Una per mille
Raccontare la vita nelle sue manifestazioni più diverse: se questa
formula, da un lato, riassume ciò che pungola chi scrive e attrae chi
legge, essa non spiega, dall’altro, le ragioni dell’impronta forte e
durevole che determinate narrazioni sanno consegnare all’immaginario e
alla memoria. Dice il contenuto, l’oggetto della narrazione, ma non ne
dispiega il come. È il come si racconta, ovviamente, a fare la
differenza; qui non contano le ricette a buon mercato, le pillole di
saggezza anche recentemente dispensate via tubo catodico, le messe in
guardia dall’autobiografismo e le distillazioni varie – con l’erborista
ovvero dispensatore di grappa letteraria di turno in versione “Così
parlò…” – di sottili distinguo circa realismo, verosimiglianza, scelta e
trattazione della materia grezza narrativa. È la verità a fare la
differenza, quella che Albertine, nel finale di Doppio sogno di
Schnitzler, tiene ben distinta dalla semplice realtà, fosse anche la
realtà di un’intera vita umana: nel romanzo di Cristina Bove è la verità
a guidare sguardo e resoconto, rievocazioni e considerazioni.
Tornando, tuttavia, all’enunciato iniziale di questa nota, è necessario
qui innanzitutto porre al plurale l’oggetto della narrazione, perché
non di una vita si parla, ma di tante vite, delle linee successive o
parallele di chi narra, che si definisce, come recita esplicitamente il
titolo, Una per mille. È, inoltre, delle vite
altrui che si intesse, procedendo nella narrazione, la trama del
romanzo. Sono le esistenze altrui, che attraversano ovvero che rendono
sempre piena di sorprese, nutrendola perfino, come nel caso dei quattro
figli, la vita (le vite) dell’io narrante. Al plurale sono prese in
considerazione, ancora, le dimensioni dell’esistenza, con un’attenzione
rivolta all’altro da sé, all’altrove, a modalità ‘altre’ di accesso alla
conoscenza, alla dialettica tra istinto naturale e coscienza.
Il duetto tra le due voci più in vista, nell’esistenza così come nella
scrittura, dell’io narrante – lo sdoppiamento, si badi bene, è solo una
delle sue manifestazioni - accompagna, disegnandone l’articolazione, lo
scorrere di eventi narrati, pensieri e ricordi. Si intreccia con
considerazioni, sorridenti e ironiche, autoironiche, sul padroneggiare,
scrivendo, la materia narrativa.
I luoghi, Napoli, Roma, i colli Albani, Tunisia, Israele, Costarica,
serbano e riportano con la forza della verità tutte le vite che li hanno
attraversati.
Chi legge, si congeda dall’io narrante con riconoscenza, con un
arrivederci e, nell’attesa della prosecuzione del cammino, si volge,
tornando indietro, all’incipit del romanzo, bellezza e verità:
«L’uomo nero era il carbonaio del fondaco di via San Gregorio Armeno.
Viveva nella stalla con i cavalli alti e neri, sempre a masticare biada
con la testa nel sacco. Lui invece il sacco lo portava sulla testa a
fargli da cappuccio fino alla schiena.
Sua moglie, guercia e butterata, vendeva il ghiaccio in un grottino seminterrato.
Sua moglie, guercia e butterata, vendeva il ghiaccio in un grottino seminterrato.
La bambina aspettava che lo grattasse dal lingottone traslucido e ne
riempisse il bicchiere di carta, poi la spruzzata di cedro o granatina.
Meglio ancora solo ghiaccio, ché poi la nonna ci metteva le amarene
sciroppate.»
Anna Maria Curci
Una per mille
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