martedì 6 gennaio 2015

Laura Costantini

 su Una per mille"

Non è un romanzo.
Non è un'autobiografia.
È di più. Qualcuno ha detto che solo una poetessa poteva riuscire a rendere la poesia in prosa.
Un libro difficile. Molto personale. Eppure universalmente valido.
Una grande prova di scrittura che ammalia pur limitandosi a raccontare le pieghe di un'anima che vuole aprirsi a tutte le latre anime. E che regala una speranza dopo averle perse tutte.
La frase: "Ormai non sa più quando, e se, potrà essere scritta la parola fine, e questo è davvero straordinario." chiude il libro nel momento stesso in cui lo apre. Rendendocelo affine e necessario.

Gaetano Vergara (Aitan)



Cristina, ho appena finito di (ri-)leggere il tuo romanzo "Una per mille", confermando le buone impressioni che avevo avuto quando avevo scorso le anteprime che mandavi via blog.
È un romanzo/non-romanzo che racchiude la tua poliedricità di interessi, sentimenti e passioni; e scrivo romanzo/non-romanzo non tanto per la frammentarietà e la moltiplicazione dei punti di vista che lo contraddistinguono, ma per la voluta incompiutezza di quel finale/non-finale che si congeda dal lettore con quella "soluzione di continuità" che lascia ogni porta aperta, come nella vita reale (e non come nei romanzi, la cui caratteristica più peculiare è proprio il racchiudere gli eventi in un inizio e una fine; come tra parentesi).
"Ormai non sai più quando, e se, potrà essere scritta la parola fine, e questo è davvero straordinario."
Molte considerazioni te le avevo già mandate nei commenti del blog nel corso del tuo "work in progress"; aggiungo che i capitoli che mi hanno più intrigato e che mettono in mostra le diverse corde della tua scrittura sono il 31 (con quella felice alternanza della ricetta della "mesciueia" e il tuo quotidiano di donna), il 39 (in bilico tra metaletteratura, metafisica, considerazioni sull'arte e sulla religione), il 40 (umorismo puro) e il 43 (una summa di tutto quanto ho scritto nelle parentesi qui sopra).

G.V.

