giovedì 18 settembre 2014
sabato 14 giugno 2014
Metà del silenzio - lettura di Narda Fattori
Normalmente
si definisce il silenzio come un vuoto dentro il quale naufragano gesti e
parole; il titolo di questa silloge avrebbe ben poco senso se così fosse; il
silenzio, al contrario, è un pieno che non sa dirsi, è la vita che si vieta di
narrarsi, è il pensiero che si riflette e non sa trovare formule per
esplicitarsi.
Affrontare il
silenzio è affrontare se stessi, interamente e integralmente. E’ un’impresa
complessa, forse impossibile.
Affrontarne
la metà è indice di coraggio, è necessità di estirpare i carcinomi che
senz’aria, reclusi, proliferano e diventano pericolosi.
In questa
metà del silenzio di Cristina forse non c’è metà dei suoi vissuti, ma
riconosciamo le sue fatiche, le sue amarezze, le sue ritrosie, gli ardimenti, i
suoi pensieri appesi e lucenti come led ai frattali dell’universo. Gli
ardimentosi accostamenti di parole e immagini denunciano una cultura che
abbraccia più branche del sapere intrise nella sua e nella nostra vita, spesso
mascherate, a volte quasi in mostra.
Queste sono
anche le caratteristiche della poesia di Cristina, non semplice, ma qua è là
quasi disincantata e disincarnata. C’è molta umanità di sentire e di soffrire,
ci sono squarci ironici e giocosi, c’è soprattutto una messa a fuoco precisa,
imperdonata. “Sotto la chioma bruna/ che parla in strato sferico/ riferimenti
in sovra-numero / --- “ la poesia termina con un inatteso “e sì che vorrei
essere un abbraccio” Quest’ultimo verso dice molto della filosofia e degli
atteggiamenti culturali e comportamentali di Cristina, ferita, delusa, non più
in attesa, ma lei accogliente, rassicurante, protettiva. Ma “nei giardini delle
esperidi/ i pomi restano appesi ai rami” La poetessa fruga nelle sue
esperienze e in quelle altrui alla ricerca di un qualsiasi bene; non mancano ma
sono racchiusi in impenetrabili gusci o si sono rarefatti lungo il cammino ormai cetre spente.
Così ogni
tentativo di volo oltre e sopra il dolore è destinato a fallire, la parola no,
essa resta, consolazione degli afflitti, surrogato degli affetti, bastone che
sorregge l’andatura zoppicante e scansa il tranello lungo il percorso. Molto
spesso il percorso si tuffa in mare e qui mutano le forme di vita non l’esito,
sempre capriccioso e indocile.
Nella
sovrabbondanza di parole che affluiscono nella stessa poesia da diversi campi
semantici qualcuno potrebbe inferire una ricerca razionale raffinata, poi si
scopre che certe visioni tornano, che alcune parole sono tracce e indizi,
esistono per la loro capacità di dire in quel modo e solo in quello. La poesia
di C.Bove ha un’altra caratteristica: pare non rivolgersi a nessuno: non a un
io, né a un tu, neppure ad un noi o voi, tutto coesiste e tutti sono chiamati
allo specchio della loro coscienza; soltanto quando parla di donne il grumo del
suo dettato si scioglie e la poesia si apre come un fiore dai molti petali (
non so se rosa o girasole) ma da quell’apertura penetrano solo amarezze,
illusioni. Ci sono poesie sulle crudeltà contro i bambini e allora il
linguaggio si liquefa in pianto; né mancano i j’accuse contro i potenti sempre
prepotenti, sempre pronti a calpestare la dignità dei poveri .
Tecnicamente
la poesia di Cristina è priva di retorica; qua e là gioca con i doppi sensi,
con le assonanze; tuttavia queste poesie possiedono una musicalità propria di
chi ha il ritmo e le cadenze dentro, come un musico.
Narda Fattori
mercoledì 12 marzo 2014
Annamaria Tanzella
riflessioni di lettura
http://annamaria-liberipensieri.blogspot.it/2014/03/riflessioni-di-lettura.html
lunedì 3 marzo 2014
Gloria Gaetano
commenta "Una per mille"
Un romanzo solo apparentemente autobiografico, anche se c’è la vita
dell’autrice adombrata, sinceramente espressa, con levitas, e senza
alcuna concessione al sentimentalismo melenso.
Storia di una formazione, di una crescita, che è poi, in fondo, sempre una metamorfosi, che avvolge tutti coloro che vengono in relazione con l’autrice. Una scrittura limpida, semplice, che scorre dall’incipit all’epilogo. Lo stile ha una sua cifra personale, lieve, intensa, ma anche un po’ distaccata dall’eccessività di certe emozioni. Tutto è calbrato, compatto, suggestivo, fluido. Per fortuna c’è ancora da leggere qualche opera narrativa che ti prende, cattura, ma ti lascia tanta serenità e ti spinge ad accettare la vita, così come ti è successa, donandoti un senso profondo dell’essere e del trasformarsi. E della relazione con gli altri, su cui ti fa riflettere...
Storia di una formazione, di una crescita, che è poi, in fondo, sempre una metamorfosi, che avvolge tutti coloro che vengono in relazione con l’autrice. Una scrittura limpida, semplice, che scorre dall’incipit all’epilogo. Lo stile ha una sua cifra personale, lieve, intensa, ma anche un po’ distaccata dall’eccessività di certe emozioni. Tutto è calbrato, compatto, suggestivo, fluido. Per fortuna c’è ancora da leggere qualche opera narrativa che ti prende, cattura, ma ti lascia tanta serenità e ti spinge ad accettare la vita, così come ti è successa, donandoti un senso profondo dell’essere e del trasformarsi. E della relazione con gli altri, su cui ti fa riflettere...
mercoledì 22 gennaio 2014
a Radio Alma Brussellando
tutto all'insegna dell'improvvisazione, e quindi momenti di indecisione dovuti all'emotività.
dal punto 16,10 potrete ascoltare l'intervista riguardante il mio libro.
Brussellando del 21 gennaio » Brussellando su Radio Alma: l'unica radio italiana a Bruxelles
Brussellando del 21 gennaio » Brussellando su Radio Alma: l'unica radio italiana a Bruxelles

martedì 21 gennaio 2014
Guido Mura
Una per mille
di Cristina Bove
Edizioni Smasher
http://www.edizionismasher.it/cristinabove2.html
Narrativa
ISBN 978-88-6300-098-6
Prezzo € 12,00
Libro molto particolare, questo di Cristina Bove, in cui la complessità del pensiero non diventa mai ostentazione sussiegosa (il che per chi scrive versi è una caratteristica rara). Ne è spia l’adozione di un linguaggio che, senza rinunciare all’uso di termini colti e di riferimenti culturali, si colloca spesso in una dimensione spontanea e popolare, con un atteggiamento colloquiale che ricerca volutamente il contatto con il lettore.
