mercoledì 17 dicembre 2014

Metà del silenzio - Nota introduttiva di Anna Maria Curci




 Una mano sulla spalla, proprio là dove il dolore sordo e continuo accompagna i giorni, il tocco lieve e fermo: questo è per me l’incontro, che si rinnova con la raccolta Metà del silenzio, con la poesia di Cristina Bove. Quella mano potrebbe scrollare - ne ha tutta la forza e l’autorevolezza-  ma non lo fa; al contrario, quel tocco è l’invito alla sosta, alla riflessione, a un volteggio perfino, a condividere una danza, a percorrere un tratto di strada insieme. Quella mano e il suo tocco non possono essere disgiunti dagli occhi che la guidano, e quegli occhi guardano oltre, verso una dimensione altra. Attenzione, tuttavia: non ci troviamo dinanzi a una poesia che sfugge, spaurita e dimentica, il reale; semplicemente, lo attraversa, cogliendone orrori tanto palesi quanto palesemente ignorati dai più e, insieme, bellezze che si sottraggono alla superficialità e che non tutti, quindi, sono in grado di percepire. Viene spontaneo, dunque, l’accostamento a una raccolta precedente di Cristina Bove, Attraversamenti verticali, ma anche qui, come ogni volta mi accade, penso al superamento, che dell’attraversamento è compagno e affine e che ne costituisce una prosecuzione allo stesso tempo naturale e dettata da una volontà inconsueta.
Attraversamento e superamento, si diceva: sotto questa luce va letto, studiato, raccolto, il titolo del libro, che è poi anche il titolo di uno dei testi che la compongono: Metà del silenzio. Stavolta la pluralità, ancor più della duplicità del significato dell’insieme, diversamente da come avviene di solito nei titoli e nel corpo delle poesie di Cristina Bove (basti leggere, anche qui, d’altronde, i primi titoli: Con_sensi, Di_versi fuochi e, più avanti, Tra_scende_re, A(f)fondo) non è dichiarata e neanche suggerita, almeno non esplicitamente: essa emerge dalla lettura dei testi, cosicché è chi legge a chiedersi, dopo, se non sia percorribile il sentiero tracciato qui dall’autrice anche alla luce di un accento tolto. Dunque, non solo “metà”, una delle due parti, del silenzio, ma anche “meta”, traguardo,  del silenzio. Resta ancora aperta una terza accezione della prima parola, “metà”: quella che la ricollega alla preposizione che in greco antico reggeva proprio il caso genitivo e che apre la strada quindi a un’altra interpretazione del complemento espresso dalle parole “del silenzio”: insieme al silenzio, per mezzo del silenzio, oltre il silenzio, riflessione sul silenzio, attraversamento  e superamento grazie al silenzio?
Suggerisco, per affrontare il cammino in Metà del silenzio, questo viatico, vale a dire il tocco lieve e fermo della mano che ho dichiarato in apertura essere tratto distintivo della poesia di Cristina Bove. È un tratto semplice perché sceglie termini ed espressioni d’uso comune, e insieme complesso, perché sul significato dei termini di uso comune riflette, con piglio divertito e severo, piegando e dispiegando, mostrando e dimostrando che oltre l’uso comune si può andare, a patto che, appunto, lo si sia attraversato, con sguardo lucido, volontà e capacità critica.
Se il viatico è un tocco lieve e fermo della mano, il viaggio non teme di andare a fondo e di affrontare, nel tendersi oltre la soglia dell’immediatamente riconoscibile – e si torna qui alla dimensione ‘meta-“ – ciò che è ‘oltre’, che si pone ‘al di là’,  ciò che nella vita di superficie, nella ‘esistenza di galleggiamento’ viene accuratamente evitato, cancellato, ignorato e dunque, non senza una non più ingenua e senz’altro sbrigativa superstizione, taciuto.  Il passaggio a questa altra dimensione della conoscenza attraversa, e non salta a piè pari, esperienze dolorose di perdita, di allontanamento dal rassicurante, di divisione, di lacerazione e di «parole inferte». Un’esistenza di frontiera, questa, che è resa con andamento dei versi e termini che non temono il salto di tonalità – l’uso comune della lingua è affiancato da termini di minore frequenza, inusuali, ma mai inseriti per il mero fine dell’effetto ricercato, del preziosismo a tutti i costi – e il chiaroscuro spiazzante all’interno della composizione. Chi è l’io lirico? Acheronte il traghettatore, la fanciulla che in volo scopre verità, Dorothy dal Mago di Oz, la donna «dal dolore contratto», il fabbro che «spezza faville» (e che dà corpo al felice sospetto che l’associazione tra favilla e favella, tra lo spezzare faville e solcare favelle non sia soltanto efficace analogia, ma intento programmatico), colei che per una volta sceglie di essere Criptica, oppure colei che «da tempi infiniti» reca fiori? L’io lirico è tutti loro, ed è, ancora, qualcosa di più: assume forme molteplici – tratto questo che è proprio della poesia di Cristina Bove, come ebbi occasione di affermare a proposito della sua precedente raccolta Mi hanno detto di Ofelia – e si manifesta, come recita il titolo del romanzo di Cristina Bove, come Una per mille. L’intima coerenza, nel perenne mutamento e nell’attraversamento come valore che non esito a definire etico, sta nel tendere alla luce, nella ricerca, e non di rado nella percezione netta, di quello che il poeta Michael Krüger chiamò in una sua raccolta “il coro del mondo”. Raccolta del residuo, di ciò che altri scartano (“ma ciò che resta…” di Hölderlin risuona nelle orecchie) e contributo vivissimo a una nuova, insospettata armonia che si libra e libera; a chi legge non resta, ed è tanto, che accogliere l’invito che conclude la poesia Di voli e altri viaggi:  «Non fatela atterrare / portate via il frastuono / ha il sonno lieve / anche il frusciare minimo la desta. / sogna di porti e navi / di biglietti per dove».