mercoledì 17 dicembre 2014

Metà del silenzio - Nota introduttiva di Anna Maria Curci




 Una mano sulla spalla, proprio là dove il dolore sordo e continuo accompagna i giorni, il tocco lieve e fermo: questo è per me l’incontro, che si rinnova con la raccolta Metà del silenzio, con la poesia di Cristina Bove. Quella mano potrebbe scrollare - ne ha tutta la forza e l’autorevolezza-  ma non lo fa; al contrario, quel tocco è l’invito alla sosta, alla riflessione, a un volteggio perfino, a condividere una danza, a percorrere un tratto di strada insieme. Quella mano e il suo tocco non possono essere disgiunti dagli occhi che la guidano, e quegli occhi guardano oltre, verso una dimensione altra. Attenzione, tuttavia: non ci troviamo dinanzi a una poesia che sfugge, spaurita e dimentica, il reale; semplicemente, lo attraversa, cogliendone orrori tanto palesi quanto palesemente ignorati dai più e, insieme, bellezze che si sottraggono alla superficialità e che non tutti, quindi, sono in grado di percepire. Viene spontaneo, dunque, l’accostamento a una raccolta precedente di Cristina Bove, Attraversamenti verticali, ma anche qui, come ogni volta mi accade, penso al superamento, che dell’attraversamento è compagno e affine e che ne costituisce una prosecuzione allo stesso tempo naturale e dettata da una volontà inconsueta.
Attraversamento e superamento, si diceva: sotto questa luce va letto, studiato, raccolto, il titolo del libro, che è poi anche il titolo di uno dei testi che la compongono: Metà del silenzio. Stavolta la pluralità, ancor più della duplicità del significato dell’insieme, diversamente da come avviene di solito nei titoli e nel corpo delle poesie di Cristina Bove (basti leggere, anche qui, d’altronde, i primi titoli: Con_sensi, Di_versi fuochi e, più avanti, Tra_scende_re, A(f)fondo) non è dichiarata e neanche suggerita, almeno non esplicitamente: essa emerge dalla lettura dei testi, cosicché è chi legge a chiedersi, dopo, se non sia percorribile il sentiero tracciato qui dall’autrice anche alla luce di un accento tolto. Dunque, non solo “metà”, una delle due parti, del silenzio, ma anche “meta”, traguardo,  del silenzio. Resta ancora aperta una terza accezione della prima parola, “metà”: quella che la ricollega alla preposizione che in greco antico reggeva proprio il caso genitivo e che apre la strada quindi a un’altra interpretazione del complemento espresso dalle parole “del silenzio”: insieme al silenzio, per mezzo del silenzio, oltre il silenzio, riflessione sul silenzio, attraversamento  e superamento grazie al silenzio?
Suggerisco, per affrontare il cammino in Metà del silenzio, questo viatico, vale a dire il tocco lieve e fermo della mano che ho dichiarato in apertura essere tratto distintivo della poesia di Cristina Bove. È un tratto semplice perché sceglie termini ed espressioni d’uso comune, e insieme complesso, perché sul significato dei termini di uso comune riflette, con piglio divertito e severo, piegando e dispiegando, mostrando e dimostrando che oltre l’uso comune si può andare, a patto che, appunto, lo si sia attraversato, con sguardo lucido, volontà e capacità critica.
Se il viatico è un tocco lieve e fermo della mano, il viaggio non teme di andare a fondo e di affrontare, nel tendersi oltre la soglia dell’immediatamente riconoscibile – e si torna qui alla dimensione ‘meta-“ – ciò che è ‘oltre’, che si pone ‘al di là’,  ciò che nella vita di superficie, nella ‘esistenza di galleggiamento’ viene accuratamente evitato, cancellato, ignorato e dunque, non senza una non più ingenua e senz’altro sbrigativa superstizione, taciuto.  Il passaggio a questa altra dimensione della conoscenza attraversa, e non salta a piè pari, esperienze dolorose di perdita, di allontanamento dal rassicurante, di divisione, di lacerazione e di «parole inferte». Un’esistenza di frontiera, questa, che è resa con andamento dei versi e termini che non temono il salto di tonalità – l’uso comune della lingua è affiancato da termini di minore frequenza, inusuali, ma mai inseriti per il mero fine dell’effetto ricercato, del preziosismo a tutti i costi – e il chiaroscuro spiazzante all’interno della composizione. Chi è l’io lirico? Acheronte il traghettatore, la fanciulla che in volo scopre verità, Dorothy dal Mago di Oz, la donna «dal dolore contratto», il fabbro che «spezza faville» (e che dà corpo al felice sospetto che l’associazione tra favilla e favella, tra lo spezzare faville e solcare favelle non sia soltanto efficace analogia, ma intento programmatico), colei che per una volta sceglie di essere Criptica, oppure colei che «da tempi infiniti» reca fiori? L’io lirico è tutti loro, ed è, ancora, qualcosa di più: assume forme molteplici – tratto questo che è proprio della poesia di Cristina Bove, come ebbi occasione di affermare a proposito della sua precedente raccolta Mi hanno detto di Ofelia – e si manifesta, come recita il titolo del romanzo di Cristina Bove, come Una per mille. L’intima coerenza, nel perenne mutamento e nell’attraversamento come valore che non esito a definire etico, sta nel tendere alla luce, nella ricerca, e non di rado nella percezione netta, di quello che il poeta Michael Krüger chiamò in una sua raccolta “il coro del mondo”. Raccolta del residuo, di ciò che altri scartano (“ma ciò che resta…” di Hölderlin risuona nelle orecchie) e contributo vivissimo a una nuova, insospettata armonia che si libra e libera; a chi legge non resta, ed è tanto, che accogliere l’invito che conclude la poesia Di voli e altri viaggi:  «Non fatela atterrare / portate via il frastuono / ha il sonno lieve / anche il frusciare minimo la desta. / sogna di porti e navi / di biglietti per dove».