Il romanzo, se così lo vogliamo chiamare, riflette molto bene la personalità di Cristina, come emerge dalla sua ormai vasta produzione poetica. Capace di improvvisi guizzi di genialità, decisamente originale, ma anche fondamentalmente anarchica, almeno in apparenza. Personalmente apprezzo molto questo coraggio della diversità, questo voler essere spontanea fino allo spasimo, questo voler esprimere se stessi senza preoccuparsi troppo del giudizio dei critici più tradizionalisti.
Così certo, non si può richiedere alla prosa di Cristina assoluta uniformità e coerenza strutturale. Bisogna accettare le sue improvvise tirate, non raccontate dalla bocca di un personaggio, ma spesso introdotte da un intervento quasi saggistico del narratore.
Ma, a una lettura più attenta, non sfugge che il caos contenutistico e temporale è, nella realtà, un caos strutturato e che osserva le sue leggi. La molteplicità, che già si intravede dal titolo, si manifesta invece come una sorta di dualità, tra un io esterno, che percepisce e descrive, e un io oggettivo e calato nel tempo e nello spazio, che si lascia percepire e raccontare. Come potrebbe il narratore esterno, che si colloca in un eterno presente, seguire un ordine temporale preciso e ricomporre i frammenti di vita e di pensiero in una struttura saggistica o diegetica troppo condizionata dal nostro sentimento dell’ordine e della simmetria?
E allora dico a me stesso che per affrontare libri come questi bisogna avere il coraggio di abbandonare i preconcetti del critico o dell’editor nei confronti del romanzo, che viene ancora considerato come una struttura immutabile e sacra, un po’ come la forma-sonata nella composizione musicale ottocentesca. Il romanzo qui è insieme narrazione, autobiografia, ma anche pamphlet, saggio, cronaca, denuncia: è un’insieme ricco, anche troppo, e rimane una valida testimonianza di una vita e di una società. Ma non è quello che in fondo chiediamo da sempre alla buona letteratura?
di Cristina Bove
Edizioni Smasher
http://www.edizionismasher.it/cristinabove2.html
Narrativa
ISBN 978-88-6300-098-6
Prezzo € 12,00
Libro molto particolare, questo di Cristina Bove, in cui la complessità del pensiero non diventa mai ostentazione sussiegosa (il che per chi scrive versi è una caratteristica rara). Ne è spia l’adozione di un linguaggio che, senza rinunciare all’uso di termini colti e di riferimenti culturali, si colloca spesso in una dimensione spontanea e popolare, con un atteggiamento colloquiale che ricerca volutamente il contatto con il lettore.
Il romanzo, se così lo vogliamo chiamare, riflette molto bene la personalità di Cristina, come emerge dalla sua ormai vasta produzione poetica. Capace di improvvisi guizzi di genialità, decisamente originale, ma anche fondamentalmente anarchica, almeno in apparenza. Personalmente apprezzo molto questo coraggio della diversità, questo voler essere spontanea fino allo spasimo, questo voler esprimere se stessi senza preoccuparsi troppo del giudizio dei critici più tradizionalisti.
Così certo, non si può richiedere alla prosa di Cristina assoluta uniformità e coerenza strutturale. Bisogna accettare le sue improvvise tirate, non raccontate dalla bocca di un personaggio, ma spesso introdotte da un intervento quasi saggistico del narratore.
Ma, a una lettura più attenta, non sfugge che il caos contenutistico e temporale è, nella realtà, un caos strutturato e che osserva le sue leggi. La molteplicità, che già si intravede dal titolo, si manifesta invece come una sorta di dualità, tra un io esterno, che percepisce e descrive, e un io oggettivo e calato nel tempo e nello spazio, che si lascia percepire e raccontare. Come potrebbe il narratore esterno, che si colloca in un eterno presente, seguire un ordine temporale preciso e ricomporre i frammenti di vita e di pensiero in una struttura saggistica o diegetica troppo condizionata dal nostro sentimento dell’ordine e della simmetria?
E allora dico a me stesso che per affrontare libri come questi bisogna avere il coraggio di abbandonare i preconcetti del critico o dell’editor nei confronti del romanzo, che viene ancora considerato come una struttura immutabile e sacra, un po’ come la forma-sonata nella composizione musicale ottocentesca. Il romanzo qui è insieme narrazione, autobiografia, ma anche pamphlet, saggio, cronaca, denuncia: è un’insieme ricco, anche troppo, e rimane una valida testimonianza di una vita e di una società. Ma non è quello che in fondo chiediamo da sempre alla buona letteratura?
Morena Fanti
Una per mille
Cristina Bove
Cristina Bove
Edizioni Smasher
Narrativa
Narrativa
ISBN 978-88-6300-098-6
1a edizione ottobre 2013
1a edizione ottobre 2013
Leggere questo libro di Cristina Bove fa capire come l’autrice non possa mai lasciare la sua anima di poetessa raffinata che sa di endecasillabi e di parole scelte con cura.
Nel libro ruotano vari stati d’animo e dialoghi interni tra l’autrice e un suo alter ego dall’anima in opposizione.
Si intuisce la difficoltà di questa scrittura, che rivela molte cose che Cristina ha tenuto dentro se stessa per tanti anni e che premevano per uscire e rivelarsi al mondo. Il racconto si snoda attraverso tutta la sua vita, in un percorso assimilabile a una mostra d’arte, in cui i vari capitoli si dipingono sotto i nostri occhi come quadri dai colori ora vividi, ora pastello, infuocati con rossi accesi e blu che si mischiano nel racconto dei viaggi, delle case abitate, delle visite ricevute, e anche delle delusioni, delle tristezze accumulate, in una melanconia di fondo che permea tutto il racconto. I colori sono simili ad acquerelli in cui l’acqua si stempera ma non diluisce la forza.
Il linguaggio di Cristina Bove in questo libro è all’apparenza semplice, di fluida lettura, pur mantenendo la scelta di alcuni termini colti e una scansione dei tempi perfetta, da chi è abituata a scegliere con cura le sillabe con cui ricamare i propri pensieri. Nel raccontarci la sua vita – perché di questo si tratta: di una vita che ha visto tante cose e che ha formato tante persone – l’autrice si mostra senza veli al lettore, attraversando decenni di ansie e angosce che l’hanno spesso fiaccata nel corpo ma mai nello spirito.
