lunedì 15 aprile 2013

recensione di Augusto Benemeglio



CRISTINA BOVE PESCATRICE DI NEBBIA

Di Augusto Benemeglio



1.Ofelia.
Ho promesso a Cristina che l’avrei letto questo suo libro, “ Mi hanno detto di Ofelia” edizioni Smasher, 2012, e in effetti, ora che è primavera, l’ho letto e disletto, l’ho udito dentro di me, passar fuori, e lo riodo fuori di me, passar con me come un fiume che scorre ai miei piedi. Ecco la bianca, l’Ofelia di Rimbaud che ondeggia  “sull’acqua calma e nera/dove dormono le stelle / come un gran giglio” E l’Ofelia dietro la finestra di De Andrè (“Mai nessuno le ha detto che è bella/ a soli ventidue anni / è già una vecchia zitella/La sua morte sarà molto romantica/trasformandosi in ora se ne andrà /per adesso cammina avanti e indietro/la via della Povertà), e infine l’Ofelia tragica di Virginia Woolf, perché  senza madre e senza modelli femminili, senza identità ( “la sua identità se ne è andata quando le forze maschili non hanno più diretto le sue azioni”), l’Ofelia che in fondo non è mai esistita come donna, ma solo come personaggio, archetipo maschile (e maschilista) di donna a cui tutto è negato, in primis la libertà.   
Ma perché Ofelia? “Perché abita dentro ciascuno di noi, - dice Narda Fattori - coi suoi misteri, segreti e le sue acque, il suo mal di vita che si intreccia e fonde col mal di morte”.  Perché Cristina è una che attraverso le sue poesie dà voce e forza alle donne - dice Carmen Lama -,  una funzione che svolge con profonda empatia, e dare spazio ad Ofelia, in una società e in un mondo monco, è una scelta simbolica forte. Diventa per il lettore una chiave di lettura dei suoi testi poetici

2.Pescatori di nebbia
Vi confesso che ho scoperto anch’io una certa fratellanza con l’Ofelia di Cristina, che contro il silenzio e il rumore inventa la Parola, “libertà che si inventa e mi inventa ogni giorno”, diceva Paz.  Direi che ho avvertito anche un senso di riconciliazione, e mi son detto, Oh, sì, è vero che la poesia lascia sconfinato al più alto grado il suo universo, anche quando parla di un’ Ofelia  in mezzo ai pomodori verdi fritti  e ai muri sbrecciati,  erba,  sassi, zip che s’inceppano, pessime chiusure del tempo, o aperture a latere,  losanghe di arlecchino; o fotografie fatte di vento. La poesia è per Cristina Bove, napoletana di Roma, come lo era un po’ mia madre, una parabola dell’impossibile, una tazza di tè nel lavandino che si trasforma in una nave oceanica che viaggia in cerca di sirene senza canto e in un paio di rose (che) scolorano di petali il giardino. Su fogli bianchi senza limite, né termine, ogni sua poesia è un tentativo, diciamo meglio una “tentazione”, un‘inquieta restituzione della parola vivente in oceani di solitudini. In fondo la sua Ofelia sta nella nebbia dei sogni di un quadro, di un nota musicale, di un verso  liquido e noi
siamo  pescatori di nebbia
nell’attesa di vivere davvero.
Siamo macerie di silenzio
della storia dell’uomo.

3.Proteo
In una poesia – diceva Borges – la cadenza e la collocazione di una parola possono pesare più del suo significato. E ogni verso dovrebbe avere due doveri: comunicare un fatto preciso e toccarci fisicamente, come la vicinanza del mare. Bisogna compiere una successione di esercizi magici, eseguiti con un mezzo modesto qual è la parola, bisogna convertire l’oltraggio degli anni in una musica, in un rumore e in un simbolo. E’ questo il gioco serrato e ironico sulla scacchiera dell’immaginazione di Cris, che non a caso è stata paragonata a Proteo, il dio che amava occultare ciò che sapeva ed intessere oracoli  ineguali. Inseguito dagli uomini assumeva la forma di un leone, di una tigre d’oro, o di un falò, o di un albero che dà ombra alla riva, o la forma dell’acqua che nell’acqua si smarrisce. Metà dio e metà bestia marina, ignorò la memoria che si china sopra il passato e le perdute cose.

