venerdì 4 settembre 2020

Prof. Giuseppe Martella

  

> PROFILO DIDATTICO <

Ha fatto parte delle commissioni di esame e di laurea; ha inoltre seguito numerose tesi di laurea di argomento vario, specialmente sulla drammaturgia elisabettiana e sulla poesia e la narrativa del Novecento. Ha anche fornito assistenza e orientamento agli studenti nelle loro ricerche e nella formulazione dei piani di studio individuali, con successiva verifica e correzione degli stessi.

Tra gli argomenti dei seminari e dei corsi tenuti ricordiamo: la teoria estetica e la metodologia critica di I.A. Richards, sulla poesia di S.T. Coleridge, la poesia di W.B. Yeats, il poeta italo-americano contemporaneo Enrico Garzilli (in collaborazione con la prof. Angela Giannitrapani ha curato la pubblicazione di un poemetto di Enrico Garzilli, corredandola con un saggio introduttivo, cfr. bibliografia); l'applicazione alla letteratura della nozione di "paradigma" di T.S. Kuhn, e l'applicazione dell'analisi del discorso e della teoria degli Speech Acts allo studio dei testi drammatici, il dramma shakespeariano in rapporto alla cultura dell'epoca. (Hamlet, Mac beth, King), il dramma storico shakespeariano con l'analisi del discorso nel testo drammatico, utilizzando metodi tratti dalla linguistica, dall'etnometodologia, dalla sociologia dell'interazone quotidiana (in particolare gli incipit delle tragedie di Shakespeare), il "Rinascimento ed età elisabettiana", l'episteme rinascimentale servendosi degli studi critici di J. Burkhardt, E. Cassirer e M. Foucault, soffermandosi specialmente sul concetto di "allegoria", e istituendo anche dei paralleli con l'uso che ne hanno fatto autori moderni, come J.L. Borges. Ha inoltre trattato lo studio del testo poetico, utilizzando in particolare le metodiche di R. Jakobson e J. Lotman (W.B. Yeats e T.S. Eliot.), si è occupato di ermeneutica epistemologia e decostruzione; del modernismo (W.B. Yeats, T.S. Eliot, W.H. Auden e J. Joyce).

> PROFILO SCIENTIFICO <

Dal 1979 al 1986 Giuseppe Martella ha fatto parte di un gruppo di ricerca interuniversitario sotto la direzione del prof. W.N. Dodd. Il programma del gruppo aveva come obbiettivo finale la ridescrizione delle convenzioni del testo drammatico, mediante l'uso di strumenti di analisi tratti dalla linguistica, dalla etnometodologia, dalla sociologia dell'interazione quotidiana, dalla filosofia del linguaggio, ecc; e mediante esempi tratti dalla drammaturgia inglese nel suo complesso ma specialmente da quella elisabettiana. Uno dei problemi maggiormente studiati concerneva l'insieme delle strategie messe in opera dal drammaturgo nell'incipit per introdurre lo spettatore nel mondo fittizio del dramma - strategie che si configurano diversamente a seconda che si abbia a che fare con poetiche dell'illusione o, piuttosto, di straniamento. L'impostazione della ricerca era molto articolata e aveva notevoli potenzialità, che sono state solo parzialmente sfruttate. Tuttavia, allo scopo di verificare le strategie dell'incipit in un corpus compatto e sorretto da una poetica coerente, il gruppo ha svolto uno studio sistematico dei drammi di Shakespeare, i cui risultati sono stati raccolti in un volume pubblicato col titolo: Interazione, dialogo, convenzioni: il caso del testo drammatico, Bologna, CLUEB, 1983. Nell'ambito del progetto collettivo, si è poi dedicato, in collaborazione con P. Pugliatti, allo studio dei drammi Shakespeare sulla storia inglese. Su quest'argomento ha pubblicato alcuni saggi.

L'altra principale area di ricerca cui Martella si dedica da una decina d'anni, concerne la narrativa e la poetica di Joyce. Dal 1985 al 1990, infatti, ha partecipato a una ricerca interuniversitaria su "La scrittura e la critica di Joyce", coordinata dal prof. T. Kemeny. La ricerca si proponeva di esplorare diversi aspetti della coerenza dei testi di Joyce, al di là della loro talvolta apparente frammentarietà. Nell'ambito di questa ricerca, ha lavorato in particolare sull'Ulisse, concentrandosi sui modi in cui il "romanzo" di Joyce esprime la crisi epistemologica del Novecento. Come risultato di questo studio, ha pubblicato diversi saggi.

L'oggetto principale d’interesse riguarda tuttavia la teoria della rappresentazione sia narrativa che drammatica, con particolare riferimento all'Ulisse di Joyce, e alle conseguenze che se ne possono trarre per la poetica dell'autore. Allo scopo di approfondire lo sfondo teoretico delle proprie ricerche, e per un'esigenza già da lungo tempo da lui avvertita, si è dedicato, almeno dal 1986 in poi, allo studio di diversi classici della storia della filosofia, con l'intento di acquisire il lessico e gli strumenti concettuali necessari per poter delineare lo schizzo di una teoria "evenemenziale" della rappresentazione in grado di corrispondere alle strutture linguistiche e agli effetti di senso dei testi joyceiani, e modernisti in generale. Si trattava infine di una teoria dei rapporti fra metafora (intesa anche come metanoia, shock etico-conoscitivo) e mito (inteso come funzione portante della continuità della coscienza), e delle loro possibili articolazioni, in quanto poli complementari e reciprocamente irriducibili del discorso nei vari generi, vecchi e nuovi, di rappresentazione. E si trattava anche di trarre le implicazioni che tali rapporti hanno per le poetiche narrative e drammaturgiche del Novecento, allorché i generi letterari tradizionali subiscono l'impatto netto dei nuovi mass media. Un problema perspicuamente posto da Benjamin negli anni trenta e non ancora adeguatamente riformulato filosoficamente per le nuove situazioni della significazione e della comunicazione telematiche. Tutto ciò risulta pertinente per lo studio dell'Ulisse, dove si dispiega una vasta gamma dei moderni linguaggi dei media, dalle parodie del giornalismo a quelle della pubblicità.