© Anna Maria Curci




   Parole inferte

Sotto la chioma bruna
che parla in strato sferico
riferimenti in sovran_numero
si calano le fronti corrugate
strade d'asfalto accelerando il passo
non il respiro, quello
rimane appeso al chiodo.

E sbeffeggiare chi la vita stringe
filo di ferro infisso tra le vertebre
a consentirle transiti di scarto
- ecco un bacino idrico -
la ninfa delle ellissi
di quello che non ha ferisce a morte
ché se appena si approssima d'un cielo
bavero di cristallo
termina l'alfabeto nella forra
e nel suo manto nero sfoga l'urlo.

Io sono qui, mi accosto con prudenza
perché ho paura d'essere ferita
la millesima volta.
E sì che vorrei essere un abbraccio.

(p. 18)

Donna chissà...

Portale un guizzo di vita
   una lama diretta nel centro
   a infilzarle pensieri
oppure a mormorii
di sé precipitando che le strappa
il vestito
il chiaro-luna pelle
l'ansimo di un'ora resa insolita
se ti trema la voce
poi non chiudere a sassi l'apertura
non trafiggerne l'ombra.

le mani te le rendo
non sono indispensabili al morire.

(p. 21)
Acherontia

    Allora ti avvicini con la bocca
    alle cose sentite dire altrove
    che non sono le tue
    raccogli cenci
  spolveri le travi -  i ragni li farai infelici -
e se pronunci ancora altre parole
otterrai sei monete e due lustrini
di fandonie sgargianti
 
tu non conosci decerebrazione
l'essere solo corpo -  il pesce anfiosso -
il suono delle cellule che cade
transitorio
giù per accenti tonici

emerge da cunicoli
deflagrando crisalidi - l'atropa sfinge -
separata ristagna e si nasconde
sotto lemmi e cifrari
l'anima mia
per un destino d'ali.

(p. 32)

Almeno chiedersi

Ci sono tombe in cielo fatte di fumo
tante hanno misure piccole
portano solo nomi illeggibili
sono però nel cuore delle stelle

conservano la cenere degli uomini
i loro corpi mutilati e offesi
madri svuotate di bambini a sangue

c'erano scarpe a tonnellate
fuori dai forni, denti
occhiali una montagna
e ceste di capelli

prima d'essere fumo li spogliarono
d'identità e di pelle
se ne fecero tzanzas e paralumi:
chi scuoiava, conciava, a chi pareva logico
fare d'esseri umani suppellettili?