4.Autoironia
Coglieva barlumi dal profondo e l’umiltà vera, quella con cui ogni giorno guardi in te per dare un senso al tuo breve e strano e ignoto viaggio, al giro intorno  alla tua prigione, che non riesci mai a compiere del tutto. Cristina ha uno sguardo attento, cerca e trova le parole in quel momento più incisive, senza fare concessioni al facile canto, o alla  mandolinata di turno.  Non è tipo del genere, né una che si lagna, ma se c’è  un  lamento in lei diventa vitalità, energia pura, roba da stoicismo.  Ci ricorda, con Borges, che nessuno può aiutare nessuno,  giacché ognuno deve salvarsi da solo, e andare sulla soglia
con le scarpe in mano/
a scuoterle dai sassi/
ma non ti chiederò quel che non puoi
se quello che non sai/
è l’ultimo dei mondi sul confine/
di un’ ignota galassia
Giochi verbali, riflessi letterari, divagazioni, “i trucchi, i salti, persino le interpunzioni che, spesso, sembrano le giuste punizioni per il lettore rapido, che vorrebbe correndo passare oltre”, scrive  Fernanda Ferraresso,  soprattutto autoironia
va tutto bene/ hai portato le coppe mon  amour?
Vedrai, stanotte un angolo di luna
la cantilena a mantice di un gatto
/ suggerire deliri/  e tu lo vuoi.

5.Una via di mezzo
Ma ogni verso ha una portata emotiva, anche se ci sono dietro inquisizioni filosofiche, estetiche, letterarie, etiche, religiose e mitiche. Bisogna cercare il riscatto e la riscoperta della parola, di una parola magica, di una parola musica, di una parola che sia simultaneamente  contenuto e forma.  E’ tutto un inseguimento della parola, della parola poetica, della parola strana, da napoletana  antibarocca, alla ricerca della semplicità che è  poi  la modesta e segreta complessità del vero segreto della scrittura.
Scusi, Cristina Bove, lei cosa pensa della vita?
Ci penso da quasi settant’anni. Quasi tutti i giorni, ma ne ho un’idea ancora confusa. Il fatto è che una persona  vive  veramente solo quando sogna.“Ogni essere umano ha bisogno di rinascere ogni giorno…ha bisogno di trascendenza”. Ma per sognare bene, il divino  Pitagora raccomandava di non mangiare le fave.  E poi amava predicare agli animali, anticipando  San Francesco  d’Assisi (“Oh, quanto hai  scucciato, France’   cu’ ste prediche agli ucelli!”, diceva l’attore - poeta napoletano Massimo Troisi)
Nacqui nelle terre di mezzo…//
Si mettevano nel campo dei papaveri a simulare le rose
C’è in Cristina Bove una sorta di  “sprezzatura”  alla Cristina Campo, come accennai per altre sue poesie, e un qualcosa che richiama uno come Brodskij, lontano dai clamori della protesta e del facile conformismo, ma sempre pronto a far gare di tenerezza  coi bambini, tra coriandoli  e sogni infranti. La sua poesia è, insomma,  una via di mezzo, tra la  crudele leggerezza della fiaba e il senso del gioco a carte scoperte, o del gioco al massacro, fate voi,  tra indicibili solitudini  e le traiettorie della rimembranza leopardiana, con una tendenza alla speculazione metafisica.
Però c’è quella elegante ironia  e una  consolidata geometria del linguaggio affidato a una scacchiera di cristallo. È un gioco che dubita della ragione che lo governa, è un gioco irreale  che però crede in fondo  nelle segrete finalità della letteratura, è un sogno manovrato e deliberato. Una pagina o un verso fortunato non ci devono inorgoglire, - diceva Borges -  sono il dono del caso o dello spirito, solo gli errori sono nostri, e sono tanti. Puoi aggiustare la rotta come credi, ma alla fine della tua navigazione  giungi  solo
…all’incaglio
stanca/ fui costretta a guardare l’altro volto
la me stessa sbiancata nei pensieri
e quella voce  diventata abbraccio
 fu la gomena tesa / ch’io non vidi

