domenica 11 febbraio 2018
il mio Romanzo
Autore: Cristina Bove
Editore: FusibiliaLibri
Collana: diorama (collana di prosa)
Anno 2016
pp. 176
formato 17×17
14,00 euro
ISBN 9788898649365
Prefazione di Franco Romanò
disponibile su fusibilia@gmail.com
spese di spedizione a carico di Fusibilia
giovedì 13 luglio 2017
recensione di Paola Cingolani
https://lementelettriche.wordpress.com/2017/07/03/una-per-mille-di-cristina-bove/
lunedì 12 gennaio 2015
Cristina Annino recensisce "Una per mille"
Il doppio Volo
Uno sdoppiamento di personalità implica due verbi, due
stati, due tipi di pensiero e via via crescendo, due persone. Qualunque cosa si
raddoppi, metaforicamente, non può essere concepita ferma, crea un movimento di
volume che prende il volo o casca, ma sempre da un punto basso o alto di vuoto.
Cristina Bove, dai suoi 18 anni in poi o forse da sempre, si
è costantemente sentita nel vuoto e, per i motivi personali che sappiamo, è
riuscita a fare di questo vuoto, un suo ambiente mobile. Da qui alla scrittura,
il passo è immediato. Lei è un’artista e ha saputo rendere col suo romanzo, un concreto Dono tangibile,
vissuto anche con canoni di normalità che allora assumono i segni di un paradosso
in terra, altrimenti detto miracolo.
Non dobbiamo avere paura delle definizioni, come Bove non ha
mai avuto paura della vita e della non
vita. In lei non c’è mai stata paura, perché la sospensione reale in cui si
trovava la poneva dentro e fuori, sopra e sotto qualsiasi stabilità morale
cercata dai più e ritenuta indispensabile allo svolgimento di un’esistenza
umana. Davvero non è detto – qui sta l’insegnamento che ci dà, il dito
indicativo che segnala verbi, stati nominali alternativi. E noi dobbiamo non
solo immaginarli, ma crederci.
Tutto il romanzo autobiografico è trascinato da quel volo, senza che Bove esprima giudizi su
di sé, bensì ci sono tante riflessioni sul mondo, sui pensieri che formano un
certo costume morale, sulla storia collettiva. È un romanzo soprattutto di
pensiero direi, perché ci insegna come possa diventare pensiero positivo o
educazione della mente, il non temere una convivenza nostra con l’indicibile altro che, ci piaccia o no, sempre ci
abita e spesso ci determina.
Lei non ha mai temuto il viaggio verso la fine e il ritorno
verso il principio, come fosse una speciale facoltà datale dalla natura. Si è
alti, si è bassi, si è simili, si è anche talmente differenti! La natura che fa
di noi corpi stabili, gioca dei cambiamenti a volte fortunatamente solo in chi
può sopportarli. E lei ha sopportato tutto senza stupore, senza recriminazioni,
accettando ciò che poteva depositare in terra (figli, matrimonio) nei momenti in
cui il volo radeva la vita normale, poi alzandosi di nuovo in volo o precipitando.
Non importa se per altra malattia, disastri, lei era su quella spira
insondabile e non ha mai provato paura.
La paura, io credo, deriva dal pensare che fuori da una
linea ferma o retta esista il male
come differenza inconoscibile, ma la natura stavolta benigna con lei, le ha
dato le coordinate di volo, l’intelletto per capire e adeguarsi. Le ha perciò
tolto paura.
Romanzo estremamente originale che riproduce con fedeltà
semplice e ricca, quella sua “diversità” rispetto alla vita degli uomini, quello
scandirsi con naturalezza, l’accettarsi perché così è voluto chissà dove e lei
è stata solo l’occasione fisica per concretare un pensiero forse divino, forse
solo naturale, forse anche unico, ma comunque importante per farci riflettere
sul fatto che non esistono differenze, qui nella terra e altrove, bensì
situazioni di una tale complessità intelligente
che vanno oltre quell’intelligenza appunto generica che è l’intelletto umano.
Oppure l’ordinaria volontà di ammettere che ogni dilatazione di senso è sottrazione
di canone, di ordine, e non di “sapere”.
