CRISTINA BOVE PESCATRICE DI NEBBIA
Di Augusto Benemeglio
1.Ofelia.
Ho
promesso a Cristina che l’avrei
letto questo suo libro, “ Mi hanno detto
di Ofelia” edizioni Smasher, 2012, e in effetti, ora che è primavera, l’ho
letto e disletto, l’ho udito dentro di me, passar fuori, e lo riodo fuori di me,
passar con me come un fiume che scorre ai miei piedi. Ecco la bianca, l’Ofelia
di Rimbaud che ondeggia “sull’acqua
calma e nera/dove dormono le stelle / come un gran giglio” E l’Ofelia dietro la
finestra di De Andrè (“Mai nessuno le ha detto che è bella/ a soli ventidue
anni / è già una vecchia zitella/La sua morte sarà molto
romantica/trasformandosi in ora se ne andrà /per adesso cammina avanti e
indietro/la via della Povertà), e infine l’Ofelia tragica di Virginia Woolf,
perché senza madre e senza modelli
femminili, senza identità ( “la sua identità se ne è andata quando le forze
maschili non hanno più diretto le sue azioni”), l’Ofelia che in fondo non è mai
esistita come donna, ma solo come personaggio, archetipo maschile (e
maschilista) di donna a cui tutto è negato, in primis la libertà.
Ma
perché Ofelia? “Perché abita dentro ciascuno
di noi, - dice Narda Fattori - coi suoi misteri, segreti e le sue acque, il suo
mal di vita che si intreccia e fonde col mal di morte”. Perché Cristina è una che attraverso le sue
poesie dà voce e forza alle donne - dice Carmen Lama -, una funzione che svolge con profonda empatia,
e dare spazio ad Ofelia, in una società e in un mondo monco, è una scelta
simbolica forte. Diventa per il lettore una chiave di lettura dei suoi testi
poetici
2.Pescatori di nebbia
Vi
confesso che ho scoperto anch’io una certa fratellanza con l’Ofelia di Cristina,
che contro il silenzio e il rumore inventa la Parola, “libertà che si inventa e
mi inventa ogni giorno”, diceva Paz.
Direi che ho avvertito anche un senso di riconciliazione, e mi son
detto, Oh, sì, è vero che la poesia lascia sconfinato al più alto grado il suo
universo, anche quando parla di un’ Ofelia in mezzo ai pomodori verdi fritti e ai muri sbrecciati, erba, sassi, zip che s’inceppano, pessime chiusure
del tempo, o aperture a latere, losanghe
di arlecchino; o fotografie fatte di vento. La poesia è per Cristina Bove, napoletana di Roma, come
lo era un po’ mia madre, una parabola dell’impossibile, una tazza di tè nel
lavandino che si trasforma in una nave oceanica che viaggia in cerca di sirene
senza canto e in un paio di rose (che)
scolorano di petali il giardino. Su fogli bianchi senza limite, né termine, ogni
sua poesia è un tentativo, diciamo meglio una “tentazione”, un‘inquieta
restituzione della parola vivente in oceani di solitudini. In fondo la sua Ofelia
sta nella nebbia dei sogni di un quadro, di un nota musicale, di un verso liquido e noi
siamo pescatori di nebbia
nell’attesa di vivere davvero.
Siamo macerie di silenzio
della storia dell’uomo.
3.Proteo
In
una poesia – diceva Borges – la cadenza e la collocazione di una parola possono
pesare più del suo significato. E ogni verso dovrebbe avere due doveri: comunicare
un fatto preciso e toccarci fisicamente, come la vicinanza del mare. Bisogna
compiere una successione di esercizi magici, eseguiti con un mezzo modesto qual
è la parola, bisogna convertire l’oltraggio degli anni in una musica, in un
rumore e in un simbolo. E’ questo il gioco serrato e ironico sulla scacchiera
dell’immaginazione di Cris, che non a caso è stata paragonata a Proteo, il dio
che amava occultare ciò che sapeva ed intessere oracoli ineguali. Inseguito dagli uomini assumeva la
forma di un leone, di una tigre d’oro, o di un falò, o di un albero che dà
ombra alla riva, o la forma dell’acqua che nell’acqua si smarrisce. Metà dio e
metà bestia marina, ignorò la memoria che si china sopra il passato e le
perdute cose.
4.Autoironia
Coglieva
barlumi dal profondo e l’umiltà vera, quella con cui ogni giorno guardi in te
per dare un senso al tuo breve e strano e ignoto viaggio, al giro intorno alla tua prigione, che non riesci mai a
compiere del tutto. Cristina ha uno sguardo attento, cerca e trova le parole in
quel momento più incisive, senza fare concessioni al facile canto, o alla mandolinata di turno. Non è tipo del genere, né una che si lagna, ma
se c’è un lamento in lei diventa vitalità, energia pura,
roba da stoicismo. Ci ricorda, con Borges,
che nessuno può aiutare nessuno, giacché
ognuno deve salvarsi da solo, e andare sulla soglia
con le scarpe in mano/
a scuoterle dai sassi/
ma non ti chiederò
quel che non puoi
se quello che non sai/
è l’ultimo dei mondi
sul confine/
di un’ ignota galassia
Giochi
verbali, riflessi letterari, divagazioni, “i trucchi, i salti, persino le
interpunzioni che, spesso, sembrano le giuste punizioni per il lettore rapido,
che vorrebbe correndo passare oltre”, scrive Fernanda Ferraresso, soprattutto autoironia
va tutto bene/ hai
portato le coppe mon amour?
Vedrai, stanotte un
angolo di luna
la cantilena a mantice
di un gatto
/ suggerire deliri/ e tu lo vuoi.