6. Incipit
L’ignoto è inesauribile. Ci sono cose inesprimibili. Il linguaggio non è che un mero strumento di un gioco che tuttavia pretende simmetrie.  In una rosa in punto di morte  senti che  il suo valore estetico è nella propria eternità, non nelle parole che noi, tuttavia, non potremo mai esprimere compiutamente. Spesso il meglio, o il tutto della poesia di Cristina, è nell’incipit, quasi sempre straordinario:
tra scimitarra e fiore //
lo so che verrà il tempo dei ciliegi
ed ecco tutto un panorama s’apre davanti a te, coi samurai giapponesi che fanno esercizi di guerra, nudi, nei giardini di ciliegi,  e cantano :” Oh, quanto è dolce morire al cader lieve dei fiori bianchi! 
vediamoci /nell’ora vuota/ io porterò un non-fiore/
e ti rivedi, garzone d’amore,  all’alba nei giardini di villa Ada, come un fidanzatino di Peynet,  sotto i rami dei platani appena potati,  cogli uccellini che cinguettano e  si baciano in corsa volando  tra un ramo e l’altro; ti rivedi senza un fiore, ma con una scatola di  cioccolatini.
sapeva fare nodi alla marinara/cazzare rande e ripassare bugne
ed eccomi davanti allo scenario del mare jonico, Gallipoli, con la barca a vela Icaro di D’Alema,  che ode  passare il vento di tramontana, e si tuffa come un’ancella bianca, e poi vede passare la musica tra onda e onda, e la barca  scivola, anzi vola inventando lo spazio, il cielo, il mare e il silenzio
si può avere una croce di nuvole basse appoggiata alle scapole nude
Versi che esprimono forza e dolore nella leggerezza estrema, ma anche fedeltà e  obbedienza  al potere del fato, del  destino ineluttabile, in questa fabbrica d’aria  scura  che è la vita, dove  crescere e  negarsi e  morire è (forse) espandersi.
hai sogni dipinti in verticale /come gli occhi dei gatti/ tristi /
E’ vero, se tu guardi il muso dei gatti nelle sere d’inverno appoggiate sull’abisso scopri tutta la loro tristezza verticale negli occhi gialli tagliati a strisce come frutti nella tenebra.
E potrei continuare ancora a navigare negli incipit, in tutto quell’ universo di Cristina che è frammentario, senza  nulla di preordinato,  prestabilito, non c’è un progetto, un disegno, una mappa catastale  della sua casa poetica, ma i suoi  frammenti  hanno un ordine interno, una musica, un’armonia, un’orchestra con  mille strumenti a sua disposizione,  e mille spartiti.  Lei si riserva la libertà di “non scegliere”. Ma solo di frequentare. Le scelte, alla fine, le facciamo noi lettori incrociando i suoi occhi e i suoi sospiri di eterna ragazza presa dal suo delirio circolare, Ofelia, appunto.

Roma, 15 Aprile 2013                              Augusto Benemeglio

lunedì 1 aprile 2013

Recensione di Maria D'Ambra

"Mi hanno detto di Ofelia"

Quasi_volo
un tempo diverso
per camminare astratti
non proprio volare
ma quasi
come essere foglie e pappi
in sentieri di vento

