Metà del silenzio
Prefazione
Il
silenzio, talvolta, è un gravitare di parole il cui suono è quello di una
lingua universale. Parole che nascono a fior di labbra e lì si fermano, o nel
cavo dell’anima dove vengono tenute in gran fermento, ma senza osare debordare.
Attraverso le parole non dette, il silenzio assume tanta forza da ergersi a
sentinella della torre più alta della Vita. Ed è allora che proietta la sua
ombra su ogni cosa di cui vorrebbe dire e invece tace.
Al
poeta, però, non è concesso vivere all’ombra del silenzio. Egli deve assumerne
le responsabilità e tradurlo nelle parole poetiche che gli urgono dentro. Ma
senza alcuna invasione di campo, anzi, nel più garbato rispetto del silenzio
altrui.
Cristina
Bove, nella sua nuova silloge, ha scelto questa via e ha così lasciato che
“Metà del silenzio” rimanesse tale, mentre si è avvalsa dell’altra metà per
dare voce alle congetture possibili che quella metà taciuta ha di volta in
volta in lei evocato.
La
poesia che dà il titolo alla silloge, infatti, è paradigmatica in tal senso: si
parla delle donne, (la “metà del
cielo” silenziosa) “arretrate su rive
senza rena” che “vanno col viso vuoto / le mani piene nei sorrisi incerti” //
“E braccia / da stringersi soltanto al proprio petto”: il loro silenzio è un
grido altissimo che Cristina ha catturato e trasformato in poesia. L’ha
interpretato dai gesti, dagli sguardi, dalla malinconia che traspare “dagli
occhi di smeraldo”.
Ed
è un silenzio che vive della sua stessa forza, declinata al positivo e tradotta
nella ricchezza interiore che produce.
Non
fa altro, il poeta, che prelevare dal profondo le parole di quell’intima
sofferenza difficile da esprimere, ma che accomuna per molti suoi aspetti gli
esseri umani e che, quindi, dà modo al suo animo sensibile di farla propria e,
così, di esplicitarla.
Da
questa breve premessa, si coglie già l’intento poetico di Cristina Bove:
assumere pienamente la funzione del poeta e, pertanto, illuminare ciò che esige
una spiegazione, un senso, e cercare di analizzare da più prospettive dubbi,
domande, misteri, dolore e, insomma, tutto ciò che attiene all’esistenza
universale per darne una possibile, ma mai univoca, né esaustiva,
interpretazione.
Ma,
al di là del titolo esemplificativo dell’intera silloge, ciò che colpisce a
prima vista sono anche gli stessi titoli di ciascuna poesia:
- alcuni, per i giochi di parole che evocano e
che nella nostra ricca lingua sono molto stimolanti; ed è interessante vedere
come vengono poi riempiti di significato nei diversi sensi dis_giunti da un segno (come la sublinea
appena evidenziata nel termine dis_giunti), oppure da parentesi. Alcuni esempi:
Con_sensi; Di_versi fuochi; Tra_scende_re; A (f) fondo;
-
altri per l’originalità espressiva che, nella maggior parte dei casi, racchiude
già in sé il senso complessivo della poesia (es. Chi sogna Che; Parole inferte;
Acque profonde; Notifica a ciel sereno; Il burqa occidentale; Fluitare; ecc…);
-
altri ancora, perché sono il segno di una cultura ampia, che va dalla fisica,
all’astrofisica, alla filosofia, al mito, alla scienza, perfino alla musica e
alle arti plastiche e pittoriche, e senza trascurare le fiabe prese a simbolo
di accadimenti e vissuti (es: Acherontia; Capella; Atlantidea; PiErre; PHI; Myrmeleontidae;
Alhabor; Doroty e il Mago; ecc...).
Questa
ricchezza, che appare già alla prima scorsa dell’Indice, si sostanzializza poi
nelle diverse poesie, attraversate da una musicalità e un’armonia che guidano
il lettore nella comprensione pressoché immediata, se non del senso profondo,
almeno dell’atmosfera incarnata nella forma.
