mercoledì 7 gennaio 2015

la recensione di Simona Lo Iacono

 

Scriviamo sempre contro la morte, lanciamo dardi infuocati contro la fine. Gli scrittori sono forse le creature che più di altre hanno consapevolezza di morire, fiutano l’intima fragilità delle cose, intuiscono che abbiamo un tempo, una scadenza.
Perciò afferrano disperatamente ogni frammento e lo trattengono con le parole. Per eternarlo, e per trovarsi, per rivelarsi.
Scrivendo, si può forse arginare l’impetuoso galoppo verso quella conclusione, ci si può arrendere al fatto di essere tanto compiuti già all’atto di nascere. Stelle che avranno poche ore per fare luce, a cui non resta altro che lasciare traccia, un ricordo.
Così fa Cristina Bove, ricapitola momento per momento, non fugge né il tempo né quel mistero che è vivere, un mistero irrisolvibile, che si può solo raccontare.
Ma raccontare con la prosa che non si rassegna mai a essere memoriale, con le parole che ardono di bellezza, con i ricordi che giocano a mostrasi crudeli e veri, spietati e umilissimi, giocosi e arrendevoli, una baldoria di città attraversate, corpi sani e malati, precipizi e resurrezioni.
Cristina Bove non si sottrae alla ricerca della verità, non tesse assoluzioni o condanne, non scrive per dare un senso, ma per darsi un senso.
Scrivendo, si vede incedere tra orde di fantasmi benevoli, sfiora l’indicibile, quel pozzo in cui è caduta e dal quale riemerge a forza di braccia, e a forza di versi, e a forza di sillabe che intrecciano una corda di salvezza, una mano pietosa che la solleva dal buio, che la salva.
E avviene.
Il dolore si trasforma. E così le perdite, i salti oltre balconi e parapetti, i voli straziati di quando non si sa ancora che cosa sia – davvero – stare dentro la vita.
Una scoperta.
Mentre giace riversa tra la vita e la morte, è la semplicità delle cose a rivelarsi. Viviamo perché siamo parte di un’esperienza d’amore. Viviamo perché di quell’amore siamo una costola e una goccia, una parte segreta all’interno della quale germoglia sia il dolore che l’universo. Una particula, insomma, una su mille, o forse una per mille. Tanti noi dentro noi stessi, ma pure fuori, in una fratellanza caritatevole e necessaria degli uni con gli altri e persino del nostro io con noi stessi.
Cantrice dell’armonia, Cristina Bove arriva ad essa varcando portali dolorosi, tagliando epoche, eventi, scelte. Scoprendo che accogliere il mistero è l’unico modo per goderne anche gli impensabili vantaggi: una gioia pura e disarmata, una consapevolezza che dal passato corre verso il futuro e poi di nuovo avanti e indietro.
Raccontandosi si è scomposta e frammentata, ma non per perdersi, per ritrovarsi in ogni sfaccettatura, per cogliersi in completezza e verità, per scrutare l’essere umano con coraggio, e anche con la certezza di compiere un atto sacro e inviolabile.
Con “Una per mille” Cristina Bove ci consegna un’opera di altissima ricerca spirituale, in cui è impossibile scandagliare il confine tra essere che scrive e parola scritta, tra umanità e arte.
– Cristina, le chiedo, questo è un libro nato come un atto di pura necessità. Raccontaci perchè hai deciso di scriverlo.
Non conosco esattamente il perché, so che a un tratto sono cominciati i ricordi ad affacciarsi e ho sentito l’urgenza di condividerli. Non tanto per tramandare, quanto per dichiarare: esisto per qualche motivo imperscrutabile, la mia vita si è svolta in questo modo, se lo asserisco mi faccio garante della vita, e del rispetto, che avverto imprescindibile dall’amore, per me stessa e per tutti gli esseri viventi.
– E la prosa che incede con la bellezza dei versi, musicale, composta con guizzi di rivelazione. Cos’è per te la poesia? E che rapporto ha con questo libro?
Credo che per me lo scrivere abbia sempre quel senso di rivelazione, iniziato con la poesia come una sorta di linguaggio estremo, suggerito e necessario a rivelare quanto di misterioso e ineffabile ci avvolge, e confluito nella prosa, che comunque non sento così diversa se non per l’addensarsi discorsivo e la continuità, malgrado le apparenze, del ricordo. Raccontare, che siano vicende inventate o realmente accadute, in fondo è come persuadersi, e persuadere, che nulla è andato perso, delle nostre vite, della nostra fantasia, del nostro cuore.
– Questo però è anche un libro di visioni, di presenze dell’oltremondo. Come quando racconti: “La figura era sempre lì, al suo fianco…. una bilancia apparve a mezz’aria, tra il letto e la parete di fronte. Uno dei piatti era appesantito da un mucchio di spine. Su quello contrapposto una mano cominciò a deporne altre. La libra era sorretta da un essere tanto risplendente che non riusciva a distinguerne le fattezze e dal cui centro, più o meno all’altezza del cuore, cominciarono a scaturire rose, di tutte le sfumature, di tutte le dimensioni, aperte, chiuse, boccioli. Si riversavano nel piatto vuoto formando un mucchio sempre più alto; tuttavia, benchè si stesse colmando, non accennava a scendere”. Vuoi spiegarci la forza di questa immagine di potenza quasi biblica?
Certo, posso farlo, anche perché il ricordo, a distanza di anni si presenta con la stessa vividezza di allora. Stavo in una sorta di sospensione, intorno a me tutto si presentava rarefatto, e benché avessi la percezione di chi mi stava intorno, ero contemporaneamente in una bolla ovattata in cui si evidenziò la figura di cui scrivo.
Sapevo di essere presente in più realtà, se così posso dire, ma le parole sono davvero insufficienti a descrivere quanto stavo provando.
Posso dire soltanto che la visione luminosa con tutto quello che significava, tra rose e comunicazione del pensiero, mi diede una sferzata di energia, che non apparteneva soltanto al corpo, bensì a un quid pulsante e vivo, in una pluridimensionalità che mi rassicurava, e che “riconoscevo”.
E ci fu ancora modo di scegliere, perché, in definitiva, i due mondi si compenetrano, e andare o stare è sempre lo stesso esistere.

Simona Lo Iacono

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