Più delle sentinelle
dei cavalli di frisia
del gelo e della fame
li uccise chi
non vedeva orrore
in quei bambini ossuti
strappati dalle braccia delle madri
chi non provava pena
per i corpi indifesi nella neve
e che li raccoglieva
per gettarli nel fuoco e nelle fosse

quelli per cui la strage fu normale.

Di quelli ancora è pieno il mondo
brandiscono randelli
e vorrebbero forni da sfamare.

(p. 40)

Criptica (della quale non do spiegazione)

S’inceppano dentro
ehm… colpi di tosse e un sorso
a mandar giù rospi di maggio
ma solo perché è maggio
se fosse stato agosto
rospi d’agosto.

Ti prende alla sprovvista
al nord dei desideri
iperborea presenza
- sapresti mai di me se non sentissi
il vuoto dell’assenza?-
esisto in quanto sono una mancanza.

Si arresta al filo dell’ascolto
chi non conosce la parola giusta
e crede che una capra
campi di più sopra la panca
o che le fisarmoniche soffrano di raucedine
e la natrice senza sibilare
rimanga nella nebbia.

(p. 46)
Di voli e altri viaggi

Una corazza d'anni arrugginiti
o cavalli di frisia
a protezione della carne tenera
si potrebbe spacciarla per culla
infiocchettarla di violamammola
e tanto per
appuntarle due spille a fior di labbra.

Gradisce la signora
nastri di taffettà?
E chi lo sa, se poi sfatta di cera
a una candela basta uno stoppino
- evitare tragedie, un piccolo bruciare
a colar via -

e la vedete infissa
dal millenovecentosessantuno
a volo d'angelo.

Non fatela atterrare
portate via il frastuono
ha il sonno lieve
anche il frusciare minimo la desta.
Sogna di porti e navi
di biglietti per dove.

(p. 48)
Donne

A quelle donne di meraviglie e fiori
quelle che silenziose fanno andare
casupole e favelas, figli portati sulle
spalle chine, lana pungente sulla pelle
dita affondate negli inverni
donne dismesse a ricamare perle
e chatouches per quelle fortunate.

Donne dai pianti occulti per i figli perduti,
donne dalle carezze rassegnate
sulle deformità dei loro nati e quelli d'altre.
Vanno con passo celere
più avanti della vita
più pietose del quadro sugli altari
che spiega nel suo ebete sorriso
quanto non fu mai loro e di quei figli abnormi,
l'opposto dei bei riccioli dipinti
e lineamenti rosa.

Donne delle catene di montaggio
recluse per un tralcio di mimosa
donne dei mille passi nel deserto
per un una goccia d'acqua
donne a scacciare mosche dai sorrisi
dei loro figli condannati a sete.
Donne vendute
donne vilipese

Qui ci piangiamo addosso
per uno specchio rotto, una sedia tarlata
solitudine in versi che dovrebbe
consacrarci poeti
roba che non soccorre i derelitti
che non reclama l'equità dovuta
e niente fa per togliere al potente
quello che ruba ai miseri.

Donne di ceri e cere
prigioniere d'inganni, occhi cuciti,
che al prete per figliare e per morire
pagano sempre il truogolo e l'ingrasso.
Spossessate del corpo, incubatrici
di vittime innocenti.
Madri di stupratori e santi
donne comunque e sempre.

(pp. 50- 51)
Guardami

potrei anche non esserci
nel buio sono o non sono
come il famoso gatto di Schrödinger
esisto solo se qualcuno osserva.

La logica dei quanti
sarà pure dei tanti compassati cervelli
espressa a formule
le nonmisure mie sulla lavagna

e_vasi comunicanti
per una fenditura
sangue a con_fondere
ti prometto quel bacio di carbonio
diamante a mezzanotte
solo se ti soffermi
alla sua luce.