Questi studi si ricollegano d’altronde alle ricerche sui drammi storici di Shakespeare, che vennero interrotte a suo tempo proprio per l'esigenza avvertita di approfondire i contesti teoretici delle proprie ricerche sul dramma, allo scopo di poter tentare in modo più consapevole una definizione del sottogenere "dramma storico", con riguardo particolare all'epoca elisabettiana. A tale scopo, dal gennaio all'aprile 1985, Giuseppe Martella ha svolto una serie di ricerche, presso lo Shakespeare Institute dell'Università di Birmingham, sulla ricezione della Poetica di Aristotele in Inghilterra durante il Cinquecento: queste ricerche non hanno avuto risultati in termini di pubblicazioni. Nel 1991, ha ripreso la ricerca sul dramma storico shakespeariano come genere, cercando di fissarne alcuni tratti costitutivi attorno alla tensione epistemologica che lo regge: cioè quella fra la verità intesa come corrispondenza fra l'intreccio drammatico e i fatti storici trattati, e la verità intesa come coerenza interna del testo. Questo abbozzo di una definizione del genere e delle strategie usate da Shakespeare per drammatizzare i materiali storiografici, si trova nel saggio su Henry IV.

Martella ha proseguito le sue ricerche sulla narrazione, approfondendo lo studio del mito greco e della sua persistenza e vitalità nella cultura occidentale (cfr. Kereny, Calasso, Blumemberg, ecc.), a partire dai grandi racconti legittimanti della filosofia moderna (Schelling, Hegel, Nietzsche specialmente), passando per le configurazioni narrative e metaforiche della psicanalisi freudiana e per la teoria junghiana degli archetipi dell'inconscio collettivo, per finire con i romanzi otto-novecenteschi. Questi ultimi si possono leggere infatti come pezzi di rimitizzazione in un linguaggio ormai dominato dai concetti e dalle metafore scientifiche, come viene suggerito dalle ipotesi di H. Blumemberg e di altri autori. Tutto ciò ovviamente è stato svolto a grandi linee, data l'ampiezza della materia, e con la consapevolezza dei rischi di dispersione ivi impliciti e dello scotto da pagare in termini di fatica e di immagine, ma se ne è ricavata almeno una lezione di umiltà. Dal punto di vista formale la definizione generale più valida del mito rimane quella data da Aristotele come "l'ordinamento dei fatti secondo verosimiglianza e necessità". A partire da questa definizione amplissima, si è studiato il rapporto essenziale che lega il racconto con la metafora, intesa come messa in scena drammatica (si pensi al mito platonico della Caverna); il nesso costitutivo fra immagine e mondo che in quella si realizza; il nesso ontologico fra autore, eroe e destinatario, intesi come funtivi universali del racconto; e infine il rapporto fra la struttura teleologica dell'intreccio e un'immagine cardine ( o "epifania"), quale si realizza nell'Ulisse di Joyce, alla definizione della cui poetica è infatti finalizzata la ricerca. Ha dunque intrapreso lo studio delle strutture narrative dell'Ulisse che pongono problemi oltremodo spinosi alle analisi strutturali e semiotiche e, come osserva U. Eco (Le poetiche di Joyce), chiamano in gioco l'intero campo delle poetiche novecentesche. Ma, nel mentre cercava di trovare una teoria capace di corrispondere alla novità dell'opera, ha notato che quest'ultima era saldamente radicata nella tradizione letteraria, a partire più che dall'Odissea dalla Bibbia, che riveste nei confronti dell'Ulisse la funzione di modello sia per quanto riguarda i temi, che le figure, che le strutture narrative. La ricerca si è dunque orientata a delineare e a sviluppare un parallelo biblico nell'Ulisse e a discuterne l'importanza per la comprensione del testo. Inoltre si è provato a far apparire alcune fila dell'incrocio fra la componente biblica e quella classica nel testo e di mostrare come la (post)modernità dell'Ulisse sia funzione della sua arcaicità. I risultati di questa ricerca sono stati in parte raccolti nel recente volume edito dalla CLUEB.

Martella utilizza una metodologia eclettica, che tuttavia unifica secondo una prospettiva fenomenologico-ermeneutica. Si serve della tipologia della cultura di J. Lotman, dell'ermeneutica storica e biblica di P. Ricoeur, degli approcci letterari alla Bibbia di R. Alter e N. Frye, degli approcci filosofico-ermeneutici al mito e alla storia della sua efficacia di H. Blumemberg, R. Calasso, M. Cacciari, oltre che di studi ormai classici sui miti, come quelli di Schelling e di K. Kereny, e sulla Bibbia, come quelli di Bultmann e Culmann. Si serve anche di studi di critici della cultura e di teorici della comunicazione di massa, come quelli di W. Benjamin, M. McLuhan, U. Eco, F. Jameson. La terza area principale alla ricerca di Martella, accanto a quelle del dramma elisabettiano e della letteratura modernista, e ad esse complementare, è infatti la teoria della critica e l'ermeneutica filosofico-letteraria, di cui si occupa ormai da parecchio tempo con la pertecipazione a seminari e con la scrittura di alcuni saggi, in parte raccolti nel volume pubblicato dalla ETS.

