lunedì 30 novembre 2020

"La simmetria del vuoto" Recensione a cura di M. Carmen Lama

 

Cristina Bove - La simmetria del  vuoto - Arcipelago Itaca

 

 

Una silloge che si presenta in modo inusuale già dal titolo, questa di Cristina Bove, edita da Arcipelago Itaca nel 2018: La simmetria del vuoto.

Ma come fa il vuoto ad essere simmetrico? Come fa Cristina Bove a immaginare di poter attribuire al vuoto delle caratteristiche topologico-geometriche come la simmetria?

E poi, quale tipo di simmetria ha in mente Cristina? Quella speculare, o rotatoria-radiale, o traslatoria che si usa nell’arte pittorica? 

Certo è che si tratterebbe, nell’arte poetica, così come nell’arte pittorica, di dare equilibrio e armonia all'opera in cui si utilizza, cosa che certamente riesce in questa silloge all’autrice.

Ma è l’immaginazione del vuoto sottoposto a qualsiasi operazione, geometrica o artistica o d’ogni altro tipo, che pone un dilemma: si può dare una forma, qualunque essa sia, a qualcosa che non è?

O il vuoto ha consistenza? E se sì, di che particolare “materia” si tratta? E dove si trova il vuoto? Avrà un suo luogo dove poterlo osservare o è solo un’illusione meta_fisica? 

Ecco, cominciando da così tante domande, si intuisce che si sta per entrare in un mondo tutto da esplorare, da scoprire e da com_prendere.

E che bisogna munirsi di strumenti sofisticati per riuscire a venirne a capo. 

Nella silloge non c’è alcuna poesia che faccia esplicito riferimento al concetto di simmetria del vuoto. Tutte le poesie, però, hanno caratteristiche abbastanza simili, non tanto nella struttura compositiva, quanto nell’adattamento dei versi a quel che viene trasmesso, sia pure senza una vera e propria consapevolezza intenzionale.

La confrontabilità delle poesie sul piano dell’intreccio formale e contenutistico-emozionale, che è quanto arriva al lettore (parlo per me, in questo caso, ovviamente), balza così in primo piano che se ne potrebbe fare una rappresentazione visiva attraverso uno schema, semplicemente servendosi di versi-chiave: alcuni che mettono in evidenza un vissuto di sofferenza psichica, ma non particolarmente accentuata, bensì quasi sfumata, altri che tentano un’evasione in qualche oasi di positività, così da equilibrare il senso di malessere che pervade l’animo.

Darò soltanto alcuni esempi, per rendere più chiaro quanto appena scritto, che rimanda alla mia personale percezione:

e dirsi in versi

forse nel tentativo di sottrarsi

non solamente al male

ma anche alla terribile bellezza

che annichilisce e ammalia (pag. 14)

vestirsi del saluto d’ogni giorno

scriversi addosso che la vita è vita

se si rimane svegli

dagli ibridi parlanti   dalle parole obese

dalle follie diacroniche

mi allontano _spossata_ (pag. 15)

vestita solamente del mio dire

ché preferisco tinte delicate

se proprio devo esprimere un pensiero

ciò che nessuno vede per davvero

è la prigione dove stagna il cuore (pag. 24)

trovare pace in zone misteriose

dove si fa preghiera l’intelletto

e senza più parole

dire di sé quanto rimane acceso

 

raccolsi ogni tuo modo di morire

non potevo sapere

quanto ti avrebbe consentito il vivere (pag. 62)

Ed in quell’altro modo ch’è restare

sfogliandosi di tutte le risposte

scriversi un colorato ricordare

braccata dalla nostalgia

si percepiva sempre più straniera (pag. 69)

_ne verrai fuori_

dissero dalla luce sopra il pozzo

in cui precipitò

[…]

come in un fermo-immagine

vede con gli occhi chiusi

luminose nonforme ad aspettare

Vagabondare intorno ai propri passi

nel guscio della casa

o starsene sospesi  (pag.73)

si va restando immobili nel corpo

si sta mentre si spazia oltre il sensibile

nell’universo dell’iperesistere

la strada andava ed era in viaggio il suolo

correva sotto il premere dei passi

_a volte mi mostrava denti aguzzi_

ingranaggi serpenti

capelli di medusa nello specchio

ed io guardai

[…]

la mia canzone già precipitava

-hai visto- disse il monte dalla vetta?

-hai visto come cade giù la sera?-  (pag. 76/77)

Ma distolsi lo sguardo

misi il pensiero in stallo

vidi me stessa uscire dalla roccia

e fui soltanto un ruscellare d’acqua

 

E si potrebbe continuare con molti altri simili modelli.

Ma preferisco passare a dare spazio “anche” ai pensieri di Cristina, così come li ha esternati in alcuni versi:

ci si ammalava di pensieri morti” – p. 39

pensiero ricorrente che attanaglia” – p. 68

“_era una volta liscio ogni pensiero_” – p. 72

“_le scorte di pensieri andate a male_” – p. 74

tra cocci di pensieri” – p. 84

 

Questi pochi versi evidenziano quale modalità di pensiero sia sottesa alla percezione della realtà da parte di Cristina, in questa particolare silloge.

