L’equilibrio della
sospensione: _La simmetria del vuoto_
di Cristina Bove
C’è
un verbo che associo alla poesia di Cristina Bove e che si addice in modo
particolare a questa raccolta, _La
simmetria del vuoto_. È un verbo che appartiene alla lingua tedesca e, come
spesso accade per i passaggi da un idioma all’altro, racchiude molti
significati, che non possono essere resi con un solo verbo italiano. Il termine
tedesco è schweben, e vuol dire stare
sospesi, librarsi, così come, pure, oscillare, fluttuare. Ecco, la dimensione
nella quale si muovono e alla quale permettono di accedere i versi di Cristina
Bove è sicuramente ‘oltre’, al di sopra (si pensi al «canto al di sopra della
polvere» dei Canti lungo la fuga di
Ingeborg Bachmann), si muove, si libra, sorvola, conservando tuttavia la piena
consapevolezza del bilico perenne, della sospensione su un abisso che può essere
fatale, o lo è già stato e dunque si spalanca nell’indaffarata noncuranza della
maggior parte dei viventi.
Occorrenze
e ricorrenze sono una prova vivida del collocarsi della poesia di Cristina Bove
su una soglia tutta particolare. Più che fermarsi al vano di una porta, le
immagini prendono per mano e conducono piuttosto sul parapetto di un balcone,
sull’impavesata di un veliero, su scogli a picco o, ancora, sul limitare di un
bosco insieme incantato e insidioso e, naturalmente, “attraverso lo specchio”
di Alice in Lewis Carroll. Già soltanto con il termine “oltre”, ci imbattiamo -
mentre la ricchissima tavolozza di Cristina Bove dispiega una formidabile gamma
cromatica e ripesca dalla nostra memoria, anche senza menzionarlo, il blu
oltremare - in due composti, «oltresemantico»
e «oltreluce». Si tratta di due termini che interpreto come programmatici:
occorre aspirare a significato e a chiarezza che comprendano e insieme superino
il piano sensoriale.
Altro
termine ricorrente è «volo» – e torniamo al librarsi, all’essere sospesi, al
sorvolare. Se il volo è da un lato legato a un episodio-svolta nell’esistenza - «da quella notte del trentuno agosto»,
leggiamo in 1961 (epilogo d’estate e d’un
suicidio) - , come ribadiscono i versi di Immaginaria lettera d’amore: «: è lì che sei rimasta, passandoti
attraverso/ indenne/ così ti vidi nella
scia del volo/ cadere tra i gerani e
adesso il velo/ che ti sfigura e quasi ti cancella/ ha il senso che ti diedi
_parve una foto in ombra_/ tuttavia/ raccolsi ogni tuo modo di morire/ non
potevo sapere/ quanto ti avrebbe consentito il vivere», e gli endecasillabi
perfetti di In itinere: «eppure un
volo le testimoniava/ di un alfabeto senza le parole», dall’altro esso si
manifesta sotto le sembianze di turbinare universale di «sirene pesci
girifalchi in volo» nell’(auto)irridente La
visione centripeta, in cui «è l’Es che r(ide) e si ridimensiona».
Cristina
Bove sembra avvertire chi legge: non ti fermare al primo significato, non ti
fermare all’apparenza, abbi il coraggio di scavalcare,< di fare un balzo o
scivolare dall’altra parte, in altre parole, semplicemente, di oltrepassare. Questo
fa sì che anche coloro che, come chi sta scrivendo, hanno visto ‘nascere’ molti di questi testi e
ne hanno seguito i primi passi, con sentimenti mescolati di empatia e di
sorpresa, possano avvertire, a ogni rinnovato passaggio, l’invito ad
addentrarsi maggiormente in questo mondo fatto di percezioni chiarissime, ma
non liquidabili o esauribili con un atto di mera ragione o con una immediata sovrapposizione,
a mo’ di carta copiativa, al dato biografico.
Librarsi
a un livello superiore non significa affatto condannarsi ad essere tanto eterei
quanto esili, tutt’altro. La poesia di Cristina Bove conosce e pratica la
robusta critica alle piccinerie del momento così come alla perdurante
‘tentazione al vanesio’ in multiformi e vuote varietà e, con accenti e versi
inequivocabili, al potere rimpinzante e narcotizzante, come avviene in Ipnagogica: « il potere ha lo sporco
nelle unghie/ _un supermarket delle
ambiguità_/ distribuzione di
foraggiamenti / appalti e nomine, tanto a pagare sarai sempre tu/ tu prono, col tuo codice fiscale/ illuso d’esser libero/ ma incatenato e con la
palla al piede».
Avere
acquisito una visione dall’alto (e il prezzo è salato, sconti non ce ne sono,
su questo non può sussistere alcun dubbio, leggiamo tra i versi e nei titoli
sapidi e creativi; uno per tutti è Affetti
collaterali) non è motivo di vano inorgoglirsi per Cristina Bove, ma, al
contrario, pungolo di ricerca per un comune denominatore umano, nonostante
tutto, o, forse, per una condivisa dimensione ‘oltreumana’, ma senza alcuna
forzatura esoterica o vitalistica. La
condizione di «sospesi», infatti, si concorda in questa raccolta quasi sempre
con a un «noi» che comprende, che non esclude. Per sé, Cristina Bove assume il
compito di cercare un equilibrio nella sospensione, consapevole dell’azzardo e
dell’instabilità incombenti: una simmetria del vuoto, appunto, «_tra due trattini stesi_» (in .mettere un punto).
«E
quelli che vivono male e in modo sbagliato il mistero (e sono moltissimi), lo
perdono solo per sé e lo trasmettono come una lettera sigillata, senza saperlo»,
scriveva Rilke in una delle Lettere a un
giovane poeta (questo passaggio, nella mia traduzione, è tratto dalla
lettera spedita a Kappus il 16 luglio 1903, quando Rilke si trovava a
Worpswede): Cristina Bove ha fatto tesoro di questa constatazione e lascia a
chi legge la scelta di aprire o lasciare sigillata quella lettera.
Anna
Maria Curci
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