© Anna Maria Curci




   Parole inferte

Sotto la chioma bruna
che parla in strato sferico
riferimenti in sovran_numero
si calano le fronti corrugate
strade d'asfalto accelerando il passo
non il respiro, quello
rimane appeso al chiodo.

E sbeffeggiare chi la vita stringe
filo di ferro infisso tra le vertebre
a consentirle transiti di scarto
- ecco un bacino idrico -
la ninfa delle ellissi
di quello che non ha ferisce a morte
ché se appena si approssima d'un cielo
bavero di cristallo
termina l'alfabeto nella forra
e nel suo manto nero sfoga l'urlo.

Io sono qui, mi accosto con prudenza
perché ho paura d'essere ferita
la millesima volta.
E sì che vorrei essere un abbraccio.

(p. 18)

Donna chissà...

Portale un guizzo di vita
   una lama diretta nel centro
   a infilzarle pensieri
oppure a mormorii
di sé precipitando che le strappa
il vestito
il chiaro-luna pelle
l'ansimo di un'ora resa insolita
se ti trema la voce
poi non chiudere a sassi l'apertura
non trafiggerne l'ombra.

le mani te le rendo
non sono indispensabili al morire.

(p. 21)
Acherontia

    Allora ti avvicini con la bocca
    alle cose sentite dire altrove
    che non sono le tue
    raccogli cenci
  spolveri le travi -  i ragni li farai infelici -
e se pronunci ancora altre parole
otterrai sei monete e due lustrini
di fandonie sgargianti
 
tu non conosci decerebrazione
l'essere solo corpo -  il pesce anfiosso -
il suono delle cellule che cade
transitorio
giù per accenti tonici

emerge da cunicoli
deflagrando crisalidi - l'atropa sfinge -
separata ristagna e si nasconde
sotto lemmi e cifrari
l'anima mia
per un destino d'ali.

(p. 32)

Almeno chiedersi

Ci sono tombe in cielo fatte di fumo
tante hanno misure piccole
portano solo nomi illeggibili
sono però nel cuore delle stelle

conservano la cenere degli uomini
i loro corpi mutilati e offesi
madri svuotate di bambini a sangue

c'erano scarpe a tonnellate
fuori dai forni, denti
occhiali una montagna
e ceste di capelli

prima d'essere fumo li spogliarono
d'identità e di pelle
se ne fecero tzanzas e paralumi:
chi scuoiava, conciava, a chi pareva logico
fare d'esseri umani suppellettili?

Più delle sentinelle
dei cavalli di frisia
del gelo e della fame
li uccise chi
non vedeva orrore
in quei bambini ossuti
strappati dalle braccia delle madri
chi non provava pena
per i corpi indifesi nella neve
e che li raccoglieva
per gettarli nel fuoco e nelle fosse

quelli per cui la strage fu normale.

Di quelli ancora è pieno il mondo
brandiscono randelli
e vorrebbero forni da sfamare.

(p. 40)

Criptica (della quale non do spiegazione)

S’inceppano dentro
ehm… colpi di tosse e un sorso
a mandar giù rospi di maggio
ma solo perché è maggio
se fosse stato agosto
rospi d’agosto.

Ti prende alla sprovvista
al nord dei desideri
iperborea presenza
- sapresti mai di me se non sentissi
il vuoto dell’assenza?-
esisto in quanto sono una mancanza.

Si arresta al filo dell’ascolto
chi non conosce la parola giusta
e crede che una capra
campi di più sopra la panca
o che le fisarmoniche soffrano di raucedine
e la natrice senza sibilare
rimanga nella nebbia.

(p. 46)
Di voli e altri viaggi

Una corazza d'anni arrugginiti
o cavalli di frisia
a protezione della carne tenera
si potrebbe spacciarla per culla
infiocchettarla di violamammola
e tanto per
appuntarle due spille a fior di labbra.

