampi, ampissimi squarci semantici, accurata selezione
di immagini così lontane che vanno oltre la metafora per introdurti in
territori “poetici” appunto. Poco sostenuta dal lirismo, la poesia di
Cristina non è neppure narrativa; la padronanza degli strumenti poetici
consente alla poetessa di muoversi con corretta grazia lungo tutto il
libro. L’insieme delle poesie è sorretto da una coreografia che non
vuole stupire però è elegante e piena di forza inventiva e lessicale.
Narda Fattori