Cristina Bove - Una per mille - Edizioni Fusibilia 2016
«Un
romanzo autobiografico scritto sul filo dei ricordi»
Anche nel campo letterario c’è
movimento, aspirazione a cambiamenti, in sintonia con il tempo tecnologico in
cui viviamo, nel quale ci siamo e non ci siamo, dentro al quale non riusciamo a
percepire la nostra stessa consistenza, non riuscendo a tenere i piedi per
terra una volta per tutte.
E quando ci sembra di avere
raggiunto una meta, che si tratti di apprendimento di nuove conoscenze o si
tratti di nuove relazioni amicali, ecco intervenire delle novità inaspettate
dalle quali si è inconsapevolmente proiettati in nuove dimensioni o ricacciati
in habitat sconosciuti, sebbene quasi tradizionali.
Ebbene, sensazioni simili
possono essere sperimentate anche leggendo nuovi romanzi.
Quello di Cristina Bove che mi
accingo a recensire ne è un esempio. Molto interessante, tra l’altro, perché
del tutto singolare.
Tuttavia, di una singolarità
anche plurale. E già dal titolo se ne può percepire il senso.
Una e mille. Dà l’idea di una
rifrazione prismatica di colori e, seguendo quanto recita una significativa
poesia di Emily Dickinson, “il prisma non
trattenne mai i colori, li udì solo
giocare”, ci sentiamo -contemporaneamente all’autrice- trasportati, dalle
mille rifrazioni prodotte dal prisma, da un colore all’altro dei ricordi, che
nella strategia d’insieme del romanzo, fungono da tessere sparpagliate di un
puzzle (un gioco in piena regola, dunque…) e richiedono una loro precisa
collocazione.
Ma, si badi bene, non una
collocazione in ordine cronologico che potrebbe risultare noiosa quanto
scontata, bensì una collocazione che dia luogo all’immagine di una vita e che
possa essere scomposta e ricomposta molte volte, ricostruendo ogni volta
immagini diverse e tutte aventi pieno diritto ad essere prese per buone, perché
esplicative di un senso profondo di un’esistenza.
Al punto che, dopo la prima
lettura seguendo l’ordine dei capitoli, si possono sperimentare altre modalità
di lettura seguendo soltanto il proprio istinto, partendo ad esempio da una
frase che colpisce per l’immediatezza e la veridicità dell’esperienza narrata. Oppure
seguendo un ordine del tutto personale, a seconda del sentire del momento. E
non occorre pertanto neanche il rimando (che sarebbe in qualche modo forzato)
da parte dell’autrice, da un capitolo ad un altro preordinato, come è nel
romanzo di Julio Cortázar, Il gioco del
mondo (Rayuela).
Una caratteristica che balza
immediatamente agli occhi, dopo la lettura dei primi capitoli, è una sorta di
sdoppiamento della narratrice e protagonista delle vicende raccontate, che è
evidenziato dalla scrittura normale alternata a scrittura in carattere corsivo.
È una modalità, questa, a cui non siamo
abituati. È come se ci fossero effettivamente due autrici e due protagoniste,
la cui vita, peraltro, “si frammenta in mille pezzi”, a volte nel senso
letterale dell’espressione, per risultare alla fine una composizione armonica,
come fosse un brano musicale.
Per restare nell’ambito della
metafora musicale, vorrei sottolineare come la melodia che risuona nell’aria,
pur composta da note a volte dissonanti (ad esempio, quando l’autrice narra
eventi traumatici o tragici), non stride, ma segue l’andamento e l’effetto di
quel che sta accadendo.
Come quando si ascolta La mère
di Debussy, per intenderci. Laddove la musica rigenera le onde tempestose e,
mentre si è consapevoli che si sta ascoltando un brano musicale, pur tuttavia
si ha netta e vivida l’impressione di trovarsi su una spiaggia ad ascoltare il
rumore assordante e continuo delle onde che si accavallano minacciose.
È un romanzo con colori
cangianti, proprio come la superficie del mare in una giornata primaverile.
Cristina Bove, inoltre, come
Gabriel Garcìa Márquez, con il suo “Vivere per raccontarla”. Con gli opportuni
distinguo, perché Cristina non ha vissuto e non vive per scrivere, ma scrive
per vivere.