(p. 57)

Di una poesia della raccolta, Dorothy e il mago, esiste una versione in tedesco:
Dorothy e il Mago

Non gridare se nasci d'autunno
se la tua voce è traccia del vissuto
la città di smeraldo ha le sue tane
e non temere il freddo sulle vie
battute dal maestrale
vieni a braccia distese
portami ombrelli rosa d'artemisia

ti disegno col dito nelle fragole
i contorni di Oz
e tu da quel velario che separa
giorni di grigio dalle luminarie
scrivimi fiabe a margine
ti leggerò le labbra
e basterà.



Di una poesia della raccolta, Dorothy e il mago, esiste una versione in tedesco:
Dorothy e il Mago

Non gridare se nasci d'autunno
se la tua voce è traccia del vissuto
la città di smeraldo ha le sue tane
e non temere il freddo sulle vie
battute dal maestrale
vieni a braccia distese
portami ombrelli rosa d'artemisia

ti disegno col dito nelle fragole
i contorni di Oz
e tu da quel velario che separa
giorni di grigio dalle luminarie
scrivimi fiabe a margine
ti leggerò le labbra
e basterà.


Dorothy und der Zauberer
Schrei nicht, wenn du im Herbst geboren wirst,
wenn deine Stimme Spur des Erlebten ist
die Stadt aus Smaragd hat ihre Höhlen
und fürchte dich nicht vor der Kälte auf den
vom Mistral gepeitschten Straßen
komm mit ausgestreckten Armen
bring mir rosenrote Schirme aus Beifuß
ich zeichne dir mit dem Finger in den Erdbeeren
die Umrisse von Oz
und du aus dem Vorhang, der Tage
aus Grau von der Lichterflut trennt,
schreib mir Märchen am Rand
ich werde dich von den Lippen ablesen
und das wird reichen.

Cristina Bove, da:  Metà del silenzio, Pibuk 2014, p. 30
(traduzione in tedesco di Anna Maria Curci)


Qui  per ascoltare l’audio

 




 

Metà del silenzio - lettura di Annamaria Ferramosca



Ho conosciuto e molto apprezzato la scrittura di Cristina Bove attraverso le sue precedenti raccolte Mi hanno detto di Ofelia, Venti di rabbia venti di pace, seguite poi da quella biografia fantastica che è Una per mille. Ma prima di parlare di questo ebook Metà del silenzio mi viene spontaneo parlare di Cristina come persona, con la sua unicità forse indescrivibile, ma ci provo…Perchè Cristina ti colpisce e ti lascia un segno indelebile, appena la conosci.  Perché il suo modo di aprirsi, rapportarsi, parlarti in quella sua misura sommessa, serena, ma ferma e profonda di pensieri e visioni, ti fa capire che è l’umano essenziale che ti parla, dell’umanità e del mistero dell’esistenza. Cristina apre infatti ad un universo che non si limita  al semplice ciclo della vita, ma esonda in un mondo altro, nelle dimensioni sconosciute che a noi danno inquietudine,  a lei appaiono come sfere armoniche, familiari, pacificate. Perché, come emerge da questa sua poesia, lei ha trovato -o inventato- un percorso di chiarezza e armonia che percorre con una sorta di distaccata saggezza (e se c’è sofferenza, questa si avverte elaborata, in luce di sapienza). Un’armonia che traspare da parole, gesti e dalla sua arte, pittura luminosa e poesia densa.
Scrittura e personalità sono fortemente interconnesse, così che lungo i suoi testi di Metà del silenzio tutte queste  dimensioni come vita, cronaca, visioni, pure amarezza per la donna condannata ad essere incompresa, non amata, cultura, bellezza, dolore universale, perfino note di profezia, si fondono con grande naturalezza, conferendo alla sua scrittura una personalissima impronta.
E nella sua analitica introduzione Maria Carmen Lama ha nominato anche una “solitudine esistenziale, che ha forti punte di amarezza, ma che viene continuamente superata dalla ferma intima convinzione che “il vero dio siamo in frammenti noi”, noi perfino responsabili dell’autoaffermazione di eternità da parte di un eventuale divinità . Trovo qui il fuoco centrale sotteso della raccolta, tutto il senso dell’umano e oltre umano di Cristina, la sua illimitata capacità di pensarsi infinita nell’infinito, di creare bellezza come riflesso di questa indicibile tensione.
In questa scrittura la vita riempie i testi e deborda e anche quando si avverte che la sua comunicazione è fondamentalmente mediatica - virtuale, si può dire che Cristina riesce a coinvolgere profondamente anche in rete, attraverso la rete, laddove i rapporti tra persone sono in genere disimpegnati, amici dall’amicizia labile, momentanea, mentre qui ora noi siamo prova provata di un legame  autentico, vero.
Così la metà del cielo-donna passa dal silenzio alla voce dispiegata di Cristina, che si fa anche grido contro la banalità e la violenza che sommerge, e pure inno alle donne semplici, vere, che lottano perché questo mondo cambi per la nostra discendenza. Una scrittura barocca, nel senso di pienezza versatile del barocco, dagli infiniti sensi chiari e pure sottesi, dai tanti colti richiami. Un lessico raffinato e insieme intriso del linguaggio quotidiano, di quello del web, che si distende con spontaneità nel ritmo di endecasillabi e settenari, ma non si dica che è lessico novecentesco -siamo stanchi di questo refrain critico- se la forma riveste un contenuto attuale insieme fuori dal tempo, se la voce personale si fa universale e memorabile, questa è solo e semplicemente poesia  (auguriamo a Cristina, che si avveri la sua visione, che il suo” ritratto resti dipinto nello spazio).