Una
tecnica fine, tendente a mascherare l’endecasillabo, quasi sempre presente, a
volte in alternanza col settenario, come nella migliore tradizione classica mai
superata, è quella di spezzarlo, così da far sembrare interrotto il pensiero e far prendere respiro, accennando a
una pausa vocale che sostiene meglio l’andamento ritmico e, ancora una volta,
la stessa comprensione.
Ma
vorrei ora sottolineare una particolare caratteristica di Cristina Bove-poeta,
che discende dall’ampiezza culturale di cui sono permeate le sue opere:
leggendo le sue poesie, ci si chiede, quasi increduli, in che modo ella riesca
a introdurre l’universo, nelle sue molteplici sfaccettature, all’interno di un
breve componimento poetico. Sembra quasi che la sua mente sia in grado di
contenerlo, senza che le occorra altro che un immobile viaggio (quello mentale,
appunto!) per portare alla superficie e mostrare ai suoi lettori quanto è
oggetto delle sue visioni fantastiche e immaginative.
L’esperienza
personale è spesso spunto per formulare poeticamente riflessioni sulla vita,
sulla sofferenza, sulla gioia, sull’amore, sull’amicizia, ma anche in questi
casi, apparentemente più semplici da gestire dal punto di vista poetico,
Cristina attua dei voli pindarici e trasporta il lettore in una dimensione
lirica che viene completamente assorbita dalle fibre più intime dell’anima di
chi legge.
Un’altra
peculiarità da sottolineare consiste nell’uso di un lessico che si differenzia
non solo dall’uso comune (il che è normale per un “vero” poeta), ma dallo
stesso uso che ne fanno altri poeti: è come se la Bove fosse distante una o più
dimensioni nell’uso del linguaggio, rispetto alla maniera più comune di
poetare; è come se il “nutrimento” linguistico- lessicale fosse stato da lei
metabolizzato e poi re-inventato in un modo del tutto imprevedibile, in
particolare negli accostamenti di termini che nelle sue mani non diventano
soltanto metafore prima impensate ed impensabili, forbite ed originali, ma
anche semplicemente (sic!) espressioni vive, mobili, che si leggono come se si
stesse assistendo ad una rappresentazione teatrale, in modo che appaiono le
scene descritte come nell’atto stesso in cui si svolgono.
Le
poesie che fanno parte di questa raccolta spaziano su un’ampia gamma di temi,
com’è buona consuetudine dell’autrice, così dando modo al lettore di ritrovarsi
almeno in alcune delle situazioni o dei vissuti che ne costituiscono l’oggetto.
Ne
analizzerò alcune soltanto per suggerire possibili chiavi interpretative,
lasciando per il resto ai lettori la gioia della scoperta della magistrale
potenzialità della mente umana, in intima relazione con la mente poetica della
Bove.
Le
poesie che colpiscono maggiormente in una raccolta poetica come questa sono
generalmente quelle che incuriosiscono già a partire dal titolo, ma, in base a
quanto ho già scritto in proposito, la mia scelta è davvero difficile.