Non ci sono poesie in cui si possa cogliere la delicatezza del porgere il proprio malessere senza farlo trapassare nel lettore, perché subito stemperato dall’ironia; ironia che, nelle precedenti sillogi, era più “dominante” e smussava, appunto, ogni pensiero pietroso, aguzzo, che incideva ferite nell’anima della poetessa e che, per questa sua dolorosa caratteristica, doveva essere in qualche modo neutralizzato. 

Qui si coglie invece quasi una rassegnazione, una disillusione e, per contrasto, una precisa consapevolezza dell’irrimediabilità delle spine del tempo, delle sue lacerazioni e dei suoi strappi, della sua continua limatura del corpo ma anche degli stessi pensieri. 

Quasi mai il tempo è esplicitamente menzionato. Ma se ne coglie tutta la sua forza e pesantezza e nello stesso tempo tutto il suo sfuggire senza mai lasciarsi guidare né tanto meno dominare.

Il tempo infatti non fugge, ma semplicemente sfugge. Quanto più si vorrebbe agguantarlo, tanto più sfugge alla nostra presa. Ed è questa nostra incapacità di incidere almeno un poco sulla realtà, dominata dal tempo che la usura, quel che ci lascia interdetti e impotenti, specialmente mentre sentiamo che l’anima non si lascia sottomettere, anzi cerca ancora spazi per sé, non più scalpitando, ma chiedendo soltanto giustizia.

Ma poi, no. Si accorge, con una piena evidenza, non consentita alla mente, che  il vuoto, compatto o rarefatto, comunque sia è perfettamente sovrapponibile e coincidente con se stesso in ogni punto, in ampiezza e in profondità. E se suddiviso idealmente in due metà, è davvero anche simmetrico e sovrapponibile a specchio. E se immaginato sferico, sovrapponibili saranno gli spicchi di vuoto.

E l’anima sa anche che è inutile chiedersi dove esso si trovi.

Perché non si saprebbe dove trovare le risposte. Non si saprebbe dove cercare, non certamente in qualche modalità esperibile nel concreto, con tanto di sperimentazione, né in modo logico-formale.

E neppure nella geometria.

E tuttavia, l’anima sa bene cosa sia il vuoto, anche se la mente non sa definirlo o localizzarlo.

Perché è proprio lei che ne subisce gli attacchi.

Il vuoto toglie la consapevolezza di essere quel che si è, ci fa sentire nulla, un vuoto, appunto! Che tautologico mistero!

A volte, è talmente insopportabile la sua insidia che tentiamo di colmare tutte (crediamo…) le sue concavità e asperità, siamo portati a pensare che somigli un po’ al silenzio assoluto e per questo lo riempiamo di parole. Talvolta soltanto di pensieri.

Non ci accorgiamo, però, che ogni volta rimangono angoli fessure depressioni imbuti di vuoto che non riusciamo a raggiungere, perché sfuggenti sempre oltre, in direzione di uno sbocco “naturale” nell’infinito, perché tale è la sua essenza e dimensione: l’infinito.

Inutile provare ad ampliare i nostri raggi d’azione. Siano pur raggi luminosi, come le poesie di questa silloge, non ci conducono mai fino agli estremi limiti, nonostante in qualche modo sentiamo una specie di promessa di vittoria e per questo mettiamo in campo tutti gli sforzi necessari.

Ma il risultato non cambia. La nostra volontà è insufficiente, anche se è lodevole esplicarla al massimo.

Alla fine bisogna arrendersi, spossati, insoddisfatti. Proprio come fa Cristina Bove che, pur cercando spiragli di luce, di benessere, sa che sono provvisori, effimeri, illusori.

Ma ciò non vieta di riprendere nuovo slancio e riprovare ancora e ancora e ancora… magari con la scrittura di nuove poesie che, a loro modo, si configurano come un antidoto al tempo che ci travalica, ci oltrepassa. Al tempo che forse ci permetterà soltanto di fare -da soli- gli ultimi passi, abbandonando, lui-subdolo, la nostra pur fragile presa.

Intanto ci sentiamo come esseri in dissolvenza… con l’amara consapevolezza che niente e nessuno ci potrà trattenere dallo scivolamento…

Forse la sensazione di vuoto è costitutiva dell’animo umano, come la solitudine.

Ora non so con precisione da quali sensazioni, emozioni o atmosfere Cristina Bove sia stata attraversata scrivendo le poesie di questa sua raccolta, né in che modo abbia voluto intenderle.

So soltanto, e senza dubbio, che questa mia interpretazione risente moltissimo di mie suggestioni, mentre Cristina avrà forse scritto con altri intenti e con altre sue percezioni.

Ma la poesia vive di vita propria ed è efficace ed incisiva se dà al lettore quel che egli chiede.

A me, la lettura delle poesie di questa peculiare silloge ha dato quel che ho voluto/potuto sentire in questo momento, in questo tempo ingrato che, oltre ad essere il mio specifico tempo, è anche un tempo universale, un tempo che si aggira per il mondo eludendo i suoi obblighi e le sue promesse, mentre, con irresolubile nonchalance, anche (e soprattutto!) raggira.

E ci lascia vuoti, completamente vuoti di senso, del tutto disincantati. Noi, brevi segmenti di Tempo, sottilissime linee di demarcazione fra il nulla che ha preceduto l’inizio della nostra vita e il nulla che ne seguirà la fine.
Noi, linea di mezzo | specchio in cui il vuoto del prima riflette esattamente, simmetricamente, il vuoto del dopo. Vladimir Jankélévitch
docet!



(Robbiate, 21.12.2020)