Normalmente
si definisce il silenzio come un vuoto dentro il quale naufragano gesti e
parole; il titolo di questa silloge avrebbe ben poco senso se così fosse; il
silenzio, al contrario, è un pieno che non sa dirsi, è la vita che si vieta di
narrarsi, è il pensiero che si riflette e non sa trovare formule per
esplicitarsi.
Affrontare il
silenzio è affrontare se stessi, interamente e integralmente. E’ un’impresa
complessa, forse impossibile.
Affrontarne
la metà è indice di coraggio, è necessità di estirpare i carcinomi che
senz’aria, reclusi, proliferano e diventano pericolosi.
In questa
metà del silenzio di Cristina forse non c’è metà dei suoi vissuti, ma
riconosciamo le sue fatiche, le sue amarezze, le sue ritrosie, gli ardimenti, i
suoi pensieri appesi e lucenti come led ai frattali dell’universo. Gli
ardimentosi accostamenti di parole e immagini denunciano una cultura che
abbraccia più branche del sapere intrise nella sua e nella nostra vita, spesso
mascherate, a volte quasi in mostra.
Queste sono
anche le caratteristiche della poesia di Cristina, non semplice, ma qua è là
quasi disincantata e disincarnata. C’è molta umanità di sentire e di soffrire,
ci sono squarci ironici e giocosi, c’è soprattutto una messa a fuoco precisa,
imperdonata. “Sotto la chioma bruna/ che parla in strato sferico/ riferimenti
in sovra-numero / --- “ la poesia termina con un inatteso “e sì che vorrei
essere un abbraccio” Quest’ultimo verso dice molto della filosofia e degli
atteggiamenti culturali e comportamentali di Cristina, ferita, delusa, non più
in attesa, ma lei accogliente, rassicurante, protettiva. Ma “nei giardini delle
esperidi/ i pomi restano appesi ai rami” La poetessa fruga nelle sue
esperienze e in quelle altrui alla ricerca di un qualsiasi bene; non mancano ma
sono racchiusi in impenetrabili gusci o si sono rarefatti lungo il cammino ormai cetre spente.
Così ogni
tentativo di volo oltre e sopra il dolore è destinato a fallire, la parola no,
essa resta, consolazione degli afflitti, surrogato degli affetti, bastone che
sorregge l’andatura zoppicante e scansa il tranello lungo il percorso. Molto
spesso il percorso si tuffa in mare e qui mutano le forme di vita non l’esito,
sempre capriccioso e indocile.
Nella
sovrabbondanza di parole che affluiscono nella stessa poesia da diversi campi
semantici qualcuno potrebbe inferire una ricerca razionale raffinata, poi si
scopre che certe visioni tornano, che alcune parole sono tracce e indizi,
esistono per la loro capacità di dire in quel modo e solo in quello. La poesia
di C.Bove ha un’altra caratteristica: pare non rivolgersi a nessuno: non a un
io, né a un tu, neppure ad un noi o voi, tutto coesiste e tutti sono chiamati
allo specchio della loro coscienza; soltanto quando parla di donne il grumo del
suo dettato si scioglie e la poesia si apre come un fiore dai molti petali (
non so se rosa o girasole) ma da quell’apertura penetrano solo amarezze,
illusioni. Ci sono poesie sulle crudeltà contro i bambini e allora il
linguaggio si liquefa in pianto; né mancano i j’accuse contro i potenti sempre
prepotenti, sempre pronti a calpestare la dignità dei poveri .
Tecnicamente
la poesia di Cristina è priva di retorica; qua e là gioca con i doppi sensi,
con le assonanze; tuttavia queste poesie possiedono una musicalità propria di
chi ha il ritmo e le cadenze dentro, come un musico.
Narda Fattori
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