È in quel titolo variamente interpretabile che vedo la molteplicità dell’anima di una donna e un’artista che ha saputo cogliere gli insegnamenti della vita, trasformandoli in Arte. Una donna che non si tira indietro quando deve parlare, che non teme di mostrarsi e che si indigna con passione, la stessa passione che la spinge alla scrittura, alla pittura, alle fotografie in cui ritaglia spicchi di realtà, proprio come ha saputo fare in questo libro collage della sua anima.
“Se non avessi avuto il senso di provvisorietà del mio vivere, non avrei mai avuto il coraggio di espormi come ho fatto. È quando si sta per attraversare un confine, “quel” confine, che si può decidere di proseguire al buio, con il solo bagaglio della propria mente, alla giornata. [...] Vivo, immemore di avere un corpo a orologeria. Sono temeraria, affronto passioni ancora come un’adolescente, ma non proietto nulla oltre il mio giorno.”
“Dalla finestra di cucina osserva il tempo farsi nuovamente aprile. l’orto è vestito verde a fiori bianchi.
Mentre si diffonde l’aroma del caffè, toglie le poche briciole dal tavolo.
Bevendo il caffellatte sul balcone, elimina le foglie secche dei gerani. La parete della casa contigua invia riflessi gialli sulla guazza del selciato.
Sarà per cogliere siffatte piccole cose che si vive ancora?”
lunedì 23 dicembre 2013
Domenica Luise
legge
Una per mille, di Cristina Bove
Sono i pensieri di una madre poetessa. Questo balzare dal passato al presente e viceversa rende tutto vivo e unifica l’avventura in un “oggi” dove l’età e il tempo storico sono semplici effetti collaterali dell’esistenza. Così giovinezza, maturità e vecchiezza sono un solo io-noi che fummo, siamo e saremo fra gli altri come noi a spasso nel mistero.
E il mistero è simultaneamente interiore ed esteriore.
Il passato diventa presente e contiene già il futuro dentro di sé: è il miracolo della poesia dal particolare umano all’universale e viceversa in un solo punto come l’universo prima del big bang che ha diversificato quel punto iniziale senza cancellarlo mai. I dilemmi propri ed altrui, le radici della vita e del pensiero, la prosa poetica, è ovvio senza le acutezze ermetiche e le relative concentrazioni a sprazzi, la delicatezza e la forza di una donna immersa nel quotidiano: dentro questo romanzo c’è Cristina, goccia del mare e di tempo.
Nulla di costruito: tutto vero. Non ciò che sembra, ma ciò che è. Fenomeno raro della scrittura odierna e, per me, punto di arrivo. Come insegnante di lettere, consiglio di studiarlo nelle università, a lettere moderne.
Domenica Luise
domenica 24 novembre 2013
Recensione di Renzo Montagnoli
Una per mille
di Cristina Bove
Edizioni Smasher
Narrativa
ISBN 978-88-6300-098-6
Prezzo € 12,00
Una vita movimentata
Per chi è abituato a
scrivere poesie il passaggio alla narrativa rappresenta sempre un valico arduo
da un campo in cui si è acquisita esperienza a un altro che è tutto nuovo e
sconosciuto. Potete ben capire che un conto è metter giù dei versi che
fotografano un’emozione, un sentimento, mentre altra cosa è svolgere un tema in
più pagine, anzi in molte pagine. Credo che Cristina Bove, pertanto, abbia
fatto una scelta giusta, non scrivendo un romanzo, ma quella che può essere
definita un’autobiografia fra il passato e l’oggi, quest’ultimo destinato per
lo più a riflessioni di carattere generale. Il continuo ripescare fatti ed
episodi della propria esistenza, come il ritornare all’oggi, se all’inizio
disorienta un po’, alla fine si apprezza perché in questo modo si evitano
quelle esposizioni cronologicamente successive che tendono inevitabilmente a
tediare il lettore. Direi che l’autrice ha un po’ ripercorso il metodo
utilizzato da Stendhal per il suo Vita di Henry Brulard, che, guarda caso, è
un’altra autobiografia.
Certo, a leggere queste
pagine, mi accorgo che la mia vita è stata tutto sommato lineare, e non certo
discontinua, quasi avventurosa come quella di Cristina Bove, che volentieri si
confessa, raccontando certi fatti che altri magari preferirebbero tacere, ma
che a ragion veduta sono stati determinanti nell’iter vitale, come un certo
volo da un quarto piano, risoltosi miracolosamente con serie fratture, poi
sanate; non sanato invece è stato il motivo di questa caduta, fatta passare dai
familiari come un’imprudenza. Va bene, era giovane e da giovani si commettono
sciocchezze, però episodio dopo episodio mi sembra di riscontrare un problema
di fondo, causato dall’assenza della
figura paterna (il padre c’era, ma se n’andò di casa, quando lei era ancora piccola).
Che volete mai, ognuno ha le sue teorie, ma credo che quell’abbandono abbia
segnato per sempre, nel bene e nel male, la vita dell’autrice. E poi il
collegio con le camerate fredde, l’impossibilità di
realizzarsi scolasticamente sono tutte cose che lasciano inevitabili
strascichi; da, qui, forse un remoto rigurgito di insoddisfazione che né un
matrimonio, né la nascita dei figli sono riusciti a sanare. Solo l’arte, la passione di leggere, di
scrivere, di dipingere, insomma di concretizzare in forme plastiche o comunque
accessibili quella inconscia rabbia che si porta dentro, hanno potuto generare
un’oasi di appagamento, tanto che mi viene da dire che senza la scrittura non
avremmo Cristina Bove, cioè senza di essa si sarebbe lasciata andare e
che lo scrivere sia per lei come il respirare, una condizione unica e
indispensabile per continuare a vivere.
Personalità indubbiamente
complessa, che si riflette anche nella sua produzione poetica, eventi ed
accadimenti (in cui si spera ci sia almeno un pizzico di fantasia), ci vengono
sciorinati quasi come fossero normali, e invece, per lo più, non lo sono.
C’è in tutto questo, come
nella vita di ognuno di noi, un disegno sconosciuto, e il raccontarci finisce
con il diventare la ricerca di questo programma. Non credo che Cristina Bove
sia riuscita a scoprire l’arcano, ma in cambio, per farlo, ci delizia con
questa sua autobiografia dal linguaggio semplice, ma immediato, uno specchio in
cui si riflettono dieci, cento, mille Cristina, sempre la stessa e pur così
diversa, a seconda dell’angolo di osservazione.