Per
restare sul tema delle donne, introdotto dalla Metà del silenzio, altre poesie
sullo stesso tema, molto sentito e, purtroppo, sempre attuale, tendono i nervi
e il cuore a loro difesa o, quantomeno, ad una sofferta partecipazione. Si
vedano, ad esempio, le poesie:
- Parole inferte, a significare quanto le parole possano
fare male, ferire, quando sono pronunciate con una sorta di astio, sempre
ingiustificato, a mio parere, quando l’altro/a è un familiare;
- Donna chissà…, in cui si avverte un forte desiderio di
rispetto per la donna, non solo nei momenti in cui le si fa vivere (meglio, “si
vive insieme”!) “l’ansimo di un’ora resa insolita” con “un guizzo di vita”;
tutto questo, infatti, si cancella di colpo se poi le si trafigge persino
l’ombra;
- Donne, che enumera la diversità delle mansioni a cui
le donne ottemperano per l’utilità della famiglia, poi ripagate da coloro da cui ci si aspetterebbe
il massimo rispetto e almeno un po’ d’affetto (compresa la società più ampia),
con inganni, e altre azioni non degne di alcun essere umano;
- Il burqa occidentale, a significare che la condizione
femminile non è ancora risolta neppure nel civilizzato (?) mondo occidentale;
- Figlie della solitudine, donne che hanno per compagnia
solo il proprio silenzio carico di profonde emozioni, accumulate già dalla
fanciullezza, spesso in ambienti che avrebbero dovuto incoraggiare, difendere,
sostenere la fragilità insita per natura in ogni essere umano e tanto più in
una bambina;
- o, ancora, Alfa privativo, dove le donne sono viste
come appartenenti all’altra parte della vita; esse lasciano in secondo piano,
(meglio, annullano…!) il proprio autentico sentire per poter maggiormente
soddisfare il partner, ma sono rese oggetto in mani che “devastano” proprio
mentre le si accoglie; e la civiltà? non ha voce per queste abiezioni umane:
“la terra non ripaga le sue amazzoni / e
nei giardini i pomi delle esperidi / restano appesi ai rami”.
Molte
sono anche le poesie d’amore, in cui questo sentimento viene presentato con i
suoi alti e bassi, come avviene in modo naturale nella vita di ognuno: Cristina
segue istintivamente i moti dell’animo che le permettono di alternare il sogno,
il desiderio, la paura di entrare in una storia nuova che pare se-ducente, il
rimpianto per le parole d’amore mai sentite, la nostalgia per i momenti felici
trascorsi e il ricordo che torna a farsi vivo come a voler sottolineare, a
volte, la distanza tra il passato ricco di emozioni positive e il presente
arido, intriso di solitudine esistenziale, e altre volte come a voler supplire
alla mancanza di quelle atmosfere piacevoli dei tempi andati, addolcendo così i
momenti di abbattimento presenti.
Vi
sono poi le poesie più propriamente filosofiche, in cui la Bove continua la sua
sofferta ricerca per carpire almeno un barlume di senso dell’esistenza,
all’interno di un universo di cui si è parte infinitesima ma che ci rende
partecipi della sua grandezza.
E
allora, ecco poesie come CHI sogna CHE, dove “meno d’un fiato è il sogno /
della vita / dall’agglomerazione alla scompagine” e ciascuno di noi è
contemporaneamente il sogno e colui che sogna, e solo l’amore ha la capacità di
fare questa sorta di miracolo; o come Tra_scende_re, in cui c’è una sorta di
dura opposizione a quel “Tu l’eterno immanente / in ogni quanto particella nome
/ Tu che immortale vivi / d’ogni morte; o come Notifica a ciel sereno, uno
struggente dialogo mistico con la Vita, ingannatrice, beffarda, alla quale si
notifica in modo determinato e che non ammette repliche “che il silenzio è
peccato originale // è meglio un grido / Madre / di una lacerazione all’infinito”;
o come Albori semiotici (in connessioni inspiegabili), in cui la poetessa
scopre adesso che “Ero già lì / miliardi di universi partoriti”; o come Mai,
dove “è qui che scorre il dentro / tu sei fuori […] // Il vero dio / siamo in
frammenti noi / […] siamo i teloni dell’impermanenza / perché tu possa
dichiararti eterno”.
