mercoledì 9 gennaio 2019

M.Carmen Lama su "Una donna di marmo nell'aiuola"


Un vero poeta si riconosce da molti dettagli, primo fra tutti dallo stile personale, originale, e senza dubbio anche dai temi indagati con le sue poesie. Salta subito all’occhio, alla prima lettura, anche la forma con i suoi ritmi e la musicalità. Ma queste caratteristiche sono, vorrei dire, intrinseche al poetare, così come la metrica, la rima o i versi liberi che, se pure non di secondaria importanza, assumono un valore aggiunto quando la poesia esprime pensieri profondi o rimanda ad esperienze per così dire ‘universali’, sommovendo emozioni e sentimenti genuini, o evocando atmosfere, risvegliando ricordi, nostalgie, suscitando speranze e ottimismo, anche.

Questo breve preambolo mi porta a considerare che nella nuova silloge di Cristina Bove, ‘Una donna di marmo nell’aiuola’, gli elementi sopra accennati si ritrovano tutti, e rendono la lettura delle poesie molto piacevole.
È anche vero che, se non si ha una certa familiarità con il suo modo di poetare, già dalla prima lettura occorre una attenzione particolare, verso per verso, e successivamente una ri-lettura che consenta di verificare la comprensione, o di assaporare, quantomeno, il distillato dell’essenza di ogni poesia. Questo perché Cristina spazia nei cieli immensi della sua anima e si rischia di perdersi se non ci si lascia condurre per mano.

In questa silloge, in particolare, l’autrice ci offre una sua lettura in controluce del reale, come attraverso una sorta di ‘diaframma’ del pensiero, che mostra mentre anche nasconde: sono riflessioni sulla vita, sull’amore, sul tempo, sulla psicologia dell’io.. ecc.. tutte tematiche molto complesse, che si lasciano solo parzialmente scandagliare e che quindi comportano una continua rivisitazione, poiché ogni volta si coglie appena un minimo aspetto, lasciandone in ombra un’infinità.

Volendo fare di questa mia breve nota qualcosa come una lettura a volo d’uccello, mi soffermerò soltanto su aspetti salienti, visibili -appunto- nell’insieme delle poesie, a cominciare da una strategia molto efficace utilizzata da Cristina in molte poesie di questa silloge, e cioè l’andatura contrappuntistica della versificazione, così che, mentre si ascolta una prima ‘melodia’ e se ne coglie il senso, è già a disposizione una successiva ‘voce poetica’ che in qualche modo incalza la prima, la ricorda, la riafferma, ma è diversa pur essendo simile, creando così un effetto di accordo-relazione tra le varie parti, pur indipendenti dal punto di vista della musicalità.

Oltre a questo godibile modo di procedere poetico, si possono agevolmente rilevare:

- delle contrapposizioni ‘diafane’ di negativo e positivo, sfumate dall'uno nell'altro, come rivela già il titolo della silloge: l’impietrirsi della donna (di marmo) ma sull’aiuola (sul morbido); altre contrapposizioni le troviamo tra vita/morte, calore/gelo, ombra/luce, ecc…

- l’utilizzo, a volte spiazzante, di metafore, molte delle quali tratte dal mondo marino, come se l’acqua fosse un valido supporto per l’effimero che è rappresentato dalla vita (infine arresa ai silenziosi flutti / mi spiaggerò su quella stessa riva / male che venga _come una risacca_ - v. ‘Male calmo’ - pag. 47)

- talvolta aforismi metaforici come questo, bellissimo: le pietre non carezzano le pietre / _è compito del sole farle vive_ -  v. ‘Esaurivento’ - pag. 67)

- la categoria della solitudine, insistita, in più d’una poesia, perché elemento costitutivo di ogni essere umano

- una lucida consapevolezza del tragico destino comune

- un rapporto controverso con il tempo, tra la sparizione dei minuti, l’effimero presente e una presunta eternità

- una sottesa amarezza, nei versi e, a volte, nei titoli stessi delle poesie; non disgiunta, tuttavia, da sottile ironia, semplice escamotage per resistere alle insidie del tempo, ma anche sguardo intelligente sull’accadere, in generale

- un ‘nutrimento’ culturale vastissimo, (come già evidenziato in precedenti mie recensioni di altre sillogi della Bove), che non smette mai di essere  metabolizzato in modi sempre nuovi

- e, certamente fondante della poetica boviana, il sentimento di comunione profonda con ogni aspetto dell’universo (condiviso con Walt Whitman, in Foglie d’erba).