Ma in fondo chi, pur
credendosi unico, a guardare dentro di sé non trova tante e tali sfaccettature
che prima non avrebbe immaginato?
Ecco, fra penne e pennini,
fra carta e inchiostro, rivoltato il suo passato, Cristina Bove, senza
ipotecare un avvenire, lascia un segno nel presente, ripercorrendo il suo
passato.
Da leggere, mi sembra più
che chiaro.
Renzo Montagnoli
Cristina
Bove è nata a Napoli il 16 settembre 1942, vive a Roma dal ‘63. Ha
cominciato da piccolissima a disegnare, a nutrire la passione per la lettura.
In seguito si è dedicata alla pittura, alla scultura, di quattro raccolte già
pubblicate. e alla scrittura. Negli ultimi tempi si esprime soprattutto
in poesia, molti suoi testi formano le sillogi pubblicate.
Scampata più volte alla morte, ha grande comprensione per chi soffre, nel fisico e nella psiche. Crede nella libertà e nella giustizia, pensa che il rispetto della diversità sia un valore fondante tra gli esseri umani e ne sia inestimabile ricchezza. È alla costante ricerca del significato di questo infinito mistero in cui si sente immersa e partecipe.
Ama la vita, i suoi cari, e tutti gli esseri umani dal cuore buono e dalla mente aperta. Considera la poesia un linguaggio universale, l’esperanto dell’anima.
Scrivere è per lei una sorta di rispetto per la propria e altrui memoria, un fissare con la parola il pensiero affinché non si disperda, e renda sacralità alla vita.
Scampata più volte alla morte, ha grande comprensione per chi soffre, nel fisico e nella psiche. Crede nella libertà e nella giustizia, pensa che il rispetto della diversità sia un valore fondante tra gli esseri umani e ne sia inestimabile ricchezza. È alla costante ricerca del significato di questo infinito mistero in cui si sente immersa e partecipe.
Ama la vita, i suoi cari, e tutti gli esseri umani dal cuore buono e dalla mente aperta. Considera la poesia un linguaggio universale, l’esperanto dell’anima.
Scrivere è per lei una sorta di rispetto per la propria e altrui memoria, un fissare con la parola il pensiero affinché non si disperda, e renda sacralità alla vita.
Ha pubblicato tre raccolte di poesie per la casa
editrice Il Foglio Letterario: Fiori e fulmini (2007), Il respiro
della luna (2008), Attraversamenti verticali (2009). È presente in diverse
antologie: Antologia di Poetarum Silva (a cura di Enzo
Campi), Auroralia (a cura di GajaCenciarelli), La ricognizione
del dolore (a cura di Pietro Pancamo), Antologia del Giardino dei poeti (a
cura sua e di altri poeti), Mi hanno detto di Ofelia (2012)
per le Edizioni Smasher.
E in alcuni siti, tra cui:
La dimora del tempo sospesa, Neobar, Filosofi per
caso.
Il suo blog su wordpress http://ancorapoesia.wordpress.com/
Conduce il blog http://giardinodeipoeti.splinder.com/
È nella redazione di http://viadellebelledonne.wordpress.com/
Il suo blog su wordpress http://ancorapoesia.wordpress.com/
Conduce il blog http://giardinodeipoeti.splinder.com/
È nella redazione di http://viadellebelledonne.wordpress.com/
sabato 23 novembre 2013
Maria Carmen Lama
Cristina Bove - Una per mille - Edizioni Fusibilia 2016
«Un
romanzo autobiografico scritto sul filo dei ricordi»
Anche nel campo letterario c’è
movimento, aspirazione a cambiamenti, in sintonia con il tempo tecnologico in
cui viviamo, nel quale ci siamo e non ci siamo, dentro al quale non riusciamo a
percepire la nostra stessa consistenza, non riuscendo a tenere i piedi per
terra una volta per tutte.
E quando ci sembra di avere
raggiunto una meta, che si tratti di apprendimento di nuove conoscenze o si
tratti di nuove relazioni amicali, ecco intervenire delle novità inaspettate
dalle quali si è inconsapevolmente proiettati in nuove dimensioni o ricacciati
in habitat sconosciuti, sebbene quasi tradizionali.
Ebbene, sensazioni simili
possono essere sperimentate anche leggendo nuovi romanzi.
Quello di Cristina Bove che mi
accingo a recensire ne è un esempio. Molto interessante, tra l’altro, perché
del tutto singolare.
Tuttavia, di una singolarità
anche plurale. E già dal titolo se ne può percepire il senso.
Una e mille. Dà l’idea di una
rifrazione prismatica di colori e, seguendo quanto recita una significativa
poesia di Emily Dickinson, “il prisma non
trattenne mai i colori, li udì solo
giocare”, ci sentiamo -contemporaneamente all’autrice- trasportati, dalle
mille rifrazioni prodotte dal prisma, da un colore all’altro dei ricordi, che
nella strategia d’insieme del romanzo, fungono da tessere sparpagliate di un
puzzle (un gioco in piena regola, dunque…) e richiedono una loro precisa
collocazione.
Ma, si badi bene, non una
collocazione in ordine cronologico che potrebbe risultare noiosa quanto
scontata, bensì una collocazione che dia luogo all’immagine di una vita e che
possa essere scomposta e ricomposta molte volte, ricostruendo ogni volta
immagini diverse e tutte aventi pieno diritto ad essere prese per buone, perché
esplicative di un senso profondo di un’esistenza.
Al punto che, dopo la prima
lettura seguendo l’ordine dei capitoli, si possono sperimentare altre modalità
di lettura seguendo soltanto il proprio istinto, partendo ad esempio da una
frase che colpisce per l’immediatezza e la veridicità dell’esperienza narrata. Oppure
seguendo un ordine del tutto personale, a seconda del sentire del momento. E
non occorre pertanto neanche il rimando (che sarebbe in qualche modo forzato)
da parte dell’autrice, da un capitolo ad un altro preordinato, come è nel
romanzo di Julio Cortázar, Il gioco del
mondo (Rayuela).
Una caratteristica che balza
immediatamente agli occhi, dopo la lettura dei primi capitoli, è una sorta di
sdoppiamento della narratrice e protagonista delle vicende raccontate, che è
evidenziato dalla scrittura normale alternata a scrittura in carattere corsivo.
È una modalità, questa, a cui non siamo
abituati. È come se ci fossero effettivamente due autrici e due protagoniste,
la cui vita, peraltro, “si frammenta in mille pezzi”, a volte nel senso
letterale dell’espressione, per risultare alla fine una composizione armonica,
come fosse un brano musicale.