Annamaria Ferramosca, dicembre 2014

domenica 14 dicembre 2014

M.Carmen Lama

Metà del silenzio

Prefazione

Il silenzio, talvolta, è un gravitare di parole il cui suono è quello di una lingua universale. Parole che nascono a fior di labbra e lì si fermano, o nel cavo dell’anima dove vengono tenute in gran fermento, ma senza osare debordare. Attraverso le parole non dette, il silenzio assume tanta forza da ergersi a sentinella della torre più alta della Vita. Ed è allora che proietta la sua ombra su ogni cosa di cui vorrebbe dire e invece tace.
Al poeta, però, non è concesso vivere all’ombra del silenzio. Egli deve assumerne le responsabilità e tradurlo nelle parole poetiche che gli urgono dentro. Ma senza alcuna invasione di campo, anzi, nel più garbato rispetto del silenzio altrui.
Cristina Bove, nella sua nuova silloge, ha scelto questa via e ha così lasciato che “Metà del silenzio” rimanesse tale, mentre si è avvalsa dell’altra metà per dare voce alle congetture possibili che quella metà taciuta ha di volta in volta in lei evocato.
La poesia che dà il titolo alla silloge, infatti, è paradigmatica in tal senso: si parla delle donne, (la “metà del cielo” silenziosa) “arretrate su rive senza rena” che “vanno col viso vuoto / le mani piene nei sorrisi incerti” // “E braccia / da stringersi soltanto al proprio petto”: il loro silenzio è un grido altissimo che Cristina ha catturato e trasformato in poesia. L’ha interpretato dai gesti, dagli sguardi, dalla malinconia che traspare “dagli occhi di smeraldo”.
Ed è un silenzio che vive della sua stessa forza, declinata al positivo e tradotta nella ricchezza interiore che produce.
Non fa altro, il poeta, che prelevare dal profondo le parole di quell’intima sofferenza difficile da esprimere, ma che accomuna per molti suoi aspetti gli esseri umani e che, quindi, dà modo al suo animo sensibile di farla propria e, così, di esplicitarla.
Da questa breve premessa, si coglie già l’intento poetico di Cristina Bove: assumere pienamente la funzione del poeta e, pertanto, illuminare ciò che esige una spiegazione, un senso, e cercare di analizzare da più prospettive dubbi, domande, misteri, dolore e, insomma, tutto ciò che attiene all’esistenza universale per darne una possibile, ma mai univoca, né esaustiva, interpretazione.