E già, il mondo! Tutto quello che Cristina pone sotto la sua lente poetica di ingrandimento, è il mondo nella sua stanza: → ricordi visioni sogni parole illusioni immagini, tutto passato al vaglio attraverso quell’in_certo ‘diaframma’ del suo pensiero, anche mentre se ne sta a fare altro… (solo un esempio, Poi la nave bianca, pag. 79)

Ma ad andare ancora più in profondità nell’analizzare le poesie di Cristina Bove si rischia, di nuovo, non di non comprendere, ma di essere certi di aver compreso bene quel che voleva dire e nello stesso istante essere certi che voleva dire anche altro, perché la sua è la poetica del dire-non dire (come molto ben esplicitato ne’ L’oscuro lato della poesia, pag. 51).

Una sfida per il lettore, e forse anche una sfida per la stessa poetessa.

domenica 11 febbraio 2018

il mio Romanzo

cover-def-una-per-mille_cristina-bove_solo-prima

Autore: Cristina Bove
Editore: FusibiliaLibri
Collana: diorama (collana di prosa)
Anno 2016
pp. 176
formato 17×17
14,00 euro
ISBN 9788898649365
Prefazione di Franco Romanò
disponibile su fusibilia@gmail.com
spese di spedizione a carico di Fusibilia

giovedì 13 luglio 2017

lunedì 12 gennaio 2015

Cristina Annino recensisce "Una per mille"

Il doppio Volo



Uno sdoppiamento di personalità implica due verbi, due stati, due tipi di pensiero e via via crescendo, due persone. Qualunque cosa si raddoppi, metaforicamente, non può essere concepita ferma, crea un movimento di volume che prende il volo o casca, ma sempre da un punto basso o alto di vuoto.
Cristina Bove, dai suoi 18 anni in poi o forse da sempre, si è costantemente sentita nel vuoto e, per i motivi personali che sappiamo, è riuscita a fare di questo vuoto, un suo ambiente mobile. Da qui alla scrittura, il passo è immediato. Lei è un’artista e ha saputo rendere col suo romanzo, un concreto Dono tangibile, vissuto anche con canoni di normalità che allora assumono i segni di un paradosso in terra, altrimenti detto miracolo.
Non dobbiamo avere paura delle definizioni, come Bove non ha mai avuto paura della vita e della non vita. In lei non c’è mai stata paura, perché la sospensione reale in cui si trovava la poneva dentro e fuori, sopra e sotto qualsiasi stabilità morale cercata dai più e ritenuta indispensabile allo svolgimento di un’esistenza umana. Davvero non è detto – qui sta l’insegnamento che ci dà, il dito indicativo che segnala verbi, stati nominali alternativi. E noi dobbiamo non solo immaginarli, ma crederci.
Tutto il romanzo autobiografico è trascinato da quel volo, senza che Bove esprima giudizi su di sé, bensì ci sono tante riflessioni sul mondo, sui pensieri che formano un certo costume morale, sulla storia collettiva. È un romanzo soprattutto di pensiero direi, perché ci insegna come possa diventare pensiero positivo o educazione della mente, il non temere una convivenza nostra con l’indicibile altro che, ci piaccia o no, sempre ci abita e spesso ci determina.

Lei non ha mai temuto il viaggio verso la fine e il ritorno verso il principio, come fosse una speciale facoltà datale dalla natura. Si è alti, si è bassi, si è simili, si è anche talmente differenti! La natura che fa di noi corpi stabili, gioca dei cambiamenti a volte fortunatamente solo in chi può sopportarli. E lei ha sopportato tutto senza stupore, senza recriminazioni, accettando ciò che poteva depositare in terra (figli, matrimonio) nei momenti in cui il volo radeva la vita normale, poi alzandosi di nuovo in volo o precipitando. Non importa se per altra malattia, disastri, lei era su quella spira insondabile e non ha mai provato paura.
La paura, io credo, deriva dal pensare che fuori da una linea ferma o retta esista il male come differenza inconoscibile, ma la natura stavolta benigna con lei, le ha dato le coordinate di volo, l’intelletto per capire e adeguarsi. Le ha perciò tolto paura.