5.Una via di mezzo
Ma
ogni verso ha una portata emotiva, anche se ci sono dietro inquisizioni
filosofiche, estetiche, letterarie, etiche, religiose e mitiche. Bisogna cercare
il riscatto e la riscoperta della parola, di una parola magica, di una parola
musica, di una parola che sia simultaneamente
contenuto e forma. E’ tutto un inseguimento
della parola, della parola poetica, della parola strana, da napoletana antibarocca, alla ricerca della semplicità che
è poi
la modesta e segreta complessità del vero segreto della scrittura.
Scusi,
Cristina Bove, lei cosa pensa della vita?
Ci
penso da quasi settant’anni. Quasi tutti i giorni, ma ne ho un’idea ancora
confusa. Il fatto è che una persona vive
veramente solo quando sogna.“Ogni essere umano ha bisogno di rinascere
ogni giorno…ha bisogno di trascendenza”. Ma per sognare bene, il divino
Pitagora raccomandava di non mangiare le fave. E poi amava predicare agli animali,
anticipando San Francesco d’Assisi (“Oh, quanto hai scucciato, France’ cu’ ste prediche agli ucelli!”, diceva l’attore
- poeta napoletano Massimo Troisi)
Nacqui nelle terre di mezzo…//
Si mettevano nel campo dei papaveri a simulare le rose
C’è
in Cristina Bove una sorta di “sprezzatura”
alla Cristina Campo, come accennai per
altre sue poesie, e un qualcosa che richiama uno come Brodskij, lontano dai
clamori della protesta e del facile conformismo, ma sempre pronto a far gare di
tenerezza coi bambini, tra
coriandoli e sogni infranti. La sua
poesia è, insomma, una via di mezzo, tra la
crudele leggerezza della fiaba e il senso del gioco a carte scoperte, o del
gioco al massacro, fate voi, tra
indicibili solitudini e le traiettorie
della rimembranza leopardiana, con una tendenza alla speculazione metafisica.
Però
c’è quella elegante ironia e una consolidata geometria del linguaggio affidato
a una scacchiera di cristallo. È un gioco che dubita della ragione che lo
governa, è un gioco irreale che però
crede in fondo nelle segrete finalità
della letteratura, è un sogno manovrato e deliberato. Una pagina o un verso
fortunato non ci devono inorgoglire, - diceva Borges - sono il dono del caso o dello spirito, solo
gli errori sono nostri, e sono tanti. Puoi aggiustare la rotta come credi, ma alla
fine della tua navigazione giungi solo
…all’incaglio
stanca/ fui costretta a guardare l’altro volto
la me stessa sbiancata nei pensieri
e quella voce diventata
abbraccio
fu la gomena tesa / ch’io non
vidi
6. Incipit
L’ignoto
è inesauribile. Ci sono cose inesprimibili. Il linguaggio non è che un mero
strumento di un gioco che tuttavia pretende simmetrie. In una rosa in punto di morte senti che il suo valore estetico è nella propria
eternità, non nelle parole che noi, tuttavia, non potremo mai esprimere
compiutamente. Spesso il meglio, o il tutto della poesia di Cristina, è nell’incipit,
quasi sempre straordinario:
tra scimitarra e fiore //
lo so che verrà il tempo dei
ciliegi
ed
ecco tutto un panorama s’apre davanti a te, coi samurai giapponesi che fanno
esercizi di guerra, nudi, nei giardini di ciliegi, e cantano :” Oh, quanto è dolce morire al
cader lieve dei fiori bianchi!
vediamoci /nell’ora vuota/ io
porterò un non-fiore/
e
ti rivedi, garzone d’amore, all’alba nei
giardini di villa Ada, come un fidanzatino di Peynet, sotto i rami dei platani appena potati, cogli uccellini che cinguettano e si baciano in corsa volando tra un ramo e l’altro; ti rivedi senza un
fiore, ma con una scatola di cioccolatini.
sapeva fare nodi alla
marinara/cazzare rande e ripassare bugne
ed
eccomi davanti allo scenario del mare jonico, Gallipoli, con la barca a vela Icaro di D’Alema, che ode passare il vento di tramontana, e si tuffa
come un’ancella bianca, e poi vede passare la musica tra onda e onda, e la barca
scivola, anzi vola inventando lo spazio,
il cielo, il mare e il silenzio
si può avere una croce di nuvole
basse appoggiata alle scapole nude
Versi
che esprimono forza e dolore nella leggerezza estrema, ma anche fedeltà e obbedienza
al potere del fato, del destino
ineluttabile, in questa fabbrica d’aria scura che
è la vita, dove crescere e negarsi e
morire è (forse) espandersi.
hai sogni dipinti in verticale
/come gli occhi dei gatti/ tristi /
E’
vero, se tu guardi il muso dei gatti nelle sere d’inverno appoggiate
sull’abisso scopri tutta la loro tristezza verticale negli occhi gialli
tagliati a strisce come frutti nella tenebra.
E
potrei continuare ancora a navigare negli incipit, in tutto quell’ universo di
Cristina che è frammentario, senza nulla
di preordinato, prestabilito, non c’è un
progetto, un disegno, una mappa catastale
della sua casa poetica, ma i suoi frammenti hanno un ordine interno, una musica,
un’armonia, un’orchestra con mille
strumenti a sua disposizione, e mille
spartiti. Lei si riserva la libertà di “non
scegliere”. Ma solo di frequentare. Le scelte, alla fine, le facciamo noi
lettori incrociando i suoi occhi e i suoi sospiri di eterna ragazza presa dal
suo delirio circolare, Ofelia, appunto.
Roma,
15 Aprile 2013 Augusto Benemeglio