Per restare nell’ambito della
metafora musicale, vorrei sottolineare come la melodia che risuona nell’aria,
pur composta da note a volte dissonanti (ad esempio, quando l’autrice narra
eventi traumatici o tragici), non stride, ma segue l’andamento e l’effetto di
quel che sta accadendo.
Come quando si ascolta La mère
di Debussy, per intenderci. Laddove la musica rigenera le onde tempestose e,
mentre si è consapevoli che si sta ascoltando un brano musicale, pur tuttavia
si ha netta e vivida l’impressione di trovarsi su una spiaggia ad ascoltare il
rumore assordante e continuo delle onde che si accavallano minacciose.
È un romanzo con colori
cangianti, proprio come la superficie del mare in una giornata primaverile.
Cristina Bove, inoltre, come
Gabriel Garcìa Márquez, con il suo “Vivere per raccontarla”. Con gli opportuni
distinguo, perché Cristina non ha vissuto e non vive per scrivere, ma scrive
per vivere.
E questo romanzo è stato il
suo primo esercizio di vita, in prosa poetica, che ha rappresentato una sorta
di sfida con se stessa mentre costituiva una sorta di gioco virtuale con il
quale intratteneva piacevolmente i suoi lettori più assidui e affezionati, come
la sottoscritta.
Ma la novità e l’originalità
del romanzo non potevano passare inosservate.
Cosicché la proposta della
pubblicazione da parte delle Edizioni Smasher costituisce certamente un giusto
riconoscimento del valore di un’artista quale dimostra di essere Cristina, in
ogni campo nel quale si cimenta.
Ma torniamo all’analisi degli
aspetti salienti e originali del romanzo.
I dialoghi e la struttura
complessiva, ad esempio.
Quanto ai dialoghi,
colpisce la sequenza scarna, priva di riferimenti ai singoli interlocutori e
alle rispettive frasi, pur tuttavia, non solo si coglie chiaramente chi sta
parlando e cosa dice esattamente, ma ci si coinvolge a tal punto nella
conversazione che sembra di essere presenti ad ascoltare, e basta solo muovere
lo sguardo dall’uno all’altro per non perdere neppure quegli elementi
psicoinconsci dei parlanti che completano il senso vero e profondo del discorso,
come i gesti o il tono della voce.
La struttura del
romanzo la definirei a cerchi concentrici e concatenati. Se ne prende coscienza
man mano, ma se ne ha conferma ovviamente al termine del romanzo.
In qualche sezione alcuni
cerchi si sovrappongono parzialmente, e ciò avviene ad esempio, quando si
riprende un ricordo e lo si rigira da un altro lato, mostrandone una diversa
sfaccettatura. Può essere identico il luogo, o uno dei personaggi, ma cambia il
fatto narrato. E questa peculiarità corrisponde, credo, ad una vera e propria
strategia narrativa, che non solo consolida i legami tra i vari capitoli, ma
serve anche a tenere desta l’attenzione del lettore e il suo coinvolgimento,
anche emotivo.
Alcuni capitoli sarebbero da
analizzare a parte.
Verso la fine, ad esempio, c’è
un capitolo che mette i brividi. Si parla
di una seduta spiritica. Personalmente, sono molto scettica in questo campo,
penso a suggestioni o qualcosa di simile, ma non posso fare altro che credere a
tutto quello che è descritto, perché è troppo verosimile. Quantomeno... il modo
di raccontare tutta la scena è più che realistico, accidenti!!!
In un altro capitolo, introdotto semplicemente dal suono del campanello di casa, vi è una
interessante discussione / riflessione sulla religione e i suoi annessi e
connessi.
Mi ha fatto tornare alla mente un libro di Jung (Tipi psicologici) laddove
Jung colloca il mito religioso nel giusto alveo, il mito appunto, di cui l'uomo
da sempre si serve per necessità sua propria, tranne che, passati millenni e
millenni, dopo che la necessità individuale è stata condivisa e ne è scaturito
un mito collettivo, non si ha più memoria delle origini e si assume come dato
di fatto, prendere o lasciare.
Colpisce il modo in cui l’autrice ne parla perché si sente la piena
consapevolezza e convinzione delle sue affermazioni, compresa l’invenzione del
cestino cosmico e il click per eliminare, fosse solo possibile…!
Il romanzo si caratterizza poi anche per altri due aspetti importanti che
non voglio tralasciare.
Il primo è l’aspetto didascalico
che assumono alcuni capitoli e che si apprezza soprattutto perché se ne nota
l’assoluta “mancanza di intento”. L’autrice si limita, cioè, a
narrare e a riportare le sue osservazioni critiche o il suo modo di vedere le
circostanze e quel che le accompagna, comprese le conseguenze, e intanto appare
come affiorare in superficie un insegnamento che si può trarre da quanto
accaduto. Questa modalità, quasi inconsapevole, risulta leggera, non impositiva
e dunque particolarmente incisiva.
Il secondo è l’aspetto culturale,
anche questo non forzato, ma naturalmente consequenziale a quel che si sta
narrando. La sua importanza è rintracciabile nel fatto che, al di là del voler
esibire il proprio mondo formativo, (cosa che non è), se ne coglie tutta la
profondità e l’estensione, che peraltro è già evidente nel lessico fine, da
romanzo di alto livello culturale, appunto.
Con questo primo lavoro in prosa, per quanto fin qui evidenziato,
collocherei in modo quasi naturale l’autrice nell’ambito delle seguenti
riflessioni, scritte da me in altra occasione:
«Nel breve intervallo dell’esistenza, ciascuno di noi assume delle
caratteristiche comportamentali proprie trasmesse inizialmente dall’ambiente
familiare, ma assorbite anche dal contesto
sociale a partire dall’infanzia e, in modi inconsci, anche nell’età
adulta, quando si crede di essere invulnerabili, di avere delle opinioni
personali o delle idee da difendere e sostenere.
In realtà, siamo immersi in una miriade di relazioni che ci sottopongono a specifiche reazioni, spesso diverse a seconda dell’interlocutore, anche su
fatti o argomenti identici.
Eppure ogni individuo si riconosce come se fosse dotato di una
specifica identità, che gli appartiene e lo fa essere quale è.
Noi stessi teniamo a distinguerci dagli altri per la nostra specifica
personalità che a volte identifichiamo quasi con l’ambiente di vita e crediamo
di essere come siamo per aver introiettato i più minuti dettagli del nostro
ambiente anche naturale, oltre che sociale; pensiamo di essere un po’ anche i
luoghi da dove veniamo, i luoghi che amiamo, quelli da cui abbiamo ricevuto una
sorta di imprinting.