E questo romanzo è stato il
suo primo esercizio di vita, in prosa poetica, che ha rappresentato una sorta
di sfida con se stessa mentre costituiva una sorta di gioco virtuale con il
quale intratteneva piacevolmente i suoi lettori più assidui e affezionati, come
la sottoscritta.
Ma la novità e l’originalità
del romanzo non potevano passare inosservate.
Cosicché la proposta della
pubblicazione da parte delle Edizioni Smasher costituisce certamente un giusto
riconoscimento del valore di un’artista quale dimostra di essere Cristina, in
ogni campo nel quale si cimenta.
Ma torniamo all’analisi degli
aspetti salienti e originali del romanzo.
I dialoghi e la struttura
complessiva, ad esempio.
Quanto ai dialoghi,
colpisce la sequenza scarna, priva di riferimenti ai singoli interlocutori e
alle rispettive frasi, pur tuttavia, non solo si coglie chiaramente chi sta
parlando e cosa dice esattamente, ma ci si coinvolge a tal punto nella
conversazione che sembra di essere presenti ad ascoltare, e basta solo muovere
lo sguardo dall’uno all’altro per non perdere neppure quegli elementi
psicoinconsci dei parlanti che completano il senso vero e profondo del discorso,
come i gesti o il tono della voce.
La struttura del
romanzo la definirei a cerchi concentrici e concatenati. Se ne prende coscienza
man mano, ma se ne ha conferma ovviamente al termine del romanzo.
In qualche sezione alcuni
cerchi si sovrappongono parzialmente, e ciò avviene ad esempio, quando si
riprende un ricordo e lo si rigira da un altro lato, mostrandone una diversa
sfaccettatura. Può essere identico il luogo, o uno dei personaggi, ma cambia il
fatto narrato. E questa peculiarità corrisponde, credo, ad una vera e propria
strategia narrativa, che non solo consolida i legami tra i vari capitoli, ma
serve anche a tenere desta l’attenzione del lettore e il suo coinvolgimento,
anche emotivo.
Alcuni capitoli sarebbero da
analizzare a parte.
Verso la fine, ad esempio, c’è
un capitolo che mette i brividi. Si parla
di una seduta spiritica. Personalmente, sono molto scettica in questo campo,
penso a suggestioni o qualcosa di simile, ma non posso fare altro che credere a
tutto quello che è descritto, perché è troppo verosimile. Quantomeno... il modo
di raccontare tutta la scena è più che realistico, accidenti!!!
In un altro capitolo, introdotto semplicemente dal suono del campanello di casa, vi è una
interessante discussione / riflessione sulla religione e i suoi annessi e
connessi.
Mi ha fatto tornare alla mente un libro di Jung (Tipi psicologici) laddove
Jung colloca il mito religioso nel giusto alveo, il mito appunto, di cui l'uomo
da sempre si serve per necessità sua propria, tranne che, passati millenni e
millenni, dopo che la necessità individuale è stata condivisa e ne è scaturito
un mito collettivo, non si ha più memoria delle origini e si assume come dato
di fatto, prendere o lasciare.
Colpisce il modo in cui l’autrice ne parla perché si sente la piena
consapevolezza e convinzione delle sue affermazioni, compresa l’invenzione del
cestino cosmico e il click per eliminare, fosse solo possibile…!
Il romanzo si caratterizza poi anche per altri due aspetti importanti che
non voglio tralasciare.
Il primo è l’aspetto didascalico
che assumono alcuni capitoli e che si apprezza soprattutto perché se ne nota
l’assoluta “mancanza di intento”. L’autrice si limita, cioè, a
narrare e a riportare le sue osservazioni critiche o il suo modo di vedere le
circostanze e quel che le accompagna, comprese le conseguenze, e intanto appare
come affiorare in superficie un insegnamento che si può trarre da quanto
accaduto. Questa modalità, quasi inconsapevole, risulta leggera, non impositiva
e dunque particolarmente incisiva.