Dal 1997 in poi, ha lavorato prevalentemente sul modernismo ; Joyce e i generi della Sacra Scrittura ; Joyce e il linguaggio dei media. Ha cercato, nel complesso, di mostrare il nesso essenziale fra tradizione e innovazione nei grandi classici modernisti, e in particolare in James Joyce.

Ha condotto una ricerca sul rapporto fra tradizione letteraria e influenza dei linguaggi della comunicazione di massa nella narrativa, nel dramma e nella poesia di lingua inglese - con particolare riferimento alle opere di Joyce, in cui la tensione fra tradizione e sperimentazione si può cogliere al meglio, come ripresa parodistica, nell’epoca del trionfo della tecnica, dell’intera tradizione letteraria dell’Occidente, che viene proiettata oltre se stessa, in uno spazio di comunicazione mediologico. Tale spazio viene simulato e progettato con grande anticipo, nelle opere maggiori di Joyce : l’Ulisse e il Finnegans Wake. Nelle opere giovanili si possono cogliere segni di questa "preveggenza" di Joyce riguardo alla mutazione in atto nella tradizione letteraria. Una tappa importante, nel processo di rappresentazione di un nuovo spazio iper-letterario da parte di Joyce, è costituita dalla breve "autobiografia" fictional, non intesa alla pubblicazione, Giacomo Joyce. Qui, negli scorci del diario di una infatuazione del Joyce triestino per una sua allieva ebrea, si aprono crepe e abissi nello spazio letterario, che lo rovesciano nella dimensione altra, ipermediale, che lo attende. Giacomo Joyce costituisce l’orizzonte aperto e prefigurato su cui si articoleranno i temi e le strutture delle opere maggiori. Proprio intorno a questo testo poco studiato ruota idealmente la nuova ricerca: Ha appena finito di scrivere, infatti, un primo contributo critico sul  Giacomo Joyce per gli Atti del James Joyce Symposium (Roma, giugno 1998), di prossima pubblicazione.

 

> BIBLIOGRAFIA <


Limiti del diafano. Studi di teoria e critica letteraria, Pisa, ETS, 1990.

"Sul mimo : Ione-Dedalus", Malavoglia, 16, giugno, 1995.

"Postmoderno : Five Fingers Exercise", Malavoglia, 19, giugno, 1996.

"Henry the Fourth : the Frame of History", in Mnema. Per Lino Falzon Santucci, a cura di P. Pugliatti, Messina, 1997.

Ulisse : parallelo biblico e modernità, Bologna, CLUEB, 1997.


"Storicismo vecchio e nuovo", Malavoglia, 19, giugno, 1997.

"Giacomo Joyce : Hypertext and Wisdom Literature", F. Ruggeri, ed., Classic Joyce, Roma, Bulzoni, 1999.

Giuseppe Martella

 

 

> CURRICULUM VITAE <

9 luglio 1974 Laurea in Lingue e letterature straniere presso l'Università di Messina, con una tesi sulla metodologia critica di I.A. Richards.

Dal 2.12.1974 assegno di studio presso l'Istituto di Lingue e Letterature Germaniche della Facoltà di Magistero dell'Università di Messina poi trasferito presso la facoltà di Magistero dell'Università di Bologna, a decorrere dal 12.11.1979.

Dal 1.8.1980 ricercatore confermato, presso la Facoltà di Magistero dell'Università di Bologna. Trasferito, dal 8.5.1984, presso la Facoltà di Lettere dell'università di Bologna.

1994-95 supplenza per l'insegnamento di Lingua e Letteratura Inglese III anno (Facoltà di Lingue e Letterature Straniere, Università di Bologna)

Dall’ A.A. 1995-96 all’ A.A. 1997-98 affidamento per l'insegnamento di Lingua e Letteratura Inglese III (Facoltà di Lingue e Letterature Straniere, Università di Bologna)

Dall’ A.A. 1998-99 associato di Lingua e Letteratura Inglese presso l’Università di Urbino  (Piazza Rinascimento 7 -- 61029 Urbino)

 

 

