mercoledì 7 gennaio 2015

Ida Verrei

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"Una per mille"


Sintesi emblematica di un percorso di vita, storia di una donna, “Una per mille”, una e mille: ricordi d’infanzia; rievocazioni; reminiscenze; sogni e visioni rivestiti dell’apparenza psichica delle emozioni;  non un vero e proprio romanzo autobiografico, ma memoria, un divagare che procede per analogie, associazioni di immagini e di idee, una sorta di flusso di coscienza, che conserva, però, una sintassi razionalmente strutturata, pur se i procedimenti narrativi vengono risolti in modo del tutto personale e peculiare.
Cristina Bove, artista poliedrica, poetessa, pittrice, scultrice, fotografa,  riconduce in quest’opera in prosa  tutte le tecniche delle arti che frequenta. Ne risulta una singolare composizione, una scrittura colma di immagini e assonanze, che spiazzano ma coinvolgono il lettore dall’inizio alla fine.
“… Se ne stava seduta sulla seggiolina fatta apposta per lei da quel suo nonno falegname a cui mancava mezzo pollice… Sedeva accanto a lui che ascoltava musica classica, con la testa ripiegata e i pollici sotto le bretelle…” (pag.5)
“Nel dormitorio, in lettini di ferro ci si stava in due… A me toccò una coetanea, menomale… Avevo sempre freddo…”(pag.8)
Sta raccontando la sua vita, certo, e per non perdere il filo, segue una linea di percorso, alterna, perché così vanno i ricordi. E se uno comincia a riviversi mica si ferma e aspetta di rincontrarsi a tutte le età contemporaneamente. O forse sì…”  

È sempre Cristina Bove che parla, rivisita il passato e, voce narrante,  lo racconta in terza persona;  poi si reincarna nella bimba di un tempo e diviene l’io che rievoca. Ancora, torna all’oggi e commenta, spiega, quasi fosse altro da sé, testimone e non protagonista. Il “doppio” (che è poi il mille indicato dal titolo)  qui non rappresenta la dualità tra bene e male o tra possibile e impossibile,  quanto piuttosto un geniale espediente narrativo per colloquiare con il lettore, per immetterlo nel suo mondo, ricco di chiari e scuri, ma anche di colori accecanti o sfumati, di “ero, sono, sarò”.  Salti temporali, viaggi avanti e indietro tra presente, passato e futuro; un tempo misto;  una scrittura capace di cambiare pelle e adattarsi ad ogni stagione della vita, ad ogni stato d’animo, ad ogni transizione emotiva. Un monologo a più voci, attraverso il quale è possibile ricostruire da diversi punti di vista, di tempo e di luogo, una storia che è vita. Un romanzo che trova il valore unitario nell’alone di sospensione e di attesa che sovrasta l’atmosfera e che, dilatandosi oltre i confini di un’unica vita, assurge a vicenda universale.  Ampi spazi di considerazioni e riflessioni filosofiche, apparentemente divaganti, si intrecciano al filo onirico che si ritrova in tutta la tessitura romanzesca; una visionarietà profonda che si dipana attraverso le memorie che si sovrappongono alle vicende, in qualche modo condizionandole, un raccontare che è rivivere, un’analisi del passato senza censure, una vita messa a nudo con delicato pudore
E così attraversiamo un’intera esistenza, una crescita fisica, intellettuale, spirituale. Vita intrecciata ad altre vite, recupero del passato attraverso la memoria involontaria, riscoperta di angoli dell’anima dove si annida la sofferenza, quella che si rimuove ma con la quale poi dobbiamo fare i conti tutta la vita:
“Da una certa rinascita si ritorna nudi, soli… Poi bisogna tener conto dei distacchi… il primo degli addii fu per il padre… sparì, come Babbo Natale sotto un cappotto di cammello. Prima ancora, non propriamente un addio, ma un abbandono sì, fu il giorno in cui si chiusero alle sue spalle di bambina i battenti del portone del collegio…”
Ma anche momenti tenerissimi di gioie familiari, di esaltazione struggente:
 “Quando glielo misero tra le braccia, fu travolta dal profumo di neonato… Le accadeva la vita, ed era un mistero così grande da farla piangere… 
E poi ancora l’angoscia, gli incubi che ritornano. Quel “salto dal quarto piano come in trance”, quella memoria che diviene “interludio” di tutta una vita, quel “volo sospeso… rimandato sempre…” Un presagio di morte, o forse un desiderio, che sembra aleggiare in tutta la narrazione. Ma con una sorta di levità, con autoironia, cosicché, anche nel ricordo di eventi che per molti sarebbero devastanti, Cristina  trova forza e coraggio, fiducia nel presente e nel futuro:
Potrebbe sembrare eccessivo considerare decenni di vita una proroga, eppure è proprio così che li ha vissuti, sentendosi in un certo senso privilegiata…  “Domani” era una speranza da custodire…” 
  E il suo libro diviene un inno alla vita, testimonianza d’amore, di generosità, di pienezza intellettuale e spirituale.
Leggerlo, vuol dire arricchirsi.

 “rifuggo gli aggettivi: brutta o bella  
non aggiungono niente alla mia essenza
né tolgono un momento al mio passato…  
…E vivo della mia e d’ogni altra bellezza”  (da:  "Comunque" di C.Bove)


I.V.

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