Contro ogni marmo non resta che mendicare il sogno dei folli e dei poeti
Tra opere d’arte varia (pittura, scultura,
video-art) e dopo tre raccolte di poesia pubblicate e il successo del romanzo
autobiografico Una per mille, la
poliedrica artista Cristina Bove ritorna alla poesia con questo nuovo
incandescente libro, frutto di un imponente lavoro di introspezione e
percezione del mondo e del suo senso.
La donna di marmo nell’aiuola è proprio
lei, l’autrice, che inscena il grandioso spettacolo della vita e pure la sfera
oscura dell’oltrevita, indagando l’essenza dell’umano e del mondo, incalzando
con testi serrati la stessa esistenza a rivelare il versante indicibile, tutta
la sua assurdità, perfino ad ammetterne il possibile non-sense.
Attraverso un andamento simil-poematico che procede per testi separati, ma che risultano
tutti interconnessi e senza rompere l’opera in sezioni, Cristina Bove dipana le
sue interrogazioni metafisiche e lo fa con toni lievi, quasi dialoganti, e con una
continua sottile ironia, che salva la scrittura dal rischio di sconfinamento
filosofico.
Ritorna la sua visione cosmica - gli esseri come
frammenti di infinito nell’infinito – o come lembi vaganti di pensiero o anche
nomi in volo che aspettano di essere riconosciuti, comunque minime cosmiche entità
in un continuo gioco del ritrovarci dopo
esserci persi. Una verità ineludibile, che gli umani continuano a non
vedere, perché oscurata dai guasti che essi stessi insistono a perpetrare sul
mondo, quasi in una maledetta coazione a ripetere, un destino gramo che fa
dimenticare l’immenso da cui si proviene. Ecco perché l’autrice dichiara di
restare in attesa dell’andata e del non
ritorno, come per ritornare alla serenità dell’origine, e di sentirsi già nel
momento del trapasso tra fuoco e ghiaccio, chiedendo per sé solo un prato di giunchiglie (l’aiuola del
titolo, metafora di uno spazio di pace). La ricerca di senso accade per visioni
oniriche e sprazzi dal sapore profetico, con figure di creature mitiche che nel
ricordo della poetessa emergevano dalle mura domestiche già dalla lontana
infanzia e che - come simboli di illusione – la informano della possibile
totale inconsistenza della realtà.
…
e non si
appare che vestiti vuoti
appollaiati
alle finestre
vapori a fil
di vento
a tessere
giornate in spazi assenti
città dipinte
nei colori onirici
intorno a
tutti i sé temuti e amati
-ci si può
stare in tanti –
suggeriscono
strade sul confine
oltre le cose
conosciute e solide
varchi da cui
si possa intravedere
un altro
esistere - forse - (n.9)
E l’ironia, che a volte sconfina nel sarcasmo, è il
corrimano cui Bove si aggrappa per resistere al senso di vuoto che avverte,
devastante, come nei versi
L’aria che
avvolge i corpi
è il calco d’ogni
forma
-una fusione
a cielo perso -
e
anime
confinate nei minuti
- lo spazio,
un vuoto a rendere - (n.11)
Perfino il possedere una stanza tutta per sé, di woolfiana memoria, non basta a diradare
la nebbia persistente. Restano i bambini, figure-archetipo della pura
percezione della verità, a intuire e suggerire, e resta l’amore, che in questo
buio-luce è ineliminabile fuoco. Anche se dell’amore
non si può dire - di fronte alle macerie umane che sommergono - sia per
eccesso di pudore, sia perché è quasi impossibile un vero amoroso incontro,
nonostante la vicinanza degli amanti.
Con il suo naturale andamento metrico in settenari ed endecasillabi e nel lessico l’uso frequente di termini polifusi, l’affabulare poetico di Cristina Bove procede in sonora tensione ritmica e forza immaginativa indagando bellezza e fragilità del mondo e scavando nelle pieghe dell’io, snodi cruciali di questa poetica. Bove pure riconosce le difficoltà dello scavo e la distanza che sempre si frappone con il proprio focus di verità, quel “segreto centro” borgesiano, sorgente di suggestioni e tracce rivelatrici, eppure mai completamente raggiungibile.