Ne derivano allora due fatti, uno vitale, autobiografico, e
uno letterario. Diversità di vita che porta a diversità di struttura narrativa,
e che in questo romanzo è fattore emblematico. Ci sarebbe un'ulteriore
disamina da fare che forse esula dalla precisa lettura del testo, il quale
rende traghettabile la prima grazie alla propria maggiore chiarezza. Basterà allora dire come qui, nel
libro di Cristina Bove, è evidente l’intreccio dei due motori, formale e di
esistenza, verità e riproduzione stilistica, e quanto misero sia il giudizio di
chi perde di vista la somma dei due.
domenica 11 gennaio 2015
nota critica di Narda Fattori
Biografia e identità
In
tanti conosciamo Cristina Bove come poetessa raffinata, pittrice coloristica,
fotografa specialistica; la conosciamo e la apprezziamo per la sua inesausta
ricerca di un senso che giustifichi la vita e la renda bella e pacificata.
Ora
Cristina si è cimentata con la prosa, scrittura lontana dalla poesia, dilatata
nel tempo e nel contenuto; prova nuova, anche pericolosa per chi ha un
curricolo d’artista consolidato come il suo.
Ma
per Cristina la scrittura è farmaco e quindi è con grazia che considera la
parola e il periodo narrativo; con amore va a rovistare fra i suoi ricordi e
gli eventi che le hanno attraversato la vita. per dirci a chiare lettere chi
sia e che non è diversa da tante altre donne che non hanno avuto la sua determinazione
e la sua forza.
Il
titolo è accogliente, non dice “una su mille” ma “una per mille” e mille e di
più sono le donne che possono riconoscersi in un frammento della sua storia.
Il
libro, di carattere autobiografico, gioca con la successione temporale degli
eventi, direi che va per suggestione, per brain-storming e quindi, pur
rendendosi facilissimo da leggere, saltabecca di fatto in fatto, di luogo in
luogo, da emozione ad emozione.
E’
un volume che ha le caratteristiche della sua arte: sfugge al determinismo
degli eventi, abbraccia i mali perché così perdono gli aculei più pungenti, non
si autocensura né si auto blandisce, riporta alla superficie il percorso
interiore psicologico e religioso attraverso il quale è pervenuta a una specie
di verità orientale che la vede nella sua integrità di persona e che le
consente di vedere con la stessa luce gli altri attorno a sé.
Ogni tanto la narrazione
cessa e l’autrice interviene con un io narrante presente che aiuta a fare
chiarezza al lettore, su passaggi filosofici molto personali.
La scrittura di un libro
biografico è sempre pericolosa perché può facilmente cedere
all’autocompiacimento, a sovrastare le
figure che accompagnano le storie rendendole misere e di poco conto, o, al
contrario, queste si possono impadronire della storia relegando l’autore a spettatore.
Questi pericoli sono evitati
tutti: la protagonista, pur saltabeccando fra gli anni e gli eventi, tiene
sempre sotto un occhio benevolo i coprotagonisti; ciò che la riguarda
direttamente non finge né ingigantisce anche se alcuni episodi colti fra veglia
e sonno possono sembrare esaltati; soltanto continuando la lettura possiamo
collocarli nelle giuste dimensioni sul tracciato della vita di Cristina.
Sarà proprio grazie a questo
andament “ jazzistico” che il libro si legge di getto e se ne conservano gli
umori gentili, i ricordi duri, e quelli solidali, il trapassare della fragilità
in forza, della sensibilità in amore disarmato e disarmante.
C’è tanta poesia celata negli
eventi tragici e/o amorosi, si percepisce una persona limpida,
ricca di verità e di
accoglienza.
Narda Fattori
sabato 10 gennaio 2015
Nota critica di Andrea Poletti
su Una per mille
Il tuo libro ha qualcosa di
Vincenzo Consolo, Le pietre di Pantalica, nello specifico. Ha radici
profondissime nel tempo e nella parola. La tua prosa è un duello continuo con
le sonorità più profonde e lascia sul campo figure retoriche prostrate, prive
di qualsiasi rilievo sintattico, operi sulla singola proposizione come Meneghello...
O De Luca. Entrambi figli di Petrarca.
È come se usassi le parole quali pietre
focaie, quelle che producono scintille dal loro sfregamento e godono di
un'immunità particolare: le figure
classiche: sineddoche, enjambement, chiasmo, etc. cedono tutte il passo a
sinestesie e onomatopee che però mutano in metronomi delle sensazioni, la musica prende il sopravvento sulla
struttura e le catene danzano finché ogni cliché retorico abdica esausto alla
propria funzione.