Il secondo è l’aspetto culturale,
anche questo non forzato, ma naturalmente consequenziale a quel che si sta
narrando. La sua importanza è rintracciabile nel fatto che, al di là del voler
esibire il proprio mondo formativo, (cosa che non è), se ne coglie tutta la
profondità e l’estensione, che peraltro è già evidente nel lessico fine, da
romanzo di alto livello culturale, appunto.
Con questo primo lavoro in prosa, per quanto fin qui evidenziato,
collocherei in modo quasi naturale l’autrice nell’ambito delle seguenti
riflessioni, scritte da me in altra occasione:
«Nel breve intervallo dell’esistenza, ciascuno di noi assume delle
caratteristiche comportamentali proprie trasmesse inizialmente dall’ambiente
familiare, ma assorbite anche dal contesto
sociale a partire dall’infanzia e, in modi inconsci, anche nell’età
adulta, quando si crede di essere invulnerabili, di avere delle opinioni
personali o delle idee da difendere e sostenere.
In realtà, siamo immersi in una miriade di relazioni che ci sottopongono a specifiche reazioni, spesso diverse a seconda dell’interlocutore, anche su
fatti o argomenti identici.
Eppure ogni individuo si riconosce come se fosse dotato di una
specifica identità, che gli appartiene e lo fa essere quale è.
Noi stessi teniamo a distinguerci dagli altri per la nostra specifica
personalità che a volte identifichiamo quasi con l’ambiente di vita e crediamo
di essere come siamo per aver introiettato i più minuti dettagli del nostro
ambiente anche naturale, oltre che sociale; pensiamo di essere un po’ anche i
luoghi da dove veniamo, i luoghi che amiamo, quelli da cui abbiamo ricevuto una
sorta di imprinting.
Dal punto di vista psicologico, appare rassicurante sostenere che si ha
(si è) una precisa identità. È come se si fosse attrezzati per sostenere le
sfide più impegnative e difficili della vita.
E invece, bisognerebbe ricordare la lezione di Henri Louis Bergson: In ogni istante della nostra vita noi siamo
diversi, ci cambiano le coordinate spazio temporali, in funzione della resistenza
della vita sulla morte. Per questo
continuiamo ad evolvere, fino al raggiungimento di una “maturità tragica”».
(La tragicità sta ovviamente
nel comune destino di tutti gli esseri umani).
Cristina Bove incarna
precisamente questa pluralità, pur nel continuare ad essere quell’una che è.
Questa una e
mille Cristina (immersa/e nel romanzo che rispecchia la sua poliedrica
vita) segue un percorso lineare o accidentato, (a seconda dei punti di vista
sulle cose di volta in volta narrate), che è sempre coinvolgente, a diversi
livelli: nell'apparente passaggio senza un legame cronologico da un fatto a un
altro, c'è invece un nesso che chiamerei "memoriale", nel doppio
significato del termine.
In primo luogo, perché la memoria passa
tranquillamente da un fatto a un altro, soltanto grazie a un'associazione di
un'immagine o di una parola o di un'atmosfera o altro, seguendo in questo
percorso il movimento imprevedibile pel pensiero.
In secondo luogo, perché alla fine ne viene fuori un
vero e proprio memoriale.
Molto bella e poetica, inoltre, è anche la creazione
del suo mondo fittizio, parallelo alla vita reale. Anche in questo caso, non è
la bellezza in sé del mondo inventato che colpisce, bensì il fatto che il tutto
rimanda mentalmente alla mente che ci sta dietro, alla creatività dell'altra
mente (quella dell’autrice) e si resta come in apnea.
Ma nonostante questi continui sbalzi dal reale al
virtuale al fantastico, e sbalzi anche spaziotemporali, Cristina Bove segue una
sua bussola mentale e procede sicura senza mai smarrirsi nel labirinto in cui si muove,
senza perdere il filo che la condurrà all’uscita. Che anche in questo punto è
peculiare: perché il suo è un romanzo che non ha ancora la sua fine.
Al lettore il compito di
immaginare… di andare avanti e oltre… accompagnando Cristina, con piacere e
sintonia, in questa sua originale e avvincente avventura intellettuale e umana.
M. Carmen Lama, 22 novembre 2013
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