appoggiare a mezz’aria
passi senz’orma
vestiti solamente del tacere

le parole comprimono l’estasi
intralciano i poeti
li definiscono in cataloghi

allora ammutolisco per sentire
e non vendermi agli echi.
Sarò d’ali permesse appena
in tempo
per proseguire a lato di me stessa.
mi hanno detto di ofeliaDall’assenza prende vita la materia, dal vuoto apparente prendono forma le figure, i gesti, da un non-tempo personale si tracciano le linee del ricordo, fino alla grande negazione, la parola che si fa muta, che tace proprio per farsi udire meglio, per distinguersi dal chiasso indistinto che offende la Poesia.
Mi hanno detto di Ofelia è la quarta silloge di Cristina Bove, poetessa dalla parola fluida e potente, dotata di un lirismo innato che le permette di trasformare in versi tutto ciò che la circonda. Forse l’abbondanza degli spunti deriva dalla sua molteplicità, dal sapere prendersi gioco di sé, dal riuscire ad ironizzare sulle tante manifestazioni dell’esperienza umana e su tutto quello che non ha a che fare con la realtà tangibile, ma che ciascuno di noi conosce, anche se non ne è cosciente. Ed è questa la capacità dei grandi poeti d’ogni tempo, quella di riuscire a sentire e poi trasmettere qualcosa che la maggior parte di noi nemmeno ipotizza, trasferendo su carta il canto doloroso oppure gaio di tutte quelle cose che non hanno voce.
Appaio
il tempo di far credere che esisto
e poi scompaio
geco fantasma
m’inerpico sui vetri
e dico al vento
amico mio non scuotere
le imposte
respirami profondo, a distaccare.
[...]
Come tutti i precursori, gli sperimentatori, gli indagatori di percorsi inusitati Cristina si diverte a disorientare il lettore, laddove sembra concedere squarci di luce, presto fa ripiombare nell’incertezza cognitiva, in una girandola di ellissi ed iperbole in cui le trame oscure del significato sembrano perdersi, per poi accorgersi invece che il senso era proprio lì, davanti agli occhi stupefatti di fronte ad una chiusa chiarificatrice e al tempo stesso culmine poetico (ed è così che sento il mio vissuto / farsi macigno quando / vorrei poter partire / e non posso che stare).
Si potrebbe obiettare che è un percorso già sfruttato, ma non è forse vero che la reale sperimentazione passa proprio per il già visto? La particolarità della poesia di Cristina Bove sta anche nel fatto che qui non si crea innovazione a tavolino, con la volontà di smussare e rimaneggiare fino all’ottenimento del prodotto ideato, qui gioca tutto la spontaneità creativa, quella che sgorga da fonti normalmente inavvicinabili e pure invisibili. E mi sconnette il cuore un soliloquio. La poetessa dialoga con se stessa, con le tante sé e con il lettore utilizzando immagini, suoni, accostamenti improbabili, una profonda ironia, realizzando un nuovo modo di comunicare, con un linguaggio inedito fatto però delle parole quotidiane e al tempo stesso di termini arcaici o scientifici, messi lì, quasi a caso, ma sempre intonati alla musicalità dell’insieme. Sì perché la poesia è anche musica.
Aperture a latere
Il sole non candeggia
la biancheria ammuffita o il seno brullo
né l’ala del cucù
filtra soltanto tra listelli e buchi
disegnato di punti su piastrelle
                            il piatto cede, rifornisce rose.
In deltaplano
funambola in assetto
gioca la mia ragazza dei silenzi
la muta dei ritorni e degli infissi
cardini sottotraccia
                             sa di quella finestra mai richiusa.
Qualora fosse il caso
se le porte sprangate a fil di buio
reggessero per anni
avrebbe almeno via d’uscita
il non ritorno sugli stessi passi…
                              un volo finalmente completato.
Cristina non offre soltanto la voce, ma sa anche ascoltare con la pazienza di chi conosce bene il silenzio e il vuoto incolmabile che solo le parole sanno dare, (le parole comprimono l’estasi / intralciano i poeti). E poi ci sono suoni, sveglie, ticchettii, echi, violoncelli e l’impalpabile, aria in movimento, fondali che pulsano, voli a mezz’aria, dissolvimenti, dislocazioni e i profumi, spezie arabe, petali di rosa, piante dai nomi impronunciabili e i colori dei luoghi, delle cose, dei paesaggi interiori, della memoria.

VERSO il TACERE
Saranno secoli? Attimi che mi giro
a tascapane, a giustacuore, a scudo
e di necessità virtù mi allaccio scarpe

camminare dovrò
per la carrozza han già preso la zucca
a me non resta che la mezzanotte
la mia fata madrina s’è distratta.

Mi cucio sulla lingua un che di fiato
zenzero e cinnamomo retrogusto
enzima di saliva mordiefuggi
e mi farò bastare ancora il gioco.

Tanto mi sveglierò, verrà il silenzio
quello che non sopporta ancora voci
né le cose sospese
quello che non s’inganna con le impronte
di parole calcate nella sabbia.