Romanzo estremamente originale che riproduce con fedeltà semplice e ricca, quella sua “diversità” rispetto alla vita degli uomini, quello scandirsi con naturalezza, l’accettarsi perché così è voluto chissà dove e lei è stata solo l’occasione fisica per concretare un pensiero forse divino, forse solo naturale, forse anche unico, ma comunque importante per farci riflettere sul fatto che non esistono differenze, qui nella terra e altrove, bensì situazioni di una tale complessità intelligente che vanno oltre quell’intelligenza appunto generica che è l’intelletto umano. Oppure l’ordinaria volontà di ammettere che ogni dilatazione di senso è sottrazione di canone, di ordine, e non di “sapere”.
Ne derivano allora due fatti, uno vitale, autobiografico, e uno letterario. Diversità di vita che porta a diversità di struttura narrativa, e che in questo romanzo è fattore emblematico. Ci sarebbe un'ulteriore disamina da fare che forse esula dalla precisa lettura del testo, il quale rende traghettabile la prima grazie alla propria maggiore chiarezza. Basterà allora dire come qui, nel libro di Cristina Bove, è evidente l’intreccio dei due motori, formale e di esistenza, verità e riproduzione stilistica, e quanto misero sia il giudizio di chi perde di vista la somma dei due.



Cristina Annino






domenica 11 gennaio 2015

nota critica di Narda Fattori




Biografia e identità

In tanti conosciamo Cristina Bove come poetessa raffinata, pittrice coloristica, fotografa specialistica; la conosciamo e la apprezziamo per la sua inesausta ricerca di un senso che giustifichi la vita e la renda bella e pacificata.
Ora Cristina si è cimentata con la prosa, scrittura lontana dalla poesia, dilatata nel tempo e nel contenuto; prova nuova, anche pericolosa per chi ha un curricolo d’artista consolidato come il suo.
Ma per Cristina la scrittura è farmaco e quindi è con grazia che considera la parola e il periodo narrativo; con amore va a rovistare fra i suoi ricordi e gli eventi che le hanno attraversato la vita. per dirci a chiare lettere chi sia e che non è diversa da tante altre donne che non hanno avuto la sua determinazione e la sua forza.
Il titolo è accogliente, non dice “una su mille” ma “una per mille” e mille e di più sono le donne che possono riconoscersi in un frammento della sua storia.
Il libro, di carattere autobiografico, gioca con la successione temporale degli eventi, direi che va per suggestione, per brain-storming e quindi, pur rendendosi facilissimo da leggere, saltabecca di fatto in fatto, di luogo in luogo, da emozione ad emozione.
E’ un volume che ha le caratteristiche della sua arte: sfugge al determinismo degli eventi, abbraccia i mali perché così perdono gli aculei più pungenti, non si autocensura né si auto blandisce, riporta alla superficie il percorso interiore psicologico e religioso attraverso il quale è pervenuta a una specie di verità orientale che la vede nella sua integrità di persona e che le consente di vedere con la stessa luce gli altri attorno a sé.
Ogni tanto la narrazione cessa e l’autrice interviene con un io narrante presente che aiuta a fare chiarezza al lettore, su passaggi filosofici molto personali.
La scrittura di un libro biografico è sempre pericolosa perché può facilmente cedere all’autocompiacimento,  a sovrastare le figure che accompagnano le storie rendendole misere e di poco conto, o, al contrario, queste si possono impadronire della storia relegando l’autore a spettatore.
Questi pericoli sono evitati tutti: la protagonista, pur saltabeccando fra gli anni e gli eventi, tiene sempre sotto un occhio benevolo i coprotagonisti; ciò che la riguarda direttamente non finge né ingigantisce anche se alcuni episodi colti fra veglia e sonno possono sembrare esaltati; soltanto continuando la lettura possiamo collocarli nelle giuste dimensioni sul tracciato della vita di Cristina.
Sarà proprio grazie a questo andament “ jazzistico” che il libro si legge di getto e se ne conservano gli umori gentili, i ricordi duri, e quelli solidali, il trapassare della fragilità in forza, della sensibilità in amore disarmato e disarmante.
C’è tanta poesia celata negli eventi tragici e/o amorosi, si percepisce una persona limpida,
ricca di verità e di accoglienza.