venerdì 10 gennaio 2020

Anna Maria Curci su "La simmetria del vuoto" - Arcipelago Itaca edizioni

L’equilibrio della sospensione: _La simmetria del vuoto_ di Cristina Bove

C’è un verbo che associo alla poesia di Cristina Bove e che si addice in modo particolare a questa raccolta, _La simmetria del vuoto_. È un verbo che appartiene alla lingua tedesca e, come spesso accade per i passaggi da un idioma all’altro, racchiude molti significati, che non possono essere resi con un solo verbo italiano. Il termine tedesco è schweben, e vuol dire stare sospesi, librarsi, così come, pure, oscillare, fluttuare. Ecco, la dimensione nella quale si muovono e alla quale permettono di accedere i versi di Cristina Bove è sicuramente ‘oltre’, al di sopra (si pensi al «canto al di sopra della polvere» dei Canti lungo la fuga di Ingeborg Bachmann), si muove, si libra, sorvola, conservando tuttavia la piena consapevolezza del bilico perenne, della sospensione su un abisso che può essere fatale, o lo è già stato e dunque si spalanca nell’indaffarata noncuranza della maggior parte dei viventi.
Occorrenze e ricorrenze sono una prova vivida del collocarsi della poesia di Cristina Bove su una soglia tutta particolare. Più che fermarsi al vano di una porta, le immagini prendono per mano e conducono piuttosto sul parapetto di un balcone, sull’impavesata di un veliero, su scogli a picco o, ancora, sul limitare di un bosco insieme incantato e insidioso e, naturalmente, “attraverso lo specchio” di Alice in Lewis Carroll. Già soltanto con il termine “oltre”, ci imbattiamo - mentre la ricchissima tavolozza di Cristina Bove dispiega una formidabile gamma cromatica e ripesca dalla nostra memoria, anche senza menzionarlo, il blu oltremare -  in due composti, «oltresemantico» e «oltreluce». Si tratta di due termini che interpreto come programmatici: occorre aspirare a significato e a chiarezza che comprendano e insieme superino il piano sensoriale.
Altro termine ricorrente è «volo» – e torniamo al librarsi, all’essere sospesi, al sorvolare. Se il volo è da un lato legato a un episodio-svolta nell’esistenza  - «da quella notte del trentuno agosto», leggiamo in 1961 (epilogo d’estate e d’un suicidio) - , come ribadiscono i versi di Immaginaria lettera d’amore:  «: è lì che sei rimasta, passandoti attraverso/ indenne/  così ti vidi nella scia del volo/ cadere tra i gerani  e adesso il velo/ che ti sfigura e quasi ti cancella/ ha il senso che ti diedi _parve una foto in ombra_/ tuttavia/ raccolsi ogni tuo modo di morire/ non potevo sapere/ quanto ti avrebbe consentito il vivere», e gli endecasillabi perfetti di In itinere: «eppure un volo le testimoniava/ di un alfabeto senza le parole», dall’altro esso si manifesta sotto le sembianze di turbinare universale di «sirene pesci girifalchi in volo» nell’(auto)irridente La visione centripeta, in cui «è l’Es che r(ide) e si ridimensiona».
Cristina Bove sembra avvertire chi legge: non ti fermare al primo significato, non ti fermare all’apparenza, abbi il coraggio di scavalcare,< di fare un balzo o scivolare dall’altra parte, in altre parole, semplicemente, di oltrepassare. Questo fa sì che anche coloro che, come chi sta scrivendo,  hanno visto ‘nascere’ molti di questi testi e ne hanno seguito i primi passi, con sentimenti mescolati di empatia e di sorpresa, possano avvertire, a ogni rinnovato passaggio, l’invito ad addentrarsi maggiormente in questo mondo fatto di percezioni chiarissime, ma non liquidabili o esauribili con un atto di mera ragione o con una immediata sovrapposizione, a mo’ di carta copiativa, al dato biografico.
Librarsi a un livello superiore non significa affatto condannarsi ad essere tanto eterei quanto esili, tutt’altro. La poesia di Cristina Bove conosce e pratica la robusta critica alle piccinerie del momento così come alla perdurante ‘tentazione al vanesio’ in multiformi e vuote varietà e, con accenti e versi inequivocabili, al potere rimpinzante e narcotizzante, come avviene in Ipnagogica: « il potere ha lo sporco nelle unghie/ _un supermarket delle  ambiguità_/ distribuzione  di foraggiamenti / appalti e nomine, tanto a pagare sarai sempre tu/  tu prono, col tuo codice fiscale/  illuso d’esser libero/ ma incatenato e con la palla al piede».
Avere acquisito una visione dall’alto (e il prezzo è salato, sconti non ce ne sono, su questo non può sussistere alcun dubbio, leggiamo tra i versi e nei titoli sapidi e creativi; uno per tutti è Affetti collaterali) non è motivo di vano inorgoglirsi per Cristina Bove, ma, al contrario, pungolo di ricerca per un comune denominatore umano, nonostante tutto, o, forse, per una condivisa dimensione ‘oltreumana’, ma senza alcuna forzatura esoterica o vitalistica.  La condizione di «sospesi», infatti, si concorda in questa raccolta quasi sempre con a un «noi» che comprende, che non esclude. Per sé, Cristina Bove assume il compito di cercare un equilibrio nella sospensione, consapevole dell’azzardo e dell’instabilità incombenti: una simmetria del vuoto, appunto,  «_tra due trattini stesi_» (in .mettere un punto).
«E quelli che vivono male e in modo sbagliato il mistero (e sono moltissimi), lo perdono solo per sé e lo trasmettono come una lettera sigillata, senza saperlo», scriveva Rilke in una delle Lettere a un giovane poeta (questo passaggio, nella mia traduzione, è tratto dalla lettera spedita a Kappus il 16 luglio 1903, quando Rilke si trovava a Worpswede): Cristina Bove ha fatto tesoro di questa constatazione e lascia a chi legge la scelta di aprire o lasciare sigillata quella lettera.