Dal punto di vista psicologico, appare rassicurante sostenere che si ha
(si è) una precisa identità. È come se si fosse attrezzati per sostenere le
sfide più impegnative e difficili della vita.
E invece, bisognerebbe ricordare la lezione di Henri Louis Bergson: In ogni istante della nostra vita noi siamo
diversi, ci cambiano le coordinate spazio temporali, in funzione della resistenza
della vita sulla morte. Per questo
continuiamo ad evolvere, fino al raggiungimento di una “maturità tragica”».
(La tragicità sta ovviamente
nel comune destino di tutti gli esseri umani).
Cristina Bove incarna
precisamente questa pluralità, pur nel continuare ad essere quell’una che è.
Questa una e
mille Cristina (immersa/e nel romanzo che rispecchia la sua poliedrica
vita) segue un percorso lineare o accidentato, (a seconda dei punti di vista
sulle cose di volta in volta narrate), che è sempre coinvolgente, a diversi
livelli: nell'apparente passaggio senza un legame cronologico da un fatto a un
altro, c'è invece un nesso che chiamerei "memoriale", nel doppio
significato del termine.
In primo luogo, perché la memoria passa
tranquillamente da un fatto a un altro, soltanto grazie a un'associazione di
un'immagine o di una parola o di un'atmosfera o altro, seguendo in questo
percorso il movimento imprevedibile pel pensiero.
In secondo luogo, perché alla fine ne viene fuori un
vero e proprio memoriale.
Molto bella e poetica, inoltre, è anche la creazione
del suo mondo fittizio, parallelo alla vita reale. Anche in questo caso, non è
la bellezza in sé del mondo inventato che colpisce, bensì il fatto che il tutto
rimanda mentalmente alla mente che ci sta dietro, alla creatività dell'altra
mente (quella dell’autrice) e si resta come in apnea.
Ma nonostante questi continui sbalzi dal reale al
virtuale al fantastico, e sbalzi anche spaziotemporali, Cristina Bove segue una
sua bussola mentale e procede sicura senza mai smarrirsi nel labirinto in cui si muove,
senza perdere il filo che la condurrà all’uscita. Che anche in questo punto è
peculiare: perché il suo è un romanzo che non ha ancora la sua fine.
Al lettore il compito di
immaginare… di andare avanti e oltre… accompagnando Cristina, con piacere e
sintonia, in questa sua originale e avvincente avventura intellettuale e umana.
M. Carmen Lama, 22 novembre 2013
sabato 16 novembre 2013
recensione di Marta Altieri
Una poesia moderna che osserva con occhi tinti di antichità |
Mi hanno detto di Ofelia
(Edizioni Smasher, pp. 76, € 10,00) è il titolo che Cristina Bove
sceglie di dare alla sua nuova silloge, in cui la poesia nasce dal saldo
legame con un intero mondo di creazione e di pensieri erranti, guardato
con la serenità di chi sa di poter unirsi ad esso quando vuole, se
vuole. Un luogo dove arrivano notizie, da cui esce poesia, tinta di
modernità.
L’interessante
coloritura di questi versi liberi è data da alcuni tratti ricorrenti,
come parole interrotte da tratti bassi, quasi fossero bloccate da altre
sillabe e così scomposte svelassero quello che in realtà contengono
(«lame_nti», «stagno_la», «bi_sogni», «amorevol_mente», «di_stanze») e
corsivi che mutano il senso di alcune parole o frasi («Appuntimenti»,
«Una lei senza età a un lui che non sa»).
E
non mancano elementi tipici del discorso in prosa che di tanto in tanto
affiorano come ad esempio parentesi (anche doppie) e domande; parti di
discorso diretto introdotte senza avvertimento grafico («lo ricordate il
film di Pasolini?»), mentre la punteggiatura che è quasi inesistente,
senz’altro priva di virgole e che volentieri rinuncia a mettere un
punto; proposizioni in cui non si distingue inizio e fine rendendo
l’impressione di frammenti in un flusso di coscienza («il vuoto mi
attraversa / su commessure d’argini sospesa / spessori infinitesimi /
riversa in me di me che perdo il senso in questa moltitudine si sfoglia /
quella che fui di spalle»).
Il
tutto è racchiuso in un discorso che risulta solo in apparenza slegato,
ma composto in realtà da parole incastonate in modo originale nella
frase. In Tau, uno fra gli esempi di poesia visuale, l’immagine
finale riproduce la lettera greca appunto, ma non è così distante dalla
figura di una donna prostrata «piegata / santa dei giorni / scoccati
scaduti».
Più
volte ci imbattiamo nella parola “contro” («Controsogno»,
«controcielo», «contromisure»), indice di un modo opposto a quello
tradizionale di percepire l’interiorità del il mondo esterno, di farne
poesia unendoli e, perché no, confondendoli. La tematica amorosa non ha
un ruolo preponderante, ma emerge rare volte in modo dirompente. Un
amore impossibile, che non finisce, vissuto (o meglio, non vissuto) da
lontano e «a bassa voce». Nella descrizione di quella che sembra una
serata d’amore predomina non la dolcezza del romanticismo “glicemico”,
ma la visione stessa della scrittrice, un po’ beffarda e ironica, che
preferisce «un angolo di luna / la cantilena a mantice di un gatto /
suggerire deliri».
Ciò
che caratterizza questi componimenti è una totale apertura, l’assenza
di confini nei confronti di quello che può diventare oggetto di poesia,
la libertà da tematiche e schemi fissi e individuabili; una poesia dal
lessico esotico, ma anche specifico, una poesia scevra da stereotipi, in
cui l’io poetico continuamente si fa spazio fra piccole epifanie della
quotidianità, come in Una ciotola, e momenti limite o cruciali (Porta, Cardioversione),
accompagnati da una patina lessicale corposa nella sua inventiva. Anche
le poesie che contengono ritratti come La monaca e il vento, Sherifa o La strada per il molo,
si sviluppano in modo singolare, unendo un descrittivismo che sfiora il
metafisico («le jellabah a coprire corpi d’ebano / e bevevo la luce del
turchino»; «scaffali imbarcati al centro a sostenere il peso dei
miracoli […] vieni sul mare / a guardare velieri controluce / doppiare
l’orizzonte e il calendario») all’accentuazione del carattere
personaggio («il cuore indifferente alle stagioni / accarezzata mai
sulle colline / dimenticò la valle e scelse il cielo»).