E avrò la colpa d’essere poeta
per abuso di suono.
Ma allora qual è il reale segreto di tanta bellezza? Quella piacevole concatenazione delle parole tesa fino allo scatenarsi di forti emozioni? Oltre alla rivelazione della conoscenza, c’è la grazia della creazione che ha come scopo principale il piacere senza attese, la gioia di poter scrivere poesia solo per diletto e perciò senza alcun tipo d’ansia e con in tasca uno scacco contro il Tempo, privato in tal modo d’ogni potere, di ogni urgenza, essendo modellato a propria misura, compreso nel cerchio senza inizio e senza fine.
[…]
semplice non è mai piegare il tempo
né tantomeno mascherare il dire
m’accompagna il silenzio
presuntuoso
di sussurrargli al cuore.
E poi c’è l’incarico fondamentale d’ogni portavoce, quello di fare ricordare tutto ciò che si è dimenticato, l’essenza di sé, quello che siamo e che sempre ci sfugge.
[…]
noi venimmo dal tempo
ch’era il mare un ritaglio di cielo
ed esultanze, ignote geometrie
carezzavano addosso.

E poi dimenticammo.

Adesso veglio – sola – a ricordare.
Quando si crea per necessità, la spinta arriva da luoghi insondabili e scrivere allora è sì moto d’inchiostro che s’incide sulla carta, ma è anche attraversamento, un continuo sconfinare in un’ansia di fuga e al tempo stesso consapevolezza d’essere in ogni istante, ovunque ci si trovi, è lo sguardo commosso di chi si vede dall’esterno con tutte le debolezze dell’umanità addosso, testimone di quella parte che vaga ancora nell’oscurità, inconsapevole d’essere sempre anche altrove. L’attesa è nel dissolversi della linea di confine, nel riportare, finalmente, quell’essere limitato all’interno del tutto che lo comprende. (Scrivo per chi / non taglia l’acqua con le mani / affonda e non ha voce)

Case abissali
Parole orfane
come lutto del dire
a fluttuare in uno schermo di
cristalli liquidi

nascoste nelle mani
al riaffiorare
d’alga di sale plancton
carezza d’ombra
scena depositata sui fondali

si tace
quando
si sta toccando l’anima
di spalle.
E tacere si può quando la Poesia vive di vita propria.


mercoledì 27 febbraio 2013

Recensione di M. Carmen Lama




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“Mi hanno detto di Ofelia” è un titolo assai intrigante per questa nuova silloge di Cristina Bove, che sembra sempre essere giunta all’apice del suo discorso poetico e invece constatiamo che con ogni sua nuova opera l’apice si sposta indefinitamente e si rimane con la sensazione (di per sé piacevolissima) di un’illusione ottico-mentale, anticipatrice di nuove attese… in un crescendo che non ha mai fine.

Ofelia è un personaggio tragico, una donna immersa nel fiume della sua vita-morte, del cui dramma viene a conoscenza l’amato-amante Amleto, ma solo quando questo si è ormai consumato. E lo stesso Amleto non ha consapevolezza della realtà della donna e dell’accaduto, né di se stesso. Cristina Bove entra perfettamente nel personaggio di Amleto per mostrargli la sua in_coscienza di uomo, mentre gli fa confessare di aver saputo della tragedia di Ofelia ma di non credere, o meglio, di non sapersi decidere a credere alla realtà del fatto e della stessa vita-morte dell’amata, personaggio nel quale pure la poetessa si identifica, con lo scopo implicito di rappresentare simbolicamente il destino tragico che la donna in quanto tale molto spesso subisce.
Dare voce alle donne attraverso le sue poesie, è una funzione che Cristina svolge con profonda empatia, e dare spazio ad Ofelia già nel titolo di un’opera in cui molte sono le poesie che attraversano la fatica dell’essere donna, in una società e in un mondo monco, è una scelta simbolica forte.
Diventa per il lettore una prima chiave di lettura dei testi poetici presentati in questa raccolta.