C'è qualcosa di ancestrale nella
tua scrittura, una danza della memoria a cui l'elemento maschile si può solo
affacciare ma mai addentrare, pena la perdita della propria identità di genere.
Si prova sovente una sensazione di vertigine leggendoti e non è sempre
un'esperienza salutare. Tocchi dei nodi che non si sciolgono se non vengono
tagliati ed una sorta di trauma è destinato a ripetersi così come nella poetica
di Yeats.
Tu parli di ferite ctonie
che mai si rimargineranno, non c'è tempo né anima che possa compiere questo
miracolo. Esiste solo un destino: ripetere questo doloroso tableau vivant
all'infinito, ricordandolo.
Leggerti è stato
sconcertante come ogni letteratura che sia degna di questo nome.
Dirti se mi sia piaciuto...
ecco, diciamo che il tuo è uno dei rari libri per cui verrebbe piuttosto da
chiedersi "ma io sarò piaciuto a lui?"
Andrea Poletti
Anna Maria Curci - Una per mille
Una per mille
Raccontare la vita nelle sue manifestazioni più diverse: se questa
formula, da un lato, riassume ciò che pungola chi scrive e attrae chi
legge, essa non spiega, dall’altro, le ragioni dell’impronta forte e
durevole che determinate narrazioni sanno consegnare all’immaginario e
alla memoria. Dice il contenuto, l’oggetto della narrazione, ma non ne
dispiega il come. È il come si racconta, ovviamente, a fare la
differenza; qui non contano le ricette a buon mercato, le pillole di
saggezza anche recentemente dispensate via tubo catodico, le messe in
guardia dall’autobiografismo e le distillazioni varie – con l’erborista
ovvero dispensatore di grappa letteraria di turno in versione “Così
parlò…” – di sottili distinguo circa realismo, verosimiglianza, scelta e
trattazione della materia grezza narrativa. È la verità a fare la
differenza, quella che Albertine, nel finale di Doppio sogno di
Schnitzler, tiene ben distinta dalla semplice realtà, fosse anche la
realtà di un’intera vita umana: nel romanzo di Cristina Bove è la verità
a guidare sguardo e resoconto, rievocazioni e considerazioni.
Tornando, tuttavia, all’enunciato iniziale di questa nota, è necessario
qui innanzitutto porre al plurale l’oggetto della narrazione, perché
non di una vita si parla, ma di tante vite, delle linee successive o
parallele di chi narra, che si definisce, come recita esplicitamente il
titolo, Una per mille. È, inoltre, delle vite
altrui che si intesse, procedendo nella narrazione, la trama del
romanzo. Sono le esistenze altrui, che attraversano ovvero che rendono
sempre piena di sorprese, nutrendola perfino, come nel caso dei quattro
figli, la vita (le vite) dell’io narrante. Al plurale sono prese in
considerazione, ancora, le dimensioni dell’esistenza, con un’attenzione
rivolta all’altro da sé, all’altrove, a modalità ‘altre’ di accesso alla
conoscenza, alla dialettica tra istinto naturale e coscienza.
Il duetto tra le due voci più in vista, nell’esistenza così come nella
scrittura, dell’io narrante – lo sdoppiamento, si badi bene, è solo una
delle sue manifestazioni - accompagna, disegnandone l’articolazione, lo
scorrere di eventi narrati, pensieri e ricordi. Si intreccia con
considerazioni, sorridenti e ironiche, autoironiche, sul padroneggiare,
scrivendo, la materia narrativa.
I luoghi, Napoli, Roma, i colli Albani, Tunisia, Israele, Costarica,
serbano e riportano con la forza della verità tutte le vite che li hanno
attraversati.
Chi legge, si congeda dall’io narrante con riconoscenza, con un
arrivederci e, nell’attesa della prosecuzione del cammino, si volge,
tornando indietro, all’incipit del romanzo, bellezza e verità:
«L’uomo nero era il carbonaio del fondaco di via San Gregorio Armeno.
Viveva nella stalla con i cavalli alti e neri, sempre a masticare biada
con la testa nel sacco. Lui invece il sacco lo portava sulla testa a
fargli da cappuccio fino alla schiena.
Sua moglie, guercia e butterata, vendeva il ghiaccio in un grottino seminterrato.