Anna Maria Curci



domenica 15 dicembre 2019

Una donna di marmo nell'aiuola



Colma della sapienza di chi ha assaporato prospettive e dimensioni plurime in viaggi ampi, perfino estremi, ancorché senza usuali lasciapassare, mezzi di trasporto o documenti di transito, Una donna di marmo nell’aiuola, la raccolta più recente di Cristina Bove (con prefazione di Annamaria Ferramosca, Campanotto Editore 2019), predilige l’endecasillabo per dare vita a resoconti, a illuminazioni, a rilevazioni e a rivelazioni in un continuum sì armonioso, tuttavia non disgiunto dalla registrazione di note dissonanti.
Per chi legge e ascolta da anni la poesia di Cristina Bove questa raccolta è una conferma della originalità della sua voce poetica e, inoltre, un passo avanti dal punto di vista progettuale, del filo conduttore così come di tutto l’impianto. In un passaggio della quarta poesia del volume, Farsi parola e nome, si annida la chiave di accesso a Una donna di marmo nell’aiuola: se l’esistere con consapevolezza – progressiva, ma pur sempre consapevolezza – significa riconoscere la prossimità di punto di partenza e punto di approdo, in una dimensione straordinariamente ampia, ben oltre la sfera individuale, è importante, d’altro canto, individuare, analizzare, contemplare, perfino, le fasi ‘intermedie’ di quel costante perdersi, equivocare, illudersi ed errare che è il camminare su questa terra: «in fondo sono luce anche le pietre/ e noi gherigli dentro un mallo amaro/ che mettemmo tra noi per farci noi/ di vista incerta _ch’eravamo dio_/ per ritrovarci dopo esserci persi/ e questo è il gioco».
Illuminata anche dal richiamo a Little Gidding, il quarto dei Quattro quartetti di Eliot («e il termine d’ogni nostro ricercare / sarà arrivare lì dove iniziammo», nella mia traduzione), a chi percorre queste pagine di Cristina Bove si palesa una caratteristica fondamentale, vale a dire la presenza di un movimento che da altezze vertiginose (da un trauma, da una cesura irreversibile sono derivate, così come narrava l’autrice nel romanzo Una per mille, doti spiccate di discernimento), dalle quali è possibile intuire essenze e persistenze attraverso lo spazio e il tempo (a ragione Annamaria Ferramosca scrive del ritorno della “dimensione cosmica”), si avvicina, si fa sempre più dappresso all’obiettivo dell’attenzione, per evitare equivoci e banalizzazioni, oltre che per affondare con la maggiore precisione possibile la lama della parola nel tessuto molle delle auto-giustificazioni, delle scusanti e dei bassi interessi.
Non c’è pausa in questo moto incessante che va dall’estrema rarefazione del dire, dai voli mistici, perfino dai toni cromatici e musicali della spiritualità, fino alla fustigazione puntuale e amarissima di quelli che ebbi a definire “riti tribali affantoccianti”.
L’eterea presenza di luce – candida e celestiale tra chioma e pupilla – è anche la impeccabile, tra asettica e implacabile, ricercatrice delle umane falle, di ipocrisie e incoerenze: «Insieme d’incostanze: l’io depone/ l’uovo del suo sentirsi unico/ tra le infinite repliche/ nasce l’uomogirino e in una virgola/ a sua insaputa è già cambiato il mondo/ i tu/ i voi/ i noi/ i loro».
Di varia natura e ampiezza, così come le dimensioni toccate, sono le fonti alle quali si abbevera lo spirito, di cui si nutre una penna che, per ricorrere a una metafora che in questa raccolta fa apparizione, tutto fa tranne che semplicemente imbrattare e imbibirsi di inchiostro. A chi legge affido il compito di individuarle, oltre i confini delle belles lettres, oltre le distinzioni tra letture filosofiche, scientifiche e divulgative, tra musica e arti figurative.
Quello che resta, straniante e rivelatore insieme, è una cifra inconfondibile; quello che resta sono la tela, i colori, la tessitura della poesia di Cristina Bove.

venerdì 18 gennaio 2019

recensione di Luigi Paraboschi

La simmetria del vuoto
di Cristina Bove     – ed Arcipelago Itaca



Ho scelto come inizio di questo mio discorrere attorno all'ultima raccolta di Cristina Bove qualche verso che possiamo trovare  a pag. 14:

... starsene fermi/ su questo mondo che ci ruota attorno/perennemente in viaggio verso est/ e dirsi in versi/ forse nel tentativo di sottrarsi/ non solamente al male/ ma anche alla terribile bellezza/ che annichilisce e ammalia /

perché mi sembra che  il loro insieme ritrae abbastanza bene la posizione interiore di questa multiforme artista che spazia tra la poesia, il romanzo, la pittura e la scultura.

Dalla frequentazione di queste varie forme espressive l'idea che traspare dai versi  e cioè che “la terra è un campo coltivato a sassi“ sia lo spunto dal quale ha di certo preso  l'avvio  tutto il suo lavoro poetico, e forse non solamente quello.

E quali saranno gli ausili espressivi per sondare quel ”campo coltivato a sassi”, dei quali essa  si serve lungo il suo cammino artistico?

Alcuni li troviamo a pag. 15, nel finale della poesia:

... mi allontano _spossata_ /vestita solamente del mio dire/ ché preferisco tinte delicate/ se proprio devo esprimere un pensiero//.

Appare chiaro che la fuga da quella realtà frustrante che la circonda e  “annichilisce e ammalia“  la induce a rifiutare nella sua tavolozza linguistica  le tinte forti  perché come  sa chi conosce anche un minimo di pittura, è facile nascondere, o meglio coprire, i “pentimenti“ del pittore usando colori accesi, ma ho la sensazione che l'autrice non abbia avuto pentimenti scrivendo, anche se predilige le tinte delicate, perché il  suo dire è tutto celato dentro queste parole di pag. 24  “... ciò che nessuno vede per davvero/ è la prigione dove stagna il cuore“.