Gradisce la signora
nastri di taffettà?
E chi lo sa, se poi sfatta di cera
a una candela basta uno stoppino
- evitare tragedie, un piccolo bruciare
a colar via -

e la vedete infissa
dal millenovecentosessantuno
a volo d'angelo.

Non fatela atterrare
portate via il frastuono
ha il sonno lieve
anche il frusciare minimo la desta.
Sogna di porti e navi
di biglietti per dove.

(p. 48)
Donne

A quelle donne di meraviglie e fiori
quelle che silenziose fanno andare
casupole e favelas, figli portati sulle
spalle chine, lana pungente sulla pelle
dita affondate negli inverni
donne dismesse a ricamare perle
e chatouches per quelle fortunate.

Donne dai pianti occulti per i figli perduti,
donne dalle carezze rassegnate
sulle deformità dei loro nati e quelli d'altre.
Vanno con passo celere
più avanti della vita
più pietose del quadro sugli altari
che spiega nel suo ebete sorriso
quanto non fu mai loro e di quei figli abnormi,
l'opposto dei bei riccioli dipinti
e lineamenti rosa.

Donne delle catene di montaggio
recluse per un tralcio di mimosa
donne dei mille passi nel deserto
per un una goccia d'acqua
donne a scacciare mosche dai sorrisi
dei loro figli condannati a sete.
Donne vendute
donne vilipese

Qui ci piangiamo addosso
per uno specchio rotto, una sedia tarlata
solitudine in versi che dovrebbe
consacrarci poeti
roba che non soccorre i derelitti
che non reclama l'equità dovuta
e niente fa per togliere al potente
quello che ruba ai miseri.

Donne di ceri e cere
prigioniere d'inganni, occhi cuciti,
che al prete per figliare e per morire
pagano sempre il truogolo e l'ingrasso.
Spossessate del corpo, incubatrici
di vittime innocenti.
Madri di stupratori e santi
donne comunque e sempre.

(pp. 50- 51)
Guardami

potrei anche non esserci
nel buio sono o non sono
come il famoso gatto di Schrödinger
esisto solo se qualcuno osserva.

La logica dei quanti
sarà pure dei tanti compassati cervelli
espressa a formule
le nonmisure mie sulla lavagna

e_vasi comunicanti
per una fenditura
sangue a con_fondere
ti prometto quel bacio di carbonio
diamante a mezzanotte
solo se ti soffermi
alla sua luce.

(p. 57)

Di una poesia della raccolta, Dorothy e il mago, esiste una versione in tedesco:
Dorothy e il Mago

Non gridare se nasci d'autunno
se la tua voce è traccia del vissuto
la città di smeraldo ha le sue tane
e non temere il freddo sulle vie
battute dal maestrale
vieni a braccia distese
portami ombrelli rosa d'artemisia

ti disegno col dito nelle fragole
i contorni di Oz
e tu da quel velario che separa
giorni di grigio dalle luminarie
scrivimi fiabe a margine
ti leggerò le labbra
e basterà.



Di una poesia della raccolta, Dorothy e il mago, esiste una versione in tedesco:
Dorothy e il Mago

Non gridare se nasci d'autunno
se la tua voce è traccia del vissuto
la città di smeraldo ha le sue tane
e non temere il freddo sulle vie
battute dal maestrale
vieni a braccia distese
portami ombrelli rosa d'artemisia

ti disegno col dito nelle fragole
i contorni di Oz
e tu da quel velario che separa
giorni di grigio dalle luminarie
scrivimi fiabe a margine
ti leggerò le labbra
e basterà.


Dorothy und der Zauberer
Schrei nicht, wenn du im Herbst geboren wirst,
wenn deine Stimme Spur des Erlebten ist
die Stadt aus Smaragd hat ihre Höhlen
und fürchte dich nicht vor der Kälte auf den
vom Mistral gepeitschten Straßen
komm mit ausgestreckten Armen
bring mir rosenrote Schirme aus Beifuß
ich zeichne dir mit dem Finger in den Erdbeeren
die Umrisse von Oz
und du aus dem Vorhang, der Tage
aus Grau von der Lichterflut trennt,
schreib mir Märchen am Rand
ich werde dich von den Lippen ablesen
und das wird reichen.