Sua moglie, guercia e butterata, vendeva il ghiaccio in un grottino seminterrato.
La bambina aspettava che lo grattasse dal lingottone traslucido e ne
riempisse il bicchiere di carta, poi la spruzzata di cedro o granatina.
Meglio ancora solo ghiaccio, ché poi la nonna ci metteva le amarene
sciroppate.»
Anna Maria Curci
Una per mille
nuova edizione - Fusibilia
per acquistarlo:
http://www.fusibilia.it/
venerdì 9 gennaio 2015
Recensione di M.Carmen Lama
Cristina Bove - Una per mille
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http://www.fusibilia.it/ ?p=4501
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«Un romanzo autobiografico scritto sul filo dei ricordi»
Anche nel campo letterario c’è
movimento, aspirazione a cambiamenti, in sintonia con il tempo tecnologico in
cui viviamo, nel quale ci siamo e non ci siamo, dentro al quale non riusciamo a
percepire la nostra stessa consistenza, non riuscendo a tenere i piedi per
terra una volta per tutte.
E quando ci sembra di avere
raggiunto una meta, che si tratti di apprendimento di nuove conoscenze o si
tratti di nuove relazioni amicali, ecco intervenire delle novità inaspettate
dalle quali si è inconsapevolmente proiettati in nuove dimensioni o ricacciati
in habitat sconosciuti, sebbene quasi tradizionali.
Ebbene, sensazioni simili
possono essere sperimentate anche leggendo nuovi romanzi.
Quello di Cristina Bove che mi
accingo a recensire ne è un esempio. Molto interessante, tra l’altro, perché
del tutto singolare.
Tuttavia, di una singolarità
anche plurale. E già dal titolo se ne può percepire il senso.
Una e mille. Dà l’idea di una
rifrazione prismatica di colori e, seguendo quanto recita una significativa
poesia di Emily Dickinson, “il prisma non
trattenne mai i colori, li udì solo
giocare”, ci sentiamo -contemporaneamente all’autrice- trasportati, dalle
mille rifrazioni prodotte dal prisma, da un colore all’altro dei ricordi, che
nella strategia d’insieme del romanzo, fungono da tessere sparpagliate di un
puzzle (un gioco in piena regola, dunque…) e richiedono una loro precisa
collocazione.
Ma, si badi bene, non una
collocazione in ordine cronologico che potrebbe risultare noiosa quanto
scontata, bensì una collocazione che dia luogo all’immagine di una vita e che
possa essere scomposta e ricomposta molte volte, ricostruendo ogni volta
immagini diverse e tutte aventi pieno diritto ad essere prese per buone, perché
esplicative di un senso profondo di un’esistenza.
Al punto che, dopo la prima
lettura seguendo l’ordine dei capitoli, si possono sperimentare altre modalità
di lettura seguendo soltanto il proprio istinto, partendo ad esempio da una
frase che colpisce per l’immediatezza e la veridicità dell’esperienza narrata. Oppure
seguendo un ordine del tutto personale, a seconda del sentire del momento. E
non occorre pertanto neanche il rimando (che sarebbe in qualche modo forzato)
da parte dell’autrice, da un capitolo ad un altro preordinato, come è nel
romanzo di Julio Cortázar, Il gioco del
mondo (Rayuela).
Una caratteristica che balza
immediatamente agli occhi, dopo la lettura dei primi capitoli, è una sorta di
sdoppiamento della narratrice e protagonista delle vicende raccontate, che è
evidenziato dalla scrittura normale alternata a scrittura in carattere corsivo.
È una modalità, questa, a cui non siamo
abituati. È come se ci fossero effettivamente due autrici e due protagoniste,
la cui vita, peraltro, “si frammenta in mille pezzi”, a volte nel senso
letterale dell’espressione, per risultare alla fine una composizione armonica,
come fosse un brano musicale.
Per restare nell’ambito della
metafora musicale, vorrei sottolineare come la melodia che risuona nell’aria,
pur composta da note a volte dissonanti (ad esempio, quando l’autrice narra
eventi traumatici o tragici), non stride, ma segue l’andamento e l’effetto di
quel che sta accadendo.