Narda  Fattori

sabato 10 gennaio 2015

Nota critica di Andrea Poletti

su Una per mille



Il tuo libro ha qualcosa di Vincenzo Consolo,  Le pietre di Pantalica, nello specifico. Ha radici profondissime nel tempo e nella parola. La tua prosa è un duello continuo con le sonorità più profonde e lascia sul campo figure retoriche prostrate, prive di qualsiasi rilievo sintattico, operi sulla singola proposizione come Meneghello... O De Luca. Entrambi figli di Petrarca. 
È come se usassi le parole quali pietre focaie, quelle che producono scintille dal loro sfregamento e godono di un'immunità particolare:  le figure classiche: sineddoche, enjambement, chiasmo, etc. cedono tutte il passo a sinestesie e onomatopee che però mutano in metronomi delle sensazioni,  la musica prende il sopravvento sulla struttura e le catene danzano finché ogni cliché retorico abdica esausto alla propria funzione.
C'è qualcosa di ancestrale nella tua scrittura, una danza della memoria a cui l'elemento maschile si può solo affacciare ma mai addentrare, pena la perdita della propria identità di genere. Si prova sovente una sensazione di vertigine leggendoti e non è sempre un'esperienza salutare. Tocchi dei nodi che non si sciolgono se non vengono tagliati ed una sorta di trauma è destinato a ripetersi così come nella poetica di Yeats.
Tu parli di ferite ctonie che mai si rimargineranno, non c'è tempo né anima che possa compiere questo miracolo. Esiste solo un destino: ripetere questo doloroso tableau vivant all'infinito, ricordandolo.
Leggerti è stato sconcertante come ogni letteratura che sia degna di questo nome.
Dirti se mi sia piaciuto... ecco, diciamo che il tuo è uno dei rari libri per cui verrebbe piuttosto da chiedersi "ma io sarò piaciuto a lui?"

Andrea Poletti

Anna Maria Curci - Una per mille

Una per mille

 
Raccontare la vita nelle sue manifestazioni più diverse: se questa formula, da un lato, riassume ciò che pungola chi scrive e attrae chi legge, essa non spiega, dall’altro, le ragioni dell’impronta forte e durevole che determinate narrazioni sanno consegnare all’immaginario e alla memoria. Dice il contenuto, l’oggetto della narrazione, ma non ne dispiega il come. È il come si racconta, ovviamente, a fare la differenza; qui non contano le ricette a buon mercato, le pillole di saggezza anche recentemente dispensate via tubo catodico, le messe in guardia dall’autobiografismo e le distillazioni varie – con l’erborista ovvero dispensatore di grappa letteraria di turno in versione “Così parlò…” – di sottili distinguo circa realismo, verosimiglianza, scelta e trattazione della materia grezza narrativa. È la verità a fare la differenza, quella che Albertine, nel finale di Doppio sogno di Schnitzler, tiene ben distinta dalla semplice realtà, fosse anche la realtà di un’intera vita umana: nel romanzo di Cristina Bove è la verità a guidare sguardo e resoconto, rievocazioni e considerazioni.
Tornando, tuttavia, all’enunciato iniziale di questa nota, è necessario qui innanzitutto porre al plurale l’oggetto della narrazione, perché non di una vita si parla, ma di tante vite, delle linee successive o parallele di chi narra, che si definisce, come recita esplicitamente il titolo, Una per mille. È, inoltre, delle vite altrui che si intesse, procedendo nella narrazione, la trama del romanzo. Sono le esistenze altrui, che attraversano ovvero che rendono sempre piena di sorprese, nutrendola perfino, come nel caso dei quattro figli, la vita (le vite) dell’io narrante. Al plurale sono prese in considerazione, ancora, le dimensioni dell’esistenza, con un’attenzione rivolta all’altro da sé, all’altrove, a modalità ‘altre’ di accesso alla conoscenza, alla dialettica tra istinto naturale e coscienza.

Il duetto tra le due voci più in vista, nell’esistenza così come nella scrittura, dell’io narrante – lo sdoppiamento, si badi bene, è solo una delle sue manifestazioni - accompagna, disegnandone l’articolazione, lo scorrere di eventi narrati, pensieri e ricordi. Si intreccia con considerazioni, sorridenti e ironiche, autoironiche, sul padroneggiare, scrivendo, la materia narrativa.
I luoghi, Napoli, Roma, i colli Albani, Tunisia, Israele, Costarica, serbano e riportano con la forza della verità tutte le vite che li hanno attraversati.
Chi legge, si congeda dall’io narrante con riconoscenza, con un arrivederci e, nell’attesa della prosecuzione del cammino, si volge, tornando indietro, all’incipit del romanzo, bellezza e verità:

«L’uomo nero era il carbonaio del fondaco di via San Gregorio Armeno. Viveva nella stalla con i cavalli alti e neri, sempre a masticare biada con la testa nel sacco. Lui invece il sacco lo portava sulla testa a fargli da cappuccio fino alla schiena.
   Sua moglie, guercia e butterata, vendeva il ghiaccio in un grottino seminterrato.
La bambina aspettava che lo grattasse dal lingottone traslucido e ne riempisse il bicchiere di carta, poi la spruzzata di cedro o granatina. Meglio ancora solo ghiaccio, ché poi la nonna ci metteva le amarene sciroppate.»


Anna Maria Curci

 Una per mille
nuova edizione - Fusibilia
per acquistarlo:
http://www.fusibilia.it/?p=4501