Il romanzo di
Cristina Bove inizia descrivendo L’uomo nero. L’uomo nero è anche il titolo del
primo capitolo-racconto. Ogni capitolo porta, almeno nell’indice, come titolo,
le prime parole del capitolo stesso. Un procedimento tipico della poesia.
Cristina Bove è poetessa e scultrice, manipola la materia dei pieni e dei
vuoti, e anche il linguaggio del romanzo modella luci e buio.
Presenze di carne e
anche fantasmi, simili a quelli della copertina, opera della stessa Bove. Questi
fantasmi… sono reali! Sono davvero il rapporto che la donna-che-scrive ha con
la propria capacità di godere e amare il proprio passato, il proprio passare
sotto i nostri occhi. L’uomo nero sembra rievocare anche la nostra infanzia, in
realtà è un carbonaio in carne e ossa: è spiazzante. E lo spiazzante ritorna
spesso, con delicato contrappunto all’apparente linearità dei ricordi. Ricordi,
sì, ma non c’è posto per la nostalgia melensa, per storie strappalacrime, anche
se non possiamo evitare di innamorarci di questo divenire-donna dall’infanzia a
ora, attraverso momenti davvero brutti ma sorvolati con la leggerezza di uno
spirito che disegna gorghi senza lasciarsene affogare. La storia di un’identità
dai primissimi anni fino all’adesso del romanzo che non chiude, che non può
terminare. C’è la realtà di una vita, il mistero che si nasconde, che stupisce,
gli ‘spiritelli’ e anche la percezione extrasensoriale del dolore e morte altrui,
che è la diretta conseguenza della capacità di contatto umano, della
consapevolezza degli altri, esperienze inspiegabili, ormai, in questo mondo
materiale e rotto al magico.
La vita descritta
come un’autobiografia sperimentale, per alternanza, come lo sono i ricordi. Che
appaiono dislocati, spostati, come in un’immensa città interiore in cui tutto è
velluto, carnale, identico e opposto. Vario. Leggero. Umano.
I luoghi sono tanti.
Le atmosfere cambiano. Transvolate continentali. Paesaggi desertici e guizzi
fluviali, solitudini urbane e divertimenti in resort accarezzati da mari
esotici, ma anche il freddo e narcisistico web, lo studio di una psicanalista e
la stanza di cloro e sofferenza di un ospedale.
Incalzante il ritmo,
dove non c’è solo il lettore che legge e una scrittrice che scrive. C’è anche
un fantasma, l’ennesimo, in carne e ossa, che legge nel pensiero della
scrittrice, che commenta, che segue e che a volte prende in giro la pretesa di
fermare i ricordi così come si sorride del bambino che vuole, ingenuo, riporre
tutto il mare nel secchiello. C’è sempre un dislocamento tra persone, insomma:
l’autrice che scrive e il fantasma-incarnato che scrive di lei-scrittrice. E
questo terzo attore, tra noi che leggiamo e lei che sta scrivendo, appare come
la pinna-poesia dorsale di un delfino sulla superficie increspata del mare-conoscenza.
Questa voce sottile non disturba, semmai ci fa pensare alla tenerezza di una Giulietta
degli spiriti e in fondo non manca un equilibrato romanticismo di colori e
sensazioni disparate, gioviale, e come un fresco bouquet alleggerisce la
tristezza della materia bruta, i sacrifici di una bambina, e le preoccupazioni
di una madre, che pur costituiscono parte essenziale del racconto. Tutto accade
per flussi e riflussi. Già, come risacche trasbordanti oggetti-stati simili a
registratori di eventi stratificati. Un fluttuante vibrare di blocchi
esistenziali che infilano un percorso meraviglioso. Nulla, però, trascende il
qui e ora, pur essendo remoto il passaggio che scalfisce il corpo e che ammala,
pur non riuscendo a sottrarlo alla costante lotta per la gioia di vivere. Ogni
buio, qui, non abbatte ma fortifica, non cerca e non trova rimedio in un divino
senso di provvidenza, ma in un salutare e potente senso di previdenza, preveggenza,
di bagaglio, di tesoro da lasciare ai posteri e ai presenti: è l’esperienza,
leggera e corroborante, della saggezza. Dell’essere antico, per parafrasare
Carmelo Bene. E il passato diventa estroflessione ragionata di ciò che accade
ora, nel futuro.
Questo racconto di
vita vissuta, non è, però, un’autoreferenza intimista o un taccuino freddo e
geometrico dell’esistenza che si voglia ergere, narcisistica, a dimostrazione
vanitosa dell’avercela fatta. È un gioco, e in certi momenti tenerissimo, in
altri divertente, che ci appassiona in continuazione, non ci sono stagni di
monotonia. Al massimo c’è la neutralità di una percezione fotografica, e niente
di meno. È un percorso anche all’interno della storia collettiva, dall’essere
bambini ai giorni nostri, e se di autobiografia si tratta, questo non lo sai
mai, perché il romanzo di una vita è un monumento vivo, è un setaccio, dove
friggono acque di guizzanti pesci, si dibattono percezioni di corpi, di altri
mille corpi, di altre dimensioni. Che cosa è, allora, un’autobiografia? Che
cos’è la Filosofia? si chiedevano un filosofo e uno psicanalista francesi
(Deleuze e Guattari). E noi, finito il romanzo, non possiamo che chiederci:
Allora? Che cos’è questa meraviglia? Che cos’è la vita? Forse sono le realtà,
in continuo crearsi e mutare, di questo suggestivo romanzo che davvero insegna
a vivere?
Gianluca Garrapa
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