Con il suo naturale andamento metrico in settenari ed endecasillabi e nel lessico l’uso frequente di termini polifusi, l’affabulare poetico di Cristina Bove procede in sonora tensione ritmica e forza immaginativa indagando bellezza e fragilità del mondo e scavando nelle pieghe dell’io, snodi cruciali di questa poetica. Bove pure riconosce le difficoltà dello scavo e la distanza che sempre si frappone con il proprio focus di verità, quel “segreto centro” borgesiano, sorgente di suggestioni e tracce rivelatrici, eppure mai completamente raggiungibile.
E centrale appare il testo Desistenze (n.39), dove è inscenato un
dialogo tra la poetessa e un altro - non importa chi sia, compagno di
vita o amico/a -, in cui il desiderio di ricomposizione di
un’interiorità lacerata e pure la fame di salvezza da un sistema esterno
che travolge l’umano, si scontrano con la consapevolezza di un destino
di solitudine e di finale totale evanescenza. Resta potente la
rappresentazione della miseria umana, dell’imperturbabile sordità dei
responsabili al potere verso il grido che si leva dagli ultimi della
terra. La poetessa si spinge così a prefigurare un’autoestinzione dei
viventi, epilogo molto probabile dell’umana vicenda, forse - a parziale
discolpa degli umani - con colpo finale dato da eventi catastrofici
geologici, quando la Terra vorrà scrollarsi dalle pulci. (n.72)
Si percepisce nettamente da questa scrittura colma
d’amarezza l’impronta di una cicatrice non rimarginata, l’esito di un fiero
dolore-mancanza che ha capovolto quella capacità di visione che siamo soliti
dire “normale”, rendendola acuta e nitida, fino all’incandescenza. E tutto
questo accade in un perimetro privato, angusto come è quello domestico, tra un
taglio di patate e una pentola lasciata bruciare, o uno sguardo sul giardino fuori
dalla finestra: condizioni che qui invece dilatano e accelerano l’acuzie del
pensiero, capace di lanciare fuori dal bunker una parola autentica, debordante,
memorabile. Il suo ritmo curatissimo, il suo tono ora colloquiale, ora
stralunato, dà vita ad una scrittura che Cristina Bove sa colorare di tinte
inafferrabili e arcane, come fa con le sue oniriche e rarefatte opere di
videoart. Basta soffermarsi sui testi E
di siffatte favole dormire (n.59) e Come
in un quadro di Chagall (n.60), dove,
nonostante tutto, anche in contraddizione con altra tesi poeticamente sostenuta
in precedenza, emerge - impellente di necessità - il desiderio di vicinanza e sostegno
affettivo. Così la poesia di Bove lascia sottendere che, soprattutto in poesia,
occorre fare i conti con la contraddizione, che non è altro che uno specchio
della molteplicità del reale. Dal grigiore ci si può infatti sollevare volando,
magari con le labili ali di Icaro che ci faranno ammarare senza salvagente, ma con la consapevolezza che ci sarà
concesso di guardare quella turbolenza
all’orizzonte, ultima parvenza di una possibile realtà benigna.
…
nel tempo
limitato degli sguardi
nello spazio
di cose sottoscritte
l’angelo che
ci assiste se ne va
toccato e arreso
ci lascia sopraffatti dalla vita
spenti alla luna, accesi in altri mondi
ciascuno
nella propria solitudine (n.40)
Tutto il libro si rivela dunque un cammino che
esplora senza paura i tanti aspetti del buio che ci sommerge, una voce
familiare che sembra prenderci per mano, che ci lascia pure una sua ultima accorata
richiesta di perdono e infine lancia una sorta di aperta profezia, che la vita
forse sarà sempre un mendicare il sogno
dei folli e dei poeti. (n.49)
Cristina Bove ha saputo costruire in questi nostri
giorni disastrati e disconnessi un raro ed esemplare modello di poesia sul
senso dell’esistere, con una scrittura limpida, coraggiosa, fuori da ogni
maschera. Offrendo la propria inquietudine e la propria elaborazione poetica, e
insieme una soglia raggiunta di serenità, la poetessa ha sospinto la parola
oltre i confini della finitezza, laddove la sua comunicazione si fa più acuta e
il senso intravisto degno di memoria. E’questa oggi la responsabilità che si
richiede alla poesia.
Annamaria Ferramosca