Potrebbe a questo punto risultare estranea l’immagine di Ofelia, di cui
non viene ripercorsa la storia o creato un ritratto. Rappresenta bensì
un telegrafico seguito dell’opera shakespeariana, la giustificazione di
Amleto davanti alla morte di Ofelia. In questa poesia, che porta il
senso di tutta la raccolta, si parla di entrambi, una coppia che si è
persa nei meandri di una super-ragione fino al completo estraniamento
dal mondo e da se stessi.
Ofelia è una figura «fuori dal campo» (titolo di uno dei componimenti),
che per decisione di una forza maggiore, che sia la forza creatrice del
drammaturgo o un amore lasciato a spegnersi per distrazione, è
«tra-lasciata a tra-spirare in vasi di cantina». In questa poesia c’è il
risveglio di Amleto, che parla, anzi, scrive da un luogo a noi
sconosciuto e si ricorda di Ofelia che soffre. Sono in realtà figure che
risiedono ai margini della vita, Ofelia donna abbandonata, Amleto uomo
estraniato.
In sintonia con questi personaggi è la voce stessa della poetessa che
chiede il suo «restare in disparte», e di «camminare ancora a testa
alta», quello che Ofelia non ha mai fatto, se non nell’atto di decidere
della sua morte, «un sereno e sicuro silenzio / e poi dormire».
«Desidero accucciarmi nel silenzio», è una frase che veste bene l’Amleto
shakespeariano, il quale decide di appartarsi dal mondo, si lamenta
delle troppe parole degli altri e poi espleta il suo dolore in
eccellenti monologhi. Le parole sono un inganno e una salvezza, ed è
questo principio che i componimenti portano alla luce, tenendo a bada il
pericolo di lasciarsi imprigionare con la pacatezza dei sentimenti mai
portati all’estremo, senza tracimare nel “troppo” amletico.
A
conferma di ciò, leggendo questi versi si avverte sempre la sensazione e
il desiderio di un distacco, di voler essere altrove; emerge,
paradossalmente, il desiderio di fare poesia senza usare le parole, di
suggerirla a mezza bocca, perché darle fiato la rende forse meno
potente.«Mi farò bastare il gioco» dice l’io poetico «tanto mi
sveglierò, verrà il silenzio […] quello che non s’inganna con le
impronte di parole calcate nella sabbia». Lo sforzo di imprimere sulla
pagina questo volere risulta qui espletato, forse superato: «Le parole
comprimono l’estasi / intralciano i poeti / li definiscono in cataloghi /
allora ammutolisco per sentire / e non vendermi agli echi».
Marta Altieri
(www.excursus.org, anno V, n. 52, novembre 2013)
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mercoledì 2 ottobre 2013
domenica 4 agosto 2013
Intervista di Pasquale Esposito su "Filosofi per caso"
Nelle pagine della splendida pubblicazione "Filosofi per caso” c’è una nuova rubrica sulla poesia curata da Pasquale Esposito (Evento Unico) inaugurata con alcuni miei testi e qualche domanda.
martedì 28 maggio 2013
recensione di Stefano Guglielmin
Mi hanno detto di
Ofelia (Edizioni Smasher, 2012), di Cristina Bove, ha ricevuto numerose
recensioni in rete, tutte positive. Così com'è entusiasta le Postfazione
di Francesco Marotta, sempre acutissimo nel cogliere, di ciascun poeta, le
inclinazioni stilistiche e la cifra che lo contraddistingue.
La mia impressione
è che questo libro tenga insieme differenti temi e stili, che forse avrebbero
dovuto trovare una migliore organizzazione complessiva, in capitoli in cui
meglio sarebbe emersa una convergenza nei temi, pur nella diversa articolazione
stilistica. Nonostante questo, la "Silloge proteiforme", come scrive
Anna Maria Curci in prefazione, lascia trasparire la stessa mano. Alcuni
elementi retorici e tematici tornano infatti con frequenza: l'uso di termini
botanici e/o settoriali e/o rari (achillea, albedo, blastule, genomi, patagi,
fusciacca, gracula, lunula, sdilinquisce, molcere), la nominazione anatomica di
parti del corpo, l'attrazione per l'esotico (che talvolta si combina con il
preziosismo decorativo, tutto giocato sulla fascinazione dei nomi, cfr. Sherifa),
l'interesse per la sperimentazione segnica (l'uso del trattino basso, che
troviamo anche negli inediti), l'attenzione all'esistenza, pensata nella sua
effimera presenza, sempre sul punto di sparire, la venata malinconia per un
altrove mai stato o per un tempo che non tornerà. Insomma: Cristina Bove è una
donna colta e complessa, che ripensa la vita a partire da un verso denso, che
attinge più da D'Annunzio e Gozzano che da Montale o dai crepuscolari alla
Moretti. Anche se proprio dalla Cesena di quest'ultimo – contaminata con
l'essenzialità dell'haiku – pare attinta la poesia Una ciotola, dove si
dice "è Primavera / una forchetta in bilico / e / abbaiare di cani",
in una sequenza organizzata per elementi emblematici di un quotidiano senza
lampi. La sua poesia civile si gioca su questo piano, mettendo in luce il
grigiore del vivere nella modernità, "noi che venimmo dal tempo / ch'era
il mare un ritaglio di cielo / ed esultanze, ignote geometrie / carezzavano
addosso. // E poi dimenticammo."
E' questa
smemoratezza che va combattuta ("Adesso veglio – sola – a ricordare")
perché la vita, pare dirci la Bove, lentamente si spegne, se non si cammina
"a testa alta", in una solitudine feconda, fatta di interrogazioni al
mondo e alla propria anima. Cristina Bove crede all'esistenza dell'anima, la
nomina in questo libro, la chiama, forse, "Ofelia": morta Ofelia, il
mondo scolora, si frantuma, Eppure non crede in Dio, non in modo evidente,
almeno ("Dove s'affaccia Dio / lasciare un punto di / domanda"). Da
laica illuminista diffida della religione; nemmeno alla poesia affida questo
ruolo. E questo la salva da certa mistica dell'a-capo che attraversa la pratica
contemporanea. Salvezza corroborata dal distacco ironico, che perde (e come
potrebbe essere altrimenti?) quando parla d'amore o di solitudine: "Tu che
ti specchi nel mio nulla" la dice lunga sulla natura tragica di questo
libro, che forse pecca di qualche eccesso d'astrazione, come in questi due esempi:
"Pregai col viso ch'era più un torrente / mani artigliate alla stadera
delle / speranze equanimi / quel tanto da pensare che lo fossero"; e: "E tu sarai fremente d'arabeschi / nel
rovescio di_stanze della terra". Anche nell'uso di parole rare, io starei
parco ("Nell'argilla gli steli d'achillea / sono ditate impresse /
nell'albedo"), perché, forse senza volerlo, riportano al centro l'elitario
quale cifra del poetico, in un tempo, il nostro, dove a vacillare è proprio il
contrario: l'uguaglianza e l'antiretorica.
da Mi hanno detto di Ofelia
TAU
Si può avere una croce
di nuvole basse appoggiata alle scapole nude
il destino di mezze
parole - bizzarrie di gesti - nei campi
di sole e di
grano - amputarsi
d'orecchio il pittore - non furono pane i tuoi versi
partiture d'assensi in
forma univoca le frotte di cornacchie coefore
ingrigite dei tuoi
giorni di fiele.