Ma, al di là del titolo esemplificativo dell’intera silloge, ciò che colpisce a prima vista sono anche gli stessi titoli di ciascuna poesia:
-  alcuni, per i giochi di parole che evocano e che nella nostra ricca lingua sono molto stimolanti; ed è interessante vedere come vengono poi riempiti di significato nei diversi sensi dis_giunti da un segno (come la sublinea appena evidenziata nel termine dis_giunti), oppure da parentesi. Alcuni esempi: Con_sensi; Di_versi fuochi; Tra_scende_re; A (f) fondo;
- altri per l’originalità espressiva che, nella maggior parte dei casi, racchiude già in sé il senso complessivo della poesia (es. Chi sogna Che; Parole inferte; Acque profonde; Notifica a ciel sereno; Il burqa occidentale; Fluitare; ecc…);
- altri ancora, perché sono il segno di una cultura ampia, che va dalla fisica, all’astrofisica, alla filosofia, al mito, alla scienza, perfino alla musica e alle arti plastiche e pittoriche, e senza trascurare le fiabe prese a simbolo di accadimenti e vissuti (es: Acherontia; Capella; Atlantidea; PiErre; PHI; Myrmeleontidae; Alhabor; Doroty e il Mago; ecc...).
Questa ricchezza, che appare già alla prima scorsa dell’Indice, si sostanzializza poi nelle diverse poesie, attraversate da una musicalità e un’armonia che guidano il lettore nella comprensione pressoché immediata, se non del senso profondo, almeno dell’atmosfera incarnata nella forma.
Una tecnica fine, tendente a mascherare l’endecasillabo, quasi sempre presente, a volte in alternanza col settenario, come nella migliore tradizione classica mai superata, è quella di spezzarlo, così da far sembrare interrotto il  pensiero e far prendere respiro, accennando a una pausa vocale che sostiene meglio l’andamento ritmico e, ancora una volta, la stessa comprensione.

Ma vorrei ora sottolineare una particolare caratteristica di Cristina Bove-poeta, che discende dall’ampiezza culturale di cui sono permeate le sue opere: leggendo le sue poesie, ci si chiede, quasi increduli, in che modo ella riesca a introdurre l’universo, nelle sue molteplici sfaccettature, all’interno di un breve componimento poetico. Sembra quasi che la sua mente sia in grado di contenerlo, senza che le occorra altro che un immobile viaggio (quello mentale, appunto!) per portare alla superficie e mostrare ai suoi lettori quanto è oggetto delle sue visioni fantastiche e immaginative.
L’esperienza personale è spesso spunto per formulare poeticamente riflessioni sulla vita, sulla sofferenza, sulla gioia, sull’amore, sull’amicizia, ma anche in questi casi, apparentemente più semplici da gestire dal punto di vista poetico, Cristina attua dei voli pindarici e trasporta il lettore in una dimensione lirica che viene completamente assorbita dalle fibre più intime dell’anima di chi legge.

Un’altra peculiarità da sottolineare consiste nell’uso di un lessico che si differenzia non solo dall’uso comune (il che è normale per un “vero” poeta), ma dallo stesso uso che ne fanno altri poeti: è come se la Bove fosse distante una o più dimensioni nell’uso del linguaggio, rispetto alla maniera più comune di poetare; è come se il “nutrimento” linguistico- lessicale fosse stato da lei metabolizzato e poi re-inventato in un modo del tutto imprevedibile, in particolare negli accostamenti di termini che nelle sue mani non diventano soltanto metafore prima impensate ed impensabili, forbite ed originali, ma anche semplicemente (sic!) espressioni vive, mobili, che si leggono come se si stesse assistendo ad una rappresentazione teatrale, in modo che appaiono le scene descritte come nell’atto stesso in cui si svolgono.