Come quando si ascolta La mère
di Debussy, per intenderci. Laddove la musica rigenera le onde tempestose e,
mentre si è consapevoli che si sta ascoltando un brano musicale, pur tuttavia
si ha netta e vivida l’impressione di trovarsi su una spiaggia ad ascoltare il
rumore assordante e continuo delle onde che si accavallano minacciose.
È un romanzo con colori
cangianti, proprio come la superficie del mare in una giornata primaverile.
Cristina Bove, inoltre, come
Gabriel Garcìa Márquez, con il suo “Vivere per raccontarla”. Con gli opportuni
distinguo, perché Cristina non ha vissuto e non vive per scrivere, ma scrive
per vivere.
E questo romanzo è stato il
suo primo esercizio di vita, in prosa poetica, che ha rappresentato una sorta
di sfida con se stessa mentre costituiva una sorta di gioco virtuale con il
quale intratteneva piacevolmente i suoi lettori più assidui e affezionati, come
la sottoscritta.
Ma la novità e l’originalità
del romanzo non potevano passare inosservate.
Cosicché la proposta della
pubblicazione da parte delle Edizioni Smasher costituisce certamente un giusto
riconoscimento del valore di un’artista quale dimostra di essere Cristina, in
ogni campo nel quale si cimenta.
Ma torniamo all’analisi degli
aspetti salienti e originali del romanzo.
I dialoghi e la struttura
complessiva, ad esempio.
Quanto ai dialoghi,
colpisce la sequenza scarna, priva di riferimenti ai singoli interlocutori e
alle rispettive frasi, pur tuttavia, non solo si coglie chiaramente chi sta
parlando e cosa dice esattamente, ma ci si coinvolge a tal punto nella
conversazione che sembra di essere presenti ad ascoltare, e basta solo muovere
lo sguardo dall’uno all’altro per non perdere neppure quegli elementi
psicoinconsci dei parlanti che completano il senso vero e profondo del discorso,
come i gesti o il tono della voce.
La struttura del
romanzo la definirei a cerchi concentrici e concatenati. Se ne prende coscienza
man mano, ma se ne ha conferma ovviamente al termine del romanzo.
In qualche sezione alcuni
cerchi si sovrappongono parzialmente, e ciò avviene ad esempio, quando si
riprende un ricordo e lo si rigira da un altro lato, mostrandone una diversa
sfaccettatura. Può essere identico il luogo, o uno dei personaggi, ma cambia il
fatto narrato. E questa peculiarità corrisponde, credo, ad una vera e propria
strategia narrativa, che non solo consolida i legami tra i vari capitoli, ma
serve anche a tenere desta l’attenzione del lettore e il suo coinvolgimento,
anche emotivo.
Alcuni capitoli sarebbero da
analizzare a parte.
Verso la fine, ad esempio, c’è
un capitolo che mette i brividi. Si parla
di una seduta spiritica. Personalmente, sono molto scettica in questo campo,
penso a suggestioni o qualcosa di simile, ma non posso fare altro che credere a
tutto quello che è descritto, perché è troppo verosimile. Quantomeno... il modo
di raccontare tutta la scena è più che realistico, accidenti!!!
In un altro capitolo, introdotto semplicemente dal suono del campanello di casa, vi è una
interessante discussione / riflessione sulla religione e i suoi annessi e
connessi.
Mi ha fatto tornare alla mente un libro di Jung (Tipi psicologici) laddove
Jung colloca il mito religioso nel giusto alveo, il mito appunto, di cui l'uomo
da sempre si serve per necessità sua propria, tranne che, passati millenni e
millenni, dopo che la necessità individuale è stata condivisa e ne è scaturito
un mito collettivo, non si ha più memoria delle origini e si assume come dato
di fatto, prendere o lasciare.
Colpisce il modo in cui l’autrice ne parla perché si sente la piena
consapevolezza e convinzione delle sue affermazioni, compresa l’invenzione del
cestino cosmico e il click per eliminare, fosse solo possibile…!
Il romanzo si caratterizza poi anche per altri due aspetti importanti che
non voglio tralasciare.
Il primo è l’aspetto didascalico
che assumono alcuni capitoli e che si apprezza soprattutto perché se ne nota
l’assoluta “mancanza di intento”. L’autrice si limita, cioè, a
narrare e a riportare le sue osservazioni critiche o il suo modo di vedere le
circostanze e quel che le accompagna, comprese le conseguenze, e intanto appare
come affiorare in superficie un insegnamento che si può trarre da quanto
accaduto. Questa modalità, quasi inconsapevole, risulta leggera, non impositiva
e dunque particolarmente incisiva.