Non
mancano le poesie un po’ giocose, che sembrano punteggiare la raccolta per
allentare un po’ la tensione provocata da certe invettive sociali che pure sono
presenti: una per tutte, Mix, dove risaltano in modo netto e fin troppo
significativo alcune espressioni che sembrano non avere niente a che fare con
le altre, ma dove l’elenco delle cose da “mixare” viene a chiarire alla fine il
suo scopo; e allora le “parentesi quadre” inducono ad una sorta di pausa
riflessiva momentanea, un “imperativo categorico” sta per un volersi imporre,
senza possibilità di ripensamenti, almeno un margine di riflessione che faccia,
da sola, da “cartina al tornasole” e finalmente evidenzi con chiarezza la situazione
presente; e poi il silenzio, evidenziato dal “cauterio” e dal “chiudere a filo
bocca”, per finire con quel “clic su my heart” e sentirne il suono onomatopeico
“splash” che da solo spiega quale triste effetto hanno prodotto le condizioni
di quella confusione di vita alla quale non ci si riesce ad adattare; molte
delle espressioni usate (apparentemente giustapposizioni non legate da alcuna
logica discorsiva) trovano la loro corretta collocazione non solo in
riferimento al titolo della poesia, ma soprattutto nel denotare come si voglia
pensare ad altro per meglio sopportare la propria sofferenza e come, per questo
motivo, ci si immerge in situazioni mediatiche, ad esempio seguendo l’andamento
della Borsa delle azioni, i matrimoni speciali o altro che possa far parte
della quotidianità e da cui ci si possa sentire emotivamente distanziati.
A
volte, Cristina sorprende con poesie il cui contenuto viene molto rafforzato
dalla struttura grafica: ad esempio, la poesia Myrmeleontidae è scritta in
forma di calligramma ed evoca l’habitat della formicaleone, avvalendosi della
originalissima metafora dell'imbuto-voragine-abisso, resa visibile dalla stessa
grafica dei versi. Questi i versi cardine:
"allunga arpia la mano come gli aztechi a
depredarti il cuore e danza
sulle tue ossa stanche il suo bolero d'ombra piramide
di sangue
ahimé! quanto sconquasso le parole e quanto scivolosa
nell'imbuto la tana oscura. Può gridare piacere
ai quattro venti: è l'amante del nulla".
[……………………………….]
Il
tutto per rapportare all’esperienza umana la vita delle myrmeleontidae: la tana
e il loro cibarsi di insetti corrisponderebbe così all’abisso scavato tra le
persone quando depredano anime.
Ci
sarebbe ancora molto altro da dire per presentare in modo completo questa ricca
e interessante silloge poetica, ma mi limiterò a concludere sottolineando come
Cristina abbia una grande capacità di captare minimi segnali, non solo dalla
vita delle persone direttamente o indirettamente conosciute, ma anche dalla presenza
di oggetti e cose che potrebbero sembrare insignificanti e che lei invece
riempie di vita e senso, soprattutto in analogia con la propria o altrui
esperienza.
È
come se riuscisse a rendere presente a ciascun lettore, che volesse immergersi
nella sua poetica, l’aspetto stereoscopico della propria anima, nei cui fondali
scoprire, insieme a lei, tesori
inimmaginabili che la abitano. Ma sempre portandoci con mano lieve e a volte
persino con leggera ironia, anche quando presenta immagini di dolore. Capace,
così, di confermare quanto Leopardi scriveva ne’ L’ultimo canto di Saffo, (III,
45-46): “Arcano è tutto, fuor che il nostro dolor”, in quanto riesce a liberare
il dolore stesso dalla nozione di arcano, rendendolo vivo, palpabile, e con
effetto di forte e immediata partecipazione emotiva del lettore.
Dunque,
è così che il silenzio, talvolta, è un gravitare di parole nel vento della
sera, un accendere fuochi a precipizio, cauterio di ferite che più sono
invisibili più bruciano, lasciando riverberi “in cieli di smeraldo”. Riverberi
prontamente captati (con) magica_mente da Cristina Bove, moderna poeta che
lascia suggestioni profonde nell’animo di chi sa pienamente apprezzare la sua
poetica.
M. Carmen Lama
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