Ma ci sono altre aperture, così come ci sono altri incontri con la stessa anima poetica di Cristina Bove.
Non è semplice trasferire in una poesia il proprio sentire, facendosi nel contempo carico di rappresentare un vissuto che appartiene anche ad un universo più vasto del proprio.
Ma l’opera poetica di Cristina è una fucina in continua evoluzione, dove la regia sapiente della poetessa consiste nel creare sempre nuove forme con un materiale di base reso duttile dalle sue stesse idee. L’uso del linguaggio, infatti, è sorprendente sia per gli accostamenti lessicali arditi,  sia per le immagini originali composte, sia per le atmosfere che può respirare chi oltrepassa la soglia del suo laboratorio poetico.
Ed è proprio grazie a questo sperimentare sempre nuove forme che la poesia di Cristina emerge.
La sua ricerca è incessante e profonda, il mondo che scandaglia è quello invisibile ai più, ma che a lei semplicemente si mostra, richiedendole soltanto un’immersione, come in apnea, e un ascolto attento della vita che nel profondo della psiche e del mondo si svolge.

Questa fondamentale caratteristica del lavoro poetico di Cristina, comune soltanto ai veri poeti, è una modalità legata alla ricerca della coincidenza, e quindi dell’unità, tra l’essere e la realtà.
Soltanto nella visione poetica (o nel sogno) quest’unità può essere vissuta come tale, ma è necessario successivamente risalire in superficie, (o destarsi dal sogno) per rielaborare la visione.
Trovarsi immersi in una sorta di atemporalità, in un’assenza di tempo, fa sì che all’essere proprio si restituisca la “purezza” originaria, che coincide con l’assoluto, ed è questa l’unica condizione in cui per pochi istanti si vive la realtà così come essa è, con_fusa con l’essere, unità assoluta che soddisfa la ricerca poetica.  
La poesia salva l’invisibile che si mostra per qualche istante. E l’invisibile è come un fantasma, intercessore del tempo, che appare per un momento, prima che la corrente del fiume del tempo lo trascini via, solo per un istante, poiché non è sua natura il durare, l’estendersi nel tempo, perché questo lo altererebbe nel suo “essere”. Può tornare, sì, ma se si ferma un istante lo fa per ottenere l’unica cosa che può salvarlo: essere fissato in un istante perenne. Ed è proprio quest’azione del fissare l’istante, la visione fugace, quello che si richiede al poeta e quello che Cristina Bove fa con le sue poesie. Un sogno o una visione possono essere salvati, rendendoli visibili, facendoli entrare nel mondo della realtà che è quella del tempo, quindi attraverso la rielaborazione cosciente del risveglio, del ritorno in superficie, e della presa di coscienza di quel che è stato e della scrittura poetica.

Tale condizione si addice ad ogni essere umano, ma molto spesso (e comunemente)  non si è capaci di discendere nelle profondità della propria anima, né di ascoltarne i richiami o di decifrarne i messaggi, neppure quando nella totale inconsapevolezza sono i sogni ad alimentare la nostra psiche.
Per il poeta invece è un aspetto imprescindibile e lo è tanto più quanto più si affina la sua sensibilità. Diventa, alla fine, il suo habitus psico-mentale. Ed è anche, possiamo dire, la realizzazione del sé. Che però non è mai finita, mai definitiva, se ci atteniamo a quanto, in merito a ciò, ha chiaramente espresso Maria Zambrano in tutto il percorso filosofico del suo pensiero.
Ogni essere umano ha bisogno di rinascere ogni giorno, e compie questa sua rinascita attraverso il risveglio dal sogno e la rielaborazione dello stesso o, per il poeta, attraverso la rielaborazione delle sue visioni dell’invisibile, della ulteriorità del reale, o, in altri termini, attraverso l’intuizione della trascendenza di tutte le cose, degli esseri umani e dei viventi in generale.
Cristina Bove, a mio modo di vedere incarna al più alto grado l’essenza poetica, perché questa coincide con il suo essere la persona che è.

Nelle sue poesie, in particolare in quelle di questa raccolta, si trova la sua anima dislocata, anche a piccoli frammenti, nei versi, nelle figure retoriche, nei ritmi, nella liricità.
Anche quando una poesia parla di cose minime, di oggetti comunissimi e che si potrebbero definire insignificanti, a maggior ragione per questo aspetto vi si coglie un frammento lirico perché l’anima abbandonata alle minimalia sembra essere rassegnata. E questa scoperta segna inevitabilmente l’animo di chi legge.