Le poesie che fanno parte di questa raccolta spaziano su un’ampia gamma di temi, com’è buona consuetudine dell’autrice, così dando modo al lettore di ritrovarsi almeno in alcune delle situazioni o dei vissuti che ne costituiscono l’oggetto.
Ne analizzerò alcune soltanto per suggerire possibili chiavi interpretative, lasciando per il resto ai lettori la gioia della scoperta della magistrale potenzialità della mente umana, in intima relazione con la mente poetica della Bove.
Le poesie che colpiscono maggiormente in una raccolta poetica come questa sono generalmente quelle che incuriosiscono già a partire dal titolo, ma, in base a quanto ho già scritto in proposito, la mia scelta è davvero difficile.
Per restare sul tema delle donne, introdotto dalla Metà del silenzio, altre poesie sullo stesso tema, molto sentito e, purtroppo, sempre attuale, tendono i nervi e il cuore a loro difesa o, quantomeno, ad una sofferta partecipazione. Si vedano, ad esempio, le poesie:
-   Parole inferte, a significare quanto le parole possano fare male, ferire, quando sono pronunciate con una sorta di astio, sempre ingiustificato, a mio parere, quando l’altro/a è un familiare;
-   Donna chissà…, in cui si avverte un forte desiderio di rispetto per la donna, non solo nei momenti in cui le si fa vivere (meglio, “si vive insieme”!) “l’ansimo di un’ora resa insolita” con “un guizzo di vita”; tutto questo, infatti, si cancella di colpo se poi le si trafigge persino l’ombra;
-   Donne, che enumera la diversità delle mansioni a cui le donne ottemperano per l’utilità della famiglia, poi  ripagate da coloro da cui ci si aspetterebbe il massimo rispetto e almeno un po’ d’affetto (compresa la società più ampia), con inganni, e altre azioni non degne di alcun essere umano;
-   Il burqa occidentale, a significare che la condizione femminile non è ancora risolta neppure nel civilizzato (?) mondo occidentale;
-   Figlie della solitudine, donne che hanno per compagnia solo il proprio silenzio carico di profonde emozioni, accumulate già dalla fanciullezza, spesso in ambienti che avrebbero dovuto incoraggiare, difendere, sostenere la fragilità insita per natura in ogni essere umano e tanto più in una bambina;
-   o, ancora, Alfa privativo, dove le donne sono viste come appartenenti all’altra parte della vita; esse lasciano in secondo piano, (meglio, annullano…!) il proprio autentico sentire per poter maggiormente soddisfare il partner, ma sono rese oggetto in mani che “devastano” proprio mentre le si accoglie; e la civiltà? non ha voce per queste abiezioni umane: “la terra non ripaga le sue amazzoni / e  nei giardini i pomi delle esperidi / restano appesi ai rami”.

Molte sono anche le poesie d’amore, in cui questo sentimento viene presentato con i suoi alti e bassi, come avviene in modo naturale nella vita di ognuno: Cristina segue istintivamente i moti dell’animo che le permettono di alternare il sogno, il desiderio, la paura di entrare in una storia nuova che pare se-ducente, il rimpianto per le parole d’amore mai sentite, la nostalgia per i momenti felici trascorsi e il ricordo che torna a farsi vivo come a voler sottolineare, a volte, la distanza tra il passato ricco di emozioni positive e il presente arido, intriso di solitudine esistenziale, e altre volte come a voler supplire alla mancanza di quelle atmosfere piacevoli dei tempi andati, addolcendo così i momenti di abbattimento presenti.

Vi sono poi le poesie più propriamente filosofiche, in cui la Bove continua la sua sofferta ricerca per carpire almeno un barlume di senso dell’esistenza, all’interno di un universo di cui si è parte infinitesima ma che ci rende partecipi della sua grandezza.
E allora, ecco poesie come CHI sogna CHE, dove “meno d’un fiato è il sogno / della vita / dall’agglomerazione alla scompagine” e ciascuno di noi è contemporaneamente il sogno e colui che sogna, e solo l’amore ha la capacità di fare questa sorta di miracolo; o come Tra_scende_re, in cui c’è una sorta di dura opposizione a quel “Tu l’eterno immanente / in ogni quanto particella nome / Tu che immortale vivi / d’ogni morte; o come Notifica a ciel sereno, uno struggente dialogo mistico con la Vita, ingannatrice, beffarda, alla quale si notifica in modo determinato e che non ammette repliche “che il silenzio è peccato originale // è meglio un grido / Madre / di una lacerazione all’infinito”; o come Albori semiotici (in connessioni inspiegabili), in cui la poetessa scopre adesso che “Ero già lì / miliardi di universi partoriti”; o come Mai, dove “è qui che scorre il dentro / tu sei fuori […] // Il vero dio / siamo in frammenti noi / […] siamo i teloni dell’impermanenza / perché tu possa dichiararti eterno”.

