venerdì 9 gennaio 2015

recensione di Gianluca Garrapa







Il romanzo di Cristina Bove inizia descrivendo L’uomo nero. L’uomo nero è anche il titolo del primo capitolo-racconto. Ogni capitolo porta, almeno nell’indice, come titolo, le prime parole del capitolo stesso. Un procedimento tipico della poesia. Cristina Bove è poetessa e scultrice, manipola la materia dei pieni e dei vuoti, e anche il linguaggio del romanzo modella luci e buio.
Presenze di carne e anche fantasmi, simili a quelli della copertina, opera della stessa Bove. Questi fantasmi… sono reali! Sono davvero il rapporto che la donna-che-scrive ha con la propria capacità di godere e amare il proprio passato, il proprio passare sotto i nostri occhi. L’uomo nero sembra rievocare anche la nostra infanzia, in realtà è un carbonaio in carne e ossa: è spiazzante. E lo spiazzante ritorna spesso, con delicato contrappunto all’apparente linearità dei ricordi. Ricordi, sì, ma non c’è posto per la nostalgia melensa, per storie strappalacrime, anche se non possiamo evitare di innamorarci di questo divenire-donna dall’infanzia a ora, attraverso momenti davvero brutti ma sorvolati con la leggerezza di uno spirito che disegna gorghi senza lasciarsene affogare. La storia di un’identità dai primissimi anni fino all’adesso del romanzo che non chiude, che non può terminare. C’è la realtà di una vita, il mistero che si nasconde, che stupisce, gli ‘spiritelli’ e anche la percezione extrasensoriale del dolore e morte altrui, che è la diretta conseguenza della capacità di contatto umano, della consapevolezza degli altri, esperienze inspiegabili, ormai, in questo mondo materiale e rotto al magico. 
La vita descritta come un’autobiografia sperimentale, per alternanza, come lo sono i ricordi. Che appaiono dislocati, spostati, come in un’immensa città interiore in cui tutto è velluto, carnale, identico e opposto. Vario. Leggero. Umano.
I luoghi sono tanti. Le atmosfere cambiano. Transvolate continentali. Paesaggi desertici e guizzi fluviali, solitudini urbane e divertimenti in resort accarezzati da mari esotici, ma anche il freddo e narcisistico web, lo studio di una psicanalista e la stanza di cloro e sofferenza di un ospedale.
Incalzante il ritmo, dove non c’è solo il lettore che legge e una scrittrice che scrive. C’è anche un fantasma, l’ennesimo, in carne e ossa, che legge nel pensiero della scrittrice, che commenta, che segue e che a volte prende in giro la pretesa di fermare i ricordi così come si sorride del bambino che vuole, ingenuo, riporre tutto il mare nel secchiello. C’è sempre un dislocamento tra persone, insomma: l’autrice che scrive e il fantasma-incarnato che scrive di lei-scrittrice. E questo terzo attore, tra noi che leggiamo e lei che sta scrivendo, appare come la pinna-poesia dorsale di un delfino sulla superficie increspata del mare-conoscenza. Questa voce sottile non disturba, semmai ci fa pensare alla tenerezza di una Giulietta degli spiriti e in fondo non manca un equilibrato romanticismo di colori e sensazioni disparate, gioviale, e come un fresco bouquet alleggerisce la tristezza della materia bruta, i sacrifici di una bambina, e le preoccupazioni di una madre, che pur costituiscono parte essenziale del racconto. Tutto accade per flussi e riflussi. Già, come risacche trasbordanti oggetti-stati simili a registratori di eventi stratificati. Un fluttuante vibrare di blocchi esistenziali che infilano un percorso meraviglioso. Nulla, però, trascende il qui e ora, pur essendo remoto il passaggio che scalfisce il corpo e che ammala, pur non riuscendo a sottrarlo alla costante lotta per la gioia di vivere. Ogni buio, qui, non abbatte ma fortifica, non cerca e non trova rimedio in un divino senso di provvidenza, ma in un salutare e potente senso di previdenza, preveggenza, di bagaglio, di tesoro da lasciare ai posteri e ai presenti: è l’esperienza, leggera e corroborante, della saggezza. Dell’essere antico, per parafrasare Carmelo Bene. E il passato diventa estroflessione ragionata di ciò che accade ora, nel futuro.

Questo racconto di vita vissuta, non è, però, un’autoreferenza intimista o un taccuino freddo e geometrico dell’esistenza che si voglia ergere, narcisistica, a dimostrazione vanitosa dell’avercela fatta. È un gioco, e in certi momenti tenerissimo, in altri divertente, che ci appassiona in continuazione, non ci sono stagni di monotonia. Al massimo c’è la neutralità di una percezione fotografica, e niente di meno. È un percorso anche all’interno della storia collettiva, dall’essere bambini ai giorni nostri, e se di autobiografia si tratta, questo non lo sai mai, perché il romanzo di una vita è un monumento vivo, è un setaccio, dove friggono acque di guizzanti pesci, si dibattono percezioni di corpi, di altri mille corpi, di altre dimensioni. Che cosa è, allora, un’autobiografia? Che cos’è la Filosofia? si chiedevano un filosofo e uno psicanalista francesi (Deleuze e Guattari). E noi, finito il romanzo, non possiamo che chiederci: Allora? Che cos’è questa meraviglia? Che cos’è la vita? Forse sono le realtà, in continuo crearsi e mutare, di questo suggestivo romanzo che davvero insegna a vivere?

Gianluca Garrapa

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