In poesie come Bora, Una ciotola, Huaca, Riflesso marginale, Sbalordire, Perché la resa, Minime (?) COSE, Per aspera, VERSO IL TACERE, Daojiao, Legend, Fuori dal campo, è eclatante questo sentimento di marginalità in cui si sente risiedere la poetessa, e la lettura dei versi, se rallentata al ritmo del cuore di Cristina mentre “sentiva” quello che ha scritto, conduce immediatamente nei dintorni di una con_divisione del sentire.
Non una volta, ma più e più volte, leggendo e rileggendo le poesie di Cristina_Ofelia, ho provato questo senso di vicinanza con la sua anima, con il suo sentire profondo, qualcosa che mi fa essere partecipe di una vita SubLIMINALE, interiorità sofferta e lirica, appunto.

Senza pretendere di esaurire l’analisi delle poesie di questa silloge in una breve recensione, vorrei tuttavia segnalare due poesie per me fondamentali per individuare il senso più autentico anche di tutte le altre, proprio perché le ritengo emblematiche di un sentimento vitale che in qualche modo è scosso dalla vita stessa che procede su binari non previsti o non auspicati, come spesso accade per chiunque. Si tratta delle poesie Porta e Di solitudini.
La prima: Riconobbi la soglia / una fotografia fatta di vento / lo riportava a me dall’infinito // Il camino era spento e la finestra / si spalancava sull’eternità // le distanze incolmabili generavano spazio / su gradini sbreccati ero seduta / di crepa in crepa / a rattoppare il tempo.
La seconda: Alla tua solitudine lo posso raccontare / dei miei pensieri cavi, e delle notti / calate sulle rive di soppiatto. / Tu la conosci, è specchio al tuo sottrarti / anche la mia / ch’è sabbia, neve, voli e / speronate a picco. // A te lo posso dire, fatta di nebbia io sono / quindi nei vuoti d’aria m’abbandono / per una tregua minima / se vuoi / tu che ti specchi nel mio nulla / puoi, nella forma del buio, / porgere la tua mano alla mia assenza.
Non occorre commentare, credo. La bellezza e il senso di queste due poesie confermano (ovviamente, per me) il messaggio che ho recepito, sotteso nel complesso di tutte le poesie della silloge, e che ho cercato di esplicitare con questa recensione.

E in conclusione di questo breve resoconto della “mia” lettura della silloge Mi hanno detto di Ofelia, vorrei sottolineare, se ce ne fosse bisogno, l’eleganza dello stile di Cristina Bove, l’originalità e la personalità di ogni suo componimento, che inutilmente ci si sforzerebbe di incanalare in una qualche corrente poetica.
Sono poesie, le sue, frutto di un vissuto di immedesimazione nella vita di tutti i giorni e nella vita sociale, umana e universale, frutto anche di una cultura molto ampia che affiora in molti modi, e frutto di una sensibilità fine, di un’intelligenza intuitiva straordinaria, di una generosità insita nel DNA del suo animo che le rende molto naturale darsi, attraverso le poesie, agli animi sensibili dei suoi lettori.