Non mancano le poesie un po’ giocose, che sembrano punteggiare la raccolta per allentare un po’ la tensione provocata da certe invettive sociali che pure sono presenti: una per tutte, Mix, dove risaltano in modo netto e fin troppo significativo alcune espressioni che sembrano non avere niente a che fare con le altre, ma dove l’elenco delle cose da “mixare” viene a chiarire alla fine il suo scopo; e allora le “parentesi quadre” inducono ad una sorta di pausa riflessiva momentanea, un “imperativo categorico” sta per un volersi imporre, senza possibilità di ripensamenti, almeno un margine di riflessione che faccia, da sola, da “cartina al tornasole” e finalmente evidenzi con chiarezza la situazione presente; e poi il silenzio, evidenziato dal “cauterio” e dal “chiudere a filo bocca”, per finire con quel “clic su my heart” e sentirne il suono onomatopeico “splash” che da solo spiega quale triste effetto hanno prodotto le condizioni di quella confusione di vita alla quale non ci si riesce ad adattare; molte delle espressioni usate (apparentemente giustapposizioni non legate da alcuna logica discorsiva) trovano la loro corretta collocazione non solo in riferimento al titolo della poesia, ma soprattutto nel denotare come si voglia pensare ad altro per meglio sopportare la propria sofferenza e come, per questo motivo, ci si immerge in situazioni mediatiche, ad esempio seguendo l’andamento della Borsa delle azioni, i matrimoni speciali o altro che possa far parte della quotidianità e da cui ci si possa sentire emotivamente distanziati.

A volte, Cristina sorprende con poesie il cui contenuto viene molto rafforzato dalla struttura grafica: ad esempio, la poesia Myrmeleontidae è scritta in forma di calligramma ed evoca l’habitat della formicaleone, avvalendosi della originalissima metafora dell'imbuto-voragine-abisso, resa visibile dalla stessa grafica dei versi. Questi i versi cardine:
"allunga arpia la mano come gli aztechi a depredarti il cuore e danza
sulle tue ossa stanche il suo bolero d'ombra piramide di sangue
ahimé! quanto sconquasso le parole e quanto scivolosa
nell'imbuto la tana oscura. Può gridare piacere
ai quattro venti: è l'amante del nulla".
[……………………………….]
Il tutto per rapportare all’esperienza umana la vita delle myrmeleontidae: la tana e il loro cibarsi di insetti corrisponderebbe così all’abisso scavato tra le persone quando depredano anime.

Ci sarebbe ancora molto altro da dire per presentare in modo completo questa ricca e interessante silloge poetica, ma mi limiterò a concludere sottolineando come Cristina abbia una grande capacità di captare minimi segnali, non solo dalla vita delle persone direttamente o indirettamente conosciute, ma anche dalla presenza di oggetti e cose che potrebbero sembrare insignificanti e che lei invece riempie di vita e senso, soprattutto in analogia con la propria o altrui esperienza.
È come se riuscisse a rendere presente a ciascun lettore, che volesse immergersi nella sua poetica, l’aspetto stereoscopico della propria anima, nei cui fondali scoprire, insieme a lei,  tesori inimmaginabili che la abitano. Ma sempre portandoci con mano lieve e a volte persino con leggera ironia, anche quando presenta immagini di dolore. Capace, così, di confermare quanto Leopardi scriveva ne’ L’ultimo canto di Saffo, (III, 45-46): “Arcano è tutto, fuor che il nostro dolor”, in quanto riesce a liberare il dolore stesso dalla nozione di arcano, rendendolo vivo, palpabile, e con effetto di forte e immediata partecipazione emotiva del lettore.
Dunque, è così che il silenzio, talvolta, è un gravitare di parole nel vento della sera, un accendere fuochi a precipizio, cauterio di ferite che più sono invisibili più bruciano, lasciando riverberi “in cieli di smeraldo”. Riverberi prontamente captati (con) magica_mente da Cristina Bove, moderna poeta che lascia suggestioni profonde nell’animo di chi sa pienamente apprezzare la sua poetica.

M. Carmen Lama