Il secondo è l’aspetto culturale,
anche questo non forzato, ma naturalmente consequenziale a quel che si sta
narrando. La sua importanza è rintracciabile nel fatto che, al di là del voler
esibire il proprio mondo formativo, (cosa che non è), se ne coglie tutta la
profondità e l’estensione, che peraltro è già evidente nel lessico fine, da
romanzo di alto livello culturale, appunto.
Con questo primo lavoro in prosa, per quanto fin qui evidenziato,
collocherei in modo quasi naturale l’autrice nell’ambito delle seguenti
riflessioni, scritte da me in altra occasione:
«Nel breve intervallo dell’esistenza, ciascuno di noi assume delle
caratteristiche comportamentali proprie trasmesse inizialmente dall’ambiente
familiare, ma assorbite anche dal contesto
sociale a partire dall’infanzia e, in modi inconsci, anche nell’età
adulta, quando si crede di essere invulnerabili, di avere delle opinioni
personali o delle idee da difendere e sostenere.
In realtà, siamo immersi in una miriade di relazioni che ci sottopongono a specifiche reazioni, spesso diverse a seconda dell’interlocutore, anche su
fatti o argomenti identici.
Eppure ogni individuo si riconosce come se fosse dotato di una
specifica identità, che gli appartiene e lo fa essere quale è.
Noi stessi teniamo a distinguerci dagli altri per la nostra specifica
personalità che a volte identifichiamo quasi con l’ambiente di vita e crediamo
di essere come siamo per aver introiettato i più minuti dettagli del nostro
ambiente anche naturale, oltre che sociale; pensiamo di essere un po’ anche i
luoghi da dove veniamo, i luoghi che amiamo, quelli da cui abbiamo ricevuto una
sorta di imprinting.
Dal punto di vista psicologico, appare rassicurante sostenere che si ha
(si è) una precisa identità. È come se si fosse attrezzati per sostenere le
sfide più impegnative e difficili della vita.
E invece, bisognerebbe ricordare la lezione di Henri Louis Bergson: In ogni istante della nostra vita noi siamo
diversi, ci cambiano le coordinate spazio temporali, in funzione della resistenza
della vita sulla morte. Per questo
continuiamo ad evolvere, fino al raggiungimento di una “maturità tragica”».
(La tragicità sta ovviamente
nel comune destino di tutti gli esseri umani).
Cristina Bove incarna
precisamente questa pluralità, pur nel continuare ad essere quell’una che è.
Questa una e
mille Cristina (immersa/e nel romanzo che rispecchia la sua poliedrica
vita) segue un percorso lineare o accidentato, (a seconda dei punti di vista
sulle cose di volta in volta narrate), che è sempre coinvolgente, a diversi
livelli: nell'apparente passaggio senza un legame cronologico da un fatto a un
altro, c'è invece un nesso che chiamerei "memoriale", nel doppio
significato del termine.
In primo luogo, perché la memoria passa
tranquillamente da un fatto a un altro, soltanto grazie a un'associazione di
un'immagine o di una parola o di un'atmosfera o altro, seguendo in questo
percorso il movimento imprevedibile pel pensiero.
In secondo luogo, perché alla fine ne viene fuori un
vero e proprio memoriale.
Molto bella e poetica, inoltre, è anche la creazione
del suo mondo fittizio, parallelo alla vita reale. Anche in questo caso, non è
la bellezza in sé del mondo inventato che colpisce, bensì il fatto che il tutto
rimanda mentalmente alla mente che ci sta dietro, alla creatività dell'altra
mente (quella dell’autrice) e si resta come in apnea.
Ma nonostante questi continui sbalzi dal reale al
virtuale al fantastico, e sbalzi anche spaziotemporali, Cristina Bove segue una
sua bussola mentale e procede sicura senza mai smarrirsi nel labirinto in cui si muove,
senza perdere il filo che la condurrà all’uscita. Che anche in questo punto è
peculiare: perché il suo è un romanzo che non ha ancora la sua fine.
Al lettore il compito di
immaginare… di andare avanti e oltre… accompagnando Cristina, con piacere e
sintonia, in questa sua originale e avvincente avventura intellettuale e umana.
M. Carmen Lama, 22 novembre 2013
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