Cristina Bove, da:  Metà del silenzio, Pibuk 2014, p. 30
(traduzione in tedesco di Anna Maria Curci)


Qui  per ascoltare l’audio

 




 

Metà del silenzio - lettura di Annamaria Ferramosca



Ho conosciuto e molto apprezzato la scrittura di Cristina Bove attraverso le sue precedenti raccolte Mi hanno detto di Ofelia, Venti di rabbia venti di pace, seguite poi da quella biografia fantastica che è Una per mille. Ma prima di parlare di questo ebook Metà del silenzio mi viene spontaneo parlare di Cristina come persona, con la sua unicità forse indescrivibile, ma ci provo…Perchè Cristina ti colpisce e ti lascia un segno indelebile, appena la conosci.  Perché il suo modo di aprirsi, rapportarsi, parlarti in quella sua misura sommessa, serena, ma ferma e profonda di pensieri e visioni, ti fa capire che è l’umano essenziale che ti parla, dell’umanità e del mistero dell’esistenza. Cristina apre infatti ad un universo che non si limita  al semplice ciclo della vita, ma esonda in un mondo altro, nelle dimensioni sconosciute che a noi danno inquietudine,  a lei appaiono come sfere armoniche, familiari, pacificate. Perché, come emerge da questa sua poesia, lei ha trovato -o inventato- un percorso di chiarezza e armonia che percorre con una sorta di distaccata saggezza (e se c’è sofferenza, questa si avverte elaborata, in luce di sapienza). Un’armonia che traspare da parole, gesti e dalla sua arte, pittura luminosa e poesia densa.
Scrittura e personalità sono fortemente interconnesse, così che lungo i suoi testi di Metà del silenzio tutte queste  dimensioni come vita, cronaca, visioni, pure amarezza per la donna condannata ad essere incompresa, non amata, cultura, bellezza, dolore universale, perfino note di profezia, si fondono con grande naturalezza, conferendo alla sua scrittura una personalissima impronta.
E nella sua analitica introduzione Maria Carmen Lama ha nominato anche una “solitudine esistenziale, che ha forti punte di amarezza, ma che viene continuamente superata dalla ferma intima convinzione che “il vero dio siamo in frammenti noi”, noi perfino responsabili dell’autoaffermazione di eternità da parte di un eventuale divinità . Trovo qui il fuoco centrale sotteso della raccolta, tutto il senso dell’umano e oltre umano di Cristina, la sua illimitata capacità di pensarsi infinita nell’infinito, di creare bellezza come riflesso di questa indicibile tensione.
In questa scrittura la vita riempie i testi e deborda e anche quando si avverte che la sua comunicazione è fondamentalmente mediatica - virtuale, si può dire che Cristina riesce a coinvolgere profondamente anche in rete, attraverso la rete, laddove i rapporti tra persone sono in genere disimpegnati, amici dall’amicizia labile, momentanea, mentre qui ora noi siamo prova provata di un legame  autentico, vero.
Così la metà del cielo-donna passa dal silenzio alla voce dispiegata di Cristina, che si fa anche grido contro la banalità e la violenza che sommerge, e pure inno alle donne semplici, vere, che lottano perché questo mondo cambi per la nostra discendenza. Una scrittura barocca, nel senso di pienezza versatile del barocco, dagli infiniti sensi chiari e pure sottesi, dai tanti colti richiami. Un lessico raffinato e insieme intriso del linguaggio quotidiano, di quello del web, che si distende con spontaneità nel ritmo di endecasillabi e settenari, ma non si dica che è lessico novecentesco -siamo stanchi di questo refrain critico- se la forma riveste un contenuto attuale insieme fuori dal tempo, se la voce personale si fa universale e memorabile, questa è solo e semplicemente poesia  (auguriamo a Cristina, che si avveri la sua visione, che il suo” ritratto resti dipinto nello spazio).

Annamaria Ferramosca, dicembre 2014