Una poesia moderna che osserva con occhi tinti di antichità |
Mi hanno detto di Ofelia
(Edizioni Smasher, pp. 76, € 10,00) è il titolo che Cristina Bove
sceglie di dare alla sua nuova silloge, in cui la poesia nasce dal saldo
legame con un intero mondo di creazione e di pensieri erranti, guardato
con la serenità di chi sa di poter unirsi ad esso quando vuole, se
vuole. Un luogo dove arrivano notizie, da cui esce poesia, tinta di
modernità.
L’interessante
coloritura di questi versi liberi è data da alcuni tratti ricorrenti,
come parole interrotte da tratti bassi, quasi fossero bloccate da altre
sillabe e così scomposte svelassero quello che in realtà contengono
(«lame_nti», «stagno_la», «bi_sogni», «amorevol_mente», «di_stanze») e
corsivi che mutano il senso di alcune parole o frasi («Appuntimenti»,
«Una lei senza età a un lui che non sa»).
E
non mancano elementi tipici del discorso in prosa che di tanto in tanto
affiorano come ad esempio parentesi (anche doppie) e domande; parti di
discorso diretto introdotte senza avvertimento grafico («lo ricordate il
film di Pasolini?»), mentre la punteggiatura che è quasi inesistente,
senz’altro priva di virgole e che volentieri rinuncia a mettere un
punto; proposizioni in cui non si distingue inizio e fine rendendo
l’impressione di frammenti in un flusso di coscienza («il vuoto mi
attraversa / su commessure d’argini sospesa / spessori infinitesimi /
riversa in me di me che perdo il senso in questa moltitudine si sfoglia /
quella che fui di spalle»).
Il
tutto è racchiuso in un discorso che risulta solo in apparenza slegato,
ma composto in realtà da parole incastonate in modo originale nella
frase. In Tau, uno fra gli esempi di poesia visuale, l’immagine
finale riproduce la lettera greca appunto, ma non è così distante dalla
figura di una donna prostrata «piegata / santa dei giorni / scoccati
scaduti».
Più
volte ci imbattiamo nella parola “contro” («Controsogno»,
«controcielo», «contromisure»), indice di un modo opposto a quello
tradizionale di percepire l’interiorità del il mondo esterno, di farne
poesia unendoli e, perché no, confondendoli. La tematica amorosa non ha
un ruolo preponderante, ma emerge rare volte in modo dirompente. Un
amore impossibile, che non finisce, vissuto (o meglio, non vissuto) da
lontano e «a bassa voce». Nella descrizione di quella che sembra una
serata d’amore predomina non la dolcezza del romanticismo “glicemico”,
ma la visione stessa della scrittrice, un po’ beffarda e ironica, che
preferisce «un angolo di luna / la cantilena a mantice di un gatto /
suggerire deliri».
Ciò
che caratterizza questi componimenti è una totale apertura, l’assenza
di confini nei confronti di quello che può diventare oggetto di poesia,
la libertà da tematiche e schemi fissi e individuabili; una poesia dal
lessico esotico, ma anche specifico, una poesia scevra da stereotipi, in
cui l’io poetico continuamente si fa spazio fra piccole epifanie della
quotidianità, come in Una ciotola, e momenti limite o cruciali (Porta, Cardioversione),
accompagnati da una patina lessicale corposa nella sua inventiva. Anche
le poesie che contengono ritratti come La monaca e il vento, Sherifa o La strada per il molo,
si sviluppano in modo singolare, unendo un descrittivismo che sfiora il
metafisico («le jellabah a coprire corpi d’ebano / e bevevo la luce del
turchino»; «scaffali imbarcati al centro a sostenere il peso dei
miracoli […] vieni sul mare / a guardare velieri controluce / doppiare
l’orizzonte e il calendario») all’accentuazione del carattere
personaggio («il cuore indifferente alle stagioni / accarezzata mai
sulle colline / dimenticò la valle e scelse il cielo»).
Potrebbe a questo punto risultare estranea l’immagine di Ofelia, di cui
non viene ripercorsa la storia o creato un ritratto. Rappresenta bensì
un telegrafico seguito dell’opera shakespeariana, la giustificazione di
Amleto davanti alla morte di Ofelia. In questa poesia, che porta il
senso di tutta la raccolta, si parla di entrambi, una coppia che si è
persa nei meandri di una super-ragione fino al completo estraniamento
dal mondo e da se stessi.
Ofelia è una figura «fuori dal campo» (titolo di uno dei componimenti),
che per decisione di una forza maggiore, che sia la forza creatrice del
drammaturgo o un amore lasciato a spegnersi per distrazione, è
«tra-lasciata a tra-spirare in vasi di cantina». In questa poesia c’è il
risveglio di Amleto, che parla, anzi, scrive da un luogo a noi
sconosciuto e si ricorda di Ofelia che soffre. Sono in realtà figure che
risiedono ai margini della vita, Ofelia donna abbandonata, Amleto uomo
estraniato.
In sintonia con questi personaggi è la voce stessa della poetessa che
chiede il suo «restare in disparte», e di «camminare ancora a testa
alta», quello che Ofelia non ha mai fatto, se non nell’atto di decidere
della sua morte, «un sereno e sicuro silenzio / e poi dormire».
«Desidero accucciarmi nel silenzio», è una frase che veste bene l’Amleto
shakespeariano, il quale decide di appartarsi dal mondo, si lamenta
delle troppe parole degli altri e poi espleta il suo dolore in
eccellenti monologhi. Le parole sono un inganno e una salvezza, ed è
questo principio che i componimenti portano alla luce, tenendo a bada il
pericolo di lasciarsi imprigionare con la pacatezza dei sentimenti mai
portati all’estremo, senza tracimare nel “troppo” amletico.
A
conferma di ciò, leggendo questi versi si avverte sempre la sensazione e
il desiderio di un distacco, di voler essere altrove; emerge,
paradossalmente, il desiderio di fare poesia senza usare le parole, di
suggerirla a mezza bocca, perché darle fiato la rende forse meno
potente.«Mi farò bastare il gioco» dice l’io poetico «tanto mi
sveglierò, verrà il silenzio […] quello che non s’inganna con le
impronte di parole calcate nella sabbia». Lo sforzo di imprimere sulla
pagina questo volere risulta qui espletato, forse superato: «Le parole
comprimono l’estasi / intralciano i poeti / li definiscono in cataloghi /
allora ammutolisco per sentire / e non vendermi agli echi».
Marta Altieri
(www.excursus.org, anno V, n. 52, novembre 2013)
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