A volte sembra difficile accostarsi alla poesia come genere letterario a causa di una  presunta difficoltà interpretativa, ma i due versi riportati poco sopra sono la sfida per eccellenza per coloro che amano connettersi con il sentimento fondante di ogni autore, che nel caso della Bove, è “ la prigione dove stagna il cuore“.

E dove e da cosa è imprigionato il cuore della nostra autrice?

Si può identificare questa prigione con qualcosa accaduto lontano, molto lontano nel tempo, che deve avere imprigionato il suo animo allora e per sempre.

Scrive a pag. 20: ”... il trenta agosto di tanti anni fa/ sembra passato da un solo minuto“. E' evidente quanto questa data è stata fondamentale per lei, come un giorno di  “morte/e/resurrezione“, per usare due termini di carattere religioso, e rintracciamo a pag. 83 il chiarimento essenziale per divaricare un poco quelle sbarre che le imprigionano il cuore:

E  vivo al posto suo/ da quella notte del trentuno agosto/ che lei precipitò dalla ringhiera/ e poi si addormentò sul marciapiede/ io me ne andai/ lasciandola sul posto _e venni al mondo/ pagandomi l'accesso dal balcone“.

In quell'agosto del '61 sarebbe potuta scomparire una giovane di 18 anni, ma è sopravvissuta, risorgendo sotto nuove vesti che costrinsero allora, e lo fanno ancora, il prima ed il dopo della sua vita a convivere (più o meno felicemente) dentro un rapporto di coppia tutta femminile nel quale la ragazza di allora si è fatta progressivamente  donna adulta e madre, portando così avanti quella che a pag. 40 definisce: “... la sua condanna a vivere“, e si trovò, come scrive a pag. 12 - pagando il prezzo di essere viva -. “da sola/ a incorniciare riccioli di polvere“.

Ma se, come si legge a pag.16, “... esiliarsi non basta/ per ingannare il tempo e la ragione”, non possiamo non avvertire tutta l'amarezza che essa sa racchiudere dentro questi versi nel finale della stessa poesia: “// bisognerebbe eliminare intralci/ non solamente tralci/ quando si smette di produrre fiori“//.

La poetica di “la simmetria del vuoto“ però non  si  esaurisce nella semplice conoscenza del SÉ, non si autocelebra, è  ben radicata nel mondo in cui nasce e si esprime con stizza e durezza nei confronti di quel  Potere che vorrebbe lei e le altre donne come una sorta di
”Penelope stanca di (t)essere, come afferma il titolo molto originale della poesia a pag. 33 in cui leggiamo: “ vorrebbe abbandonare trama e ordito/ allontanarsi dall'intreccio/ perdere il filo del discorso _subbio e liccio_/ salvarsi dal ribattere del pettine/ le scie dei sottintesi/ e diventare quasi evanescente //.

L'indice è puntato verso coloro che la  spingono a domandarsi se “esserci o no“ // a volte quasi estranea/ nell'ascoltarsi dire e dubitare/ di avere detto ciò che andava detto/ _aumenta la distanza _/ tra chi recita un mantra e chi non sente/ chi la vorrebbe solo un io narrante/.

La conclusione della poesia è quella nella quale talvolta siamo anche noi  indotti a rifugiarci:

“Invece lei/vorrebbe accantonare la matassa/e starsene accucciata ad aspettare/ sotto la balconata dei ricordi _un filo d'oro / che termini la tela _

L'impegno verso gli aspetti più eclatanti della diseguaglianze sociali, lo sdegno per gli intrallazzi del Potere, il disgusto per lo sfruttamento della buona fede dei cittadini appaiono con tutta la loro evidenza in questa poesia di pag. 17 che trascrivo per intero, dal titolo: Ipnagogica

Ombre cinesi/ mobili appena al gesto delle mani/ sulle pareti nude/ intorno il circo degli imbonitori/_bisognosi d'aerei personali/ sennò come si è pari/ a presidenti, papi, imperatori?//
 
Il balbuziente dio delle borgate/ acclama l'afasia degli istrioni/ a un pupazzo e i suoi accoliti gli onori/ al gregge la pastura, ammaestrare/ la pecora che basta lavorare/ mangiare e defecare, guardare la tivù/ versare i contributi e le prebende/ schiattare sulla terra col sudore/ piegarsi ad ogni altare/ ché tanto poi l'accoglierà Gesù/ nel paradiso di chi muore qui/ per far la vita agiata al suo predone//
il potere ha lo sporco nelle unghie/ _un supermarket delle ambiguità_/ distribuzione di foraggiamenti/ appalti e nomine, tanto a pagare sarai sempre tu/ tu prono col tuo codice fiscale/ illuso d'esser libero/ ma incatenato e con la palla al piede//

Ma se è vero ciò che Bove scrive a pag. 38 in Luogo a recedere:

“... ogni paese ha mezzelune e croci profilate  nei cieli/ angusti varchi tra minareti e cupole: a quel dio/ dal bellicoso cuore, immagine degli uomini/ che hanno perduto il senno/ _e sono morti tutti gli ippogrifi_ non abbiamo più scampo/ in questi tempi di furore e sangue/ narcotizzati come siamo, talpe/ bulimiche all'ingrasso/ cincischieremo ancora con le pagine/ di network e affini/ c'illuderemo d’essere importanti/ accompagnando versi con le cetre/_intanto che/ le capitali degli imperi bruciano/ perché siamo incapaci/ di progettare mondi alternativi/ al n(m)ostro vivere //