È di rosa il tuo viso
si arresta se il ghiaccio
mi arriva al diaframma
e non posso morire.
Son io che mi stingo
di sangue la bocca
dipinta al di qua
delle ore, piegata
tu santa dei giorni
scoccati scaduti
insegnavi la vita
a chi muore.
APPUNTiMENTI
addensate tra costole
discostate dagli archi
io violoncello tra laringe e cuore
sonorità profondo
lungo le corde d'improvvisi
in gola
sono non sono solamente soglia
solve et coagula
argento mi distingue all'apparenza
se viaggiare sull'onda
è stringere lame_nti tra le mani
sapete bene come
può tagliare la carta
e allora questo che vi sembra un letto
già libro - o giaciglio disfatto -
infine è uno sbadiglio
in retroscena.
CONTROMISURE
Oh, beh, sì,
potrei
parlare di dolcetti al miele
certo
potrei
anche di
quel loukhoum pistacchi e rose
e poi
tutta la gamma dei colori
potrei
metterci un tango
o il quartetto per archi in fa
maggiore
potrei farvi venire
una crisi glicemica
invece no,
giro la sedia a vite
in calzamaglia
immagino trent'anni e lui be-bop
muscoli e fiato
forse una spruzzatina di far west
e
pupa vieni qui, fatti baciare
pizzi neri e due fucsie tra i
capelli
odore che - miodio -
potrò mai farti giungere in
ritardo
oh, beh, certo che sì
va tutto bene
hai portato le coppe mon amour?
Vedrai, stanotte un angolo di
luna
la cantilena a mantice di un
gatto
suggerire deliri
e tu lo vuoi.
Che sia così?
Forse mistificazione
a sfavillare dove
resta il grumo a stagnare
e penne d'avvoltoio
mimetizzate da paradisea
una parte asseconda il sé
di meridiane e traffici illusori
l'altra spinge ed assedia
è quello che misura il do di petto
dei polli da spennare
il rigetto di cavoli e caviale
si sdilinquisce a
“molcere”
(quale parola-orrore)
sa di moccio, di scivolata in sol_chi
ma tu
quale ansare ti porta sulla porta?
Qual'effrazione pratichi
all'udito?
E per salvarmi appendo alla pineale
il guitto colpo di
tosse
a calare di tela
e adesso dimmi pure una parola
tipo “catalogna” chessò...
ti spiego di verdura ripassata in
padella
ti piace l'aglio?
Se hai fame non ti vendo
la poesia
DIVERSAMENTE STABILE
C'è l'idiosincrasia
- quanto
le piace questo lemma -
per la
parola cuore
le dovesse
scappare non sia mai
spalmata
su parole altisonanti
prosodia
rea
sconfessa
un ragazzo
che viene dal passato
occhi di
broncio
- di sensi
all'erta le concede l'uomo
in
minutaglie sparse
e il suo
andare di fretta -
lui di
bevute solitarie
nel palmo
della mano in senso lato
lei che si
gioca l'ultimo bicchiere
col piede
nella staffa.
UNA CIOTOLA
Una ciotola
e il colore del pomodoro
di striscio
un’avanzata di foglie di basilico
dalle casse Vivaldi
è Primavera
una forchetta in bilico
e
abbaiare di cani
ti frughi nei cassetti
prendi a casaccio nomi
e pepe e sale
ti si inceppa un pensiero
lo appendi ad asciugare…
DI SOLITUDINI
Alla tua solitudine lo posso raccontare
dei miei pensieri cavi, e delle notti
calate sulle rive di soppiatto.
Tu la conosci, è specchio al tuo sottrarsi
anche la mia
ch'è sabbia, neve, voli e
speronate a picco.
A te lo posso dire, fatta di nebbia io sono
quindi nei vuoti d’aria m’abbandono
per una tregua minima
se vuoi
tu che ti specchi nel mio nulla
puoi, nella forma del buio,
porgere la tua mano alla mia assenza.
Inedito
Tecniche di
sparizione
Sono le trasparenze a fare il quadro
non c’è ombra che affondi nel catrame
per quanto denso e colorato
indicativo dell’incirca e mai
la pulizia di netto, il senso che preciso
lascia il segno
_l’anima si tratteggia a mano libera_
è ciò che amo
quell’essere soltanto suggerito
che riconduce al fiato, alla misura nota
univoca, lontana il più possibile dal corpo
quando perfino il sesso ha un suo candore
e nella dignità
tesse ogni cosa
il rito delle proprie tinte arrese
ad ogni mezzo lieve
m’ispira il numero aureo
la coclea a svolgimento senza fne
il raggio
che coglie in pieno petto chi già vive
della sua morte luminosa
e ancora sta
Cristina Bove è nata a Napoli il 16 settembre
1942, vive a Roma dal '63.
Si
è occupata di pittura e scultura. Ha vissuto da
giovane a Tunisi dove fu allestita con successo la sua prima personale di pittura. È sua la scultura in bronzo dell’hotel
Sabbiadoro a S. Benedetto del Tronto.
Negli ultimi tempi si dedica alla scrittura, alla fotografia e all’arte digitale.
Scrive soprattutto poesia.
Scrive soprattutto poesia.
Per le edizioni Il Foglio
Letterario ha pubblicato: Fiori e fulmini (2007), Il respiro della
luna (2008), Attraversamenti verticali (2009).
Mi hanno detto di Ofelia (2012 -
Edizioni Smasher)
Metà del
silenzio
(eBook 2014 - Edizioni PiBuk).
Ultimo lavoro pubblicato: Una per mille (romanzo – 2016 edizioni Fusibilia).
Il
suo blog personale https://cristinabove.net/
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