Il linguaggio poetico della Bove è sottile, spesso arguto, ironico e vorrei chiudere citando alcuni dei versi più graffianti:
a pag. 18:... e capiremo che l'assuefazione/ ne uccide più di distruzioni in massa/
a pag. 36: il titolo della poesia è Verbicitante e già di per sé è un piccolo capolavoro d'ironia, e per la guarigione alla fine troviamo “il medico prescrive: un cucchiaio di silenzio/ lontano dai tasti“
e a pag. 4& appare alla fine questa zampata: “così m'avvio per luoghi più sicuri/ in fuga dalle sale predatorie/ perché sono malata seriamente/ d'insufficienza venale“.

E questo sguardo amaro, ma ironico è la chiave di salvezza che l'autrice consiglia  a noi lettori.

 8 gennaio 2019
lettura di Luigi Paraboschi

mercoledì 9 gennaio 2019

M.Carmen Lama su "Una donna di marmo nell'aiuola"


Un vero poeta si riconosce da molti dettagli, primo fra tutti dallo stile personale, originale, e senza dubbio anche dai temi indagati con le sue poesie. Salta subito all’occhio, alla prima lettura, anche la forma con i suoi ritmi e la musicalità. Ma queste caratteristiche sono, vorrei dire, intrinseche al poetare, così come la metrica, la rima o i versi liberi che, se pure non di secondaria importanza, assumono un valore aggiunto quando la poesia esprime pensieri profondi o rimanda ad esperienze per così dire ‘universali’, sommovendo emozioni e sentimenti genuini, o evocando atmosfere, risvegliando ricordi, nostalgie, suscitando speranze e ottimismo, anche.

Questo breve preambolo mi porta a considerare che nella nuova silloge di Cristina Bove, ‘Una donna di marmo nell’aiuola’, gli elementi sopra accennati si ritrovano tutti, e rendono la lettura delle poesie molto piacevole.
È anche vero che, se non si ha una certa familiarità con il suo modo di poetare, già dalla prima lettura occorre una attenzione particolare, verso per verso, e successivamente una ri-lettura che consenta di verificare la comprensione, o di assaporare, quantomeno, il distillato dell’essenza di ogni poesia. Questo perché Cristina spazia nei cieli immensi della sua anima e si rischia di perdersi se non ci si lascia condurre per mano.

In questa silloge, in particolare, l’autrice ci offre una sua lettura in controluce del reale, come attraverso una sorta di ‘diaframma’ del pensiero, che mostra mentre anche nasconde: sono riflessioni sulla vita, sull’amore, sul tempo, sulla psicologia dell’io.. ecc.. tutte tematiche molto complesse, che si lasciano solo parzialmente scandagliare e che quindi comportano una continua rivisitazione, poiché ogni volta si coglie appena un minimo aspetto, lasciandone in ombra un’infinità.

Volendo fare di questa mia breve nota qualcosa come una lettura a volo d’uccello, mi soffermerò soltanto su aspetti salienti, visibili -appunto- nell’insieme delle poesie, a cominciare da una strategia molto efficace utilizzata da Cristina in molte poesie di questa silloge, e cioè l’andatura contrappuntistica della versificazione, così che, mentre si ascolta una prima ‘melodia’ e se ne coglie il senso, è già a disposizione una successiva ‘voce poetica’ che in qualche modo incalza la prima, la ricorda, la riafferma, ma è diversa pur essendo simile, creando così un effetto di accordo-relazione tra le varie parti, pur indipendenti dal punto di vista della musicalità.

Oltre a questo godibile modo di procedere poetico, si possono agevolmente rilevare:

- delle contrapposizioni ‘diafane’ di negativo e positivo, sfumate dall'uno nell'altro, come rivela già il titolo della silloge: l’impietrirsi della donna (di marmo) ma sull’aiuola (sul morbido); altre contrapposizioni le troviamo tra vita/morte, calore/gelo, ombra/luce, ecc…

- l’utilizzo, a volte spiazzante, di metafore, molte delle quali tratte dal mondo marino, come se l’acqua fosse un valido supporto per l’effimero che è rappresentato dalla vita (infine arresa ai silenziosi flutti / mi spiaggerò su quella stessa riva / male che venga _come una risacca_ - v. ‘Male calmo’ - pag. 47)

- talvolta aforismi metaforici come questo, bellissimo: le pietre non carezzano le pietre / _è compito del sole farle vive_ -  v. ‘Esaurivento’ - pag. 67)

- la categoria della solitudine, insistita, in più d’una poesia, perché elemento costitutivo di ogni essere umano

- una lucida consapevolezza del tragico destino comune

- un rapporto controverso con il tempo, tra la sparizione dei minuti, l’effimero presente e una presunta eternità

- una sottesa amarezza, nei versi e, a volte, nei titoli stessi delle poesie; non disgiunta, tuttavia, da sottile ironia, semplice escamotage per resistere alle insidie del tempo, ma anche sguardo intelligente sull’accadere, in generale

- un ‘nutrimento’ culturale vastissimo, (come già evidenziato in precedenti mie recensioni di altre sillogi della Bove), che non smette mai di essere  metabolizzato in modi sempre nuovi

- e, certamente fondante della poetica boviana, il sentimento di comunione profonda con ogni aspetto dell’universo (condiviso con Walt Whitman, in Foglie d’erba).

E già, il mondo! Tutto quello che Cristina pone sotto la sua lente poetica di ingrandimento, è il mondo nella sua stanza: → ricordi visioni sogni parole illusioni immagini, tutto passato al vaglio attraverso quell’in_certo ‘diaframma’ del suo pensiero, anche mentre se ne sta a fare altro… (solo un esempio, Poi la nave bianca, pag. 79)

Ma ad andare ancora più in profondità nell’analizzare le poesie di Cristina Bove si rischia, di nuovo, non di non comprendere, ma di essere certi di aver compreso bene quel che voleva dire e nello stesso istante essere certi che voleva dire anche altro, perché la sua è la poetica del dire-non dire (come molto ben esplicitato ne’ L’oscuro lato della poesia, pag. 51).

Una sfida per il lettore, e forse anche una sfida per la stessa poetessa.

domenica 11 febbraio 2018

il mio Romanzo

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Autore: Cristina Bove
Editore: FusibiliaLibri
Collana: diorama (collana di prosa)
Anno 2016
pp. 176
formato 17×17
14,00 euro
ISBN 9788898649365
Prefazione di Franco Romanò
disponibile su fusibilia@gmail.com
spese di spedizione a carico di Fusibilia

giovedì 13 luglio 2017

lunedì 12 gennaio 2015

Cristina Annino recensisce "Una per mille"

Il doppio Volo



Uno sdoppiamento di personalità implica due verbi, due stati, due tipi di pensiero e via via crescendo, due persone. Qualunque cosa si raddoppi, metaforicamente, non può essere concepita ferma, crea un movimento di volume che prende il volo o casca, ma sempre da un punto basso o alto di vuoto.
Cristina Bove, dai suoi 18 anni in poi o forse da sempre, si è costantemente sentita nel vuoto e, per i motivi personali che sappiamo, è riuscita a fare di questo vuoto, un suo ambiente mobile. Da qui alla scrittura, il passo è immediato. Lei è un’artista e ha saputo rendere col suo romanzo, un concreto Dono tangibile, vissuto anche con canoni di normalità che allora assumono i segni di un paradosso in terra, altrimenti detto miracolo.
Non dobbiamo avere paura delle definizioni, come Bove non ha mai avuto paura della vita e della non vita. In lei non c’è mai stata paura, perché la sospensione reale in cui si trovava la poneva dentro e fuori, sopra e sotto qualsiasi stabilità morale cercata dai più e ritenuta indispensabile allo svolgimento di un’esistenza umana. Davvero non è detto – qui sta l’insegnamento che ci dà, il dito indicativo che segnala verbi, stati nominali alternativi. E noi dobbiamo non solo immaginarli, ma crederci.
Tutto il romanzo autobiografico è trascinato da quel volo, senza che Bove esprima giudizi su di sé, bensì ci sono tante riflessioni sul mondo, sui pensieri che formano un certo costume morale, sulla storia collettiva. È un romanzo soprattutto di pensiero direi, perché ci insegna come possa diventare pensiero positivo o educazione della mente, il non temere una convivenza nostra con l’indicibile altro che, ci piaccia o no, sempre ci abita e spesso ci determina.

Lei non ha mai temuto il viaggio verso la fine e il ritorno verso il principio, come fosse una speciale facoltà datale dalla natura. Si è alti, si è bassi, si è simili, si è anche talmente differenti! La natura che fa di noi corpi stabili, gioca dei cambiamenti a volte fortunatamente solo in chi può sopportarli. E lei ha sopportato tutto senza stupore, senza recriminazioni, accettando ciò che poteva depositare in terra (figli, matrimonio) nei momenti in cui il volo radeva la vita normale, poi alzandosi di nuovo in volo o precipitando. Non importa se per altra malattia, disastri, lei era su quella spira insondabile e non ha mai provato paura.
La paura, io credo, deriva dal pensare che fuori da una linea ferma o retta esista il male come differenza inconoscibile, ma la natura stavolta benigna con lei, le ha dato le coordinate di volo, l’intelletto per capire e adeguarsi. Le ha perciò tolto paura.

Romanzo estremamente originale che riproduce con fedeltà semplice e ricca, quella sua “diversità” rispetto alla vita degli uomini, quello scandirsi con naturalezza, l’accettarsi perché così è voluto chissà dove e lei è stata solo l’occasione fisica per concretare un pensiero forse divino, forse solo naturale, forse anche unico, ma comunque importante per farci riflettere sul fatto che non esistono differenze, qui nella terra e altrove, bensì situazioni di una tale complessità intelligente che vanno oltre quell’intelligenza appunto generica che è l’intelletto umano. Oppure l’ordinaria volontà di ammettere che ogni dilatazione di senso è sottrazione di canone, di ordine, e non di “sapere”.
Ne derivano allora due fatti, uno vitale, autobiografico, e uno letterario. Diversità di vita che porta a diversità di struttura narrativa, e che in questo romanzo è fattore emblematico. Ci sarebbe un'ulteriore disamina da fare che forse esula dalla precisa lettura del testo, il quale rende traghettabile la prima grazie alla propria maggiore chiarezza. Basterà allora dire come qui, nel libro di Cristina Bove, è evidente l’intreccio dei due motori, formale e di esistenza, verità e riproduzione stilistica, e quanto misero sia il giudizio di chi perde di vista la somma dei due.



Cristina Annino