27 febbraio
M.Carmen Lama 

lunedì 25 febbraio 2013

recensione di Narda Fattori


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Parafrasando: chi è Ofelia? Paradigma della devozione fino allo sfinimento e alla negazione di sé, fragile, incapace di trattenere Amleto dal suo delitto, strumento nelle mani altrui, folle? Soltanto nel contrasto con il destino acquista spessore. La sua devozione e la sua bellezza non la salveranno. Oppure Ofelia è solo un fantasma, la parte di psiche che si oppone al super-io, che resta rannicchiata sul fondo e compare come nei sogni (o negli incubi) a chiedere una ragione che non è meno folle della sua inconsistenza?
Ofelia sta nel titolo di questo libro di splendide poesie di Cristina Bove; non solo, Cristina afferma di averla incontrata. L’affermazione appare azzardata, dopotutto Ofelia è un personaggio letterario, ma sicuramente ha una sua giustificazione nelle poesie che costituiscono il corpus del libro non solo in quella che riporta lo stesso titolo. Essa riassume la filosofia sottesa all’insieme delle poesie: il vano tentativo di incidere sulla realtà quotidiana con le armi linguistiche, con la poesia come Ofelia disarmata, oblativa, inerme ma capace di profetare.
Le poesie della raccolta sono erratiche per argomento, c’è un io ingombrante che viene con cura celato e zittito, si legge chiaramente un discorso sui mala tempora e sulla irrimediabilità del disfaci-mento cui va incontro la bellezza sulla terra a cui fa da contraltare un decadimento della persona, la sua impossibilità di azione incisiva. E c’è il silenzio a capo rigo, quel silenzio detto con i bellissimi versi: “si tace/ quando/ si sta toccando l’anima/ di spalle.”
Guardare l’anima di spalle significa trovarsi dentro un’immensità che però non ha nessun tipo di appiglio per la sua decodifica, significa capire che la bellezza è ovunque ma ovunque si sgretola e noi non abbiamo né le parole né gli strumenti per porvi rimedio.
Il credente confida; Cristina dice chiaramente di non esserlo ma afferma di detenere forze e ali per
“proseguire a lato di me stessa”, incerta, con la visione sbieca e forse parziale ma con la chiarezza della meta accompagnata dal silenzio presuntuoso del sussurro del cuore.
Tanta fragilità è riscattata dall’umana pietà, dal mettersi all’interno del girotondo degli affaticati della vita. E la parola è al servizio della vita; Cristina la usa come un setaccio per comunicare, certamente, ma anche per lasciare che filtrino solo le parole ri-generate.
Le arti visive e la musica appartengono al mondo conoscitivo della poetessa e ne usa il lessico per espandere il mondo semantico delle sue liriche, coinvolgerle in quel discorso erratico di cui ho det-to, così a fianco del Tau può starci la consapevolezza del procedere solitario perché nessuno può en-trare del tutto nell’animo di un altro, perché Degas sta presso Vincent Van Gogh che sta presso Mo-zart che sta presso Cnosso che sta presso Cristina Bove.
Poiché si scrive poesia solo per passione, non avendo altre logiche motivazioni, avviene che essa, come succede per l’amore, accada; ci prende per mano, ci sussurra sibillina, ci spinge a scoprire le impronte del nostro cammino, i moti d’animo bruschi e/o intimi, padrona senza reticenze, libera e senza confini. La poesia. Poi esiste la scrittura cercata, ampiamente ragionata, condotta là dove si vuole che vada. Con quanto affermato non intendo dire che la poesia sia qualcosa di irrazionale, anzi; il setaccio della ragione e della competenza interviene e deve farlo per ripulire il materiale, sezionarlo, riportarlo al suo fine.
E’ la grande fatica dei veri poeti. Cristina, che annoveriamo fra questi, confessa che sì, potrebbe parlare di dolcetti al miele ma “la cantilena a mantice di un gatto/ suggerisce deliri/ e tu lo vuoi.”
La libertà della poesia trova il suo spazio d’azione nelle sinapsi della mente, fra le circonvoluzioni neuronali; non è anarchia, è audacia. E’audacia infatti restare ad aspettare Godot sapendo che non arriverà mai :
“……….
ma qui, sediamo tutti intabarrati
pesanti d’anni e di malinconia
stampigliata nel codice l’origine
la data di scadenza indecifrabile
pescatori di nebbia
nell’attesa di vivere davvero.”
La vita vera non è quella promessa da Dio; Cristina ci dice di porre un punto interrogativo dopo la parola; chissà che cosa è vivere davvero, forse è vivere senza aspettare inutilmente Godot, senza avere la testa in nugoli di cielo, è vivere la gioia che fa l’incontro con l’accoglienza dell’altro mentre invece siamo terrestramente dannati ad una finta accoglienza: all’assetato è offerta una bottiglia vuota.
Voglio tornare a citare qualche verso di due poesie consecutive molto diverse per tema ma quasi sovrapponibili per significato che danno ragione al colore di fondo del libro ( e di Ofelia?):
“ ma qui di niente si è sicuri/ mai” e “ sento che siamo il vuoto e il pieno/ a combaciare.”
Credo che questi pochi esempi aprano un barlume sulla erratica tematica; non diversamente lo stile è omogeneo: a versi icastici, di forti cesure si alternano dettati distesi; il timbro, la melodia del canto, però restano unici con ampi, ampissimi squarci semantici, accurata selezione di immagini così lontane che vanno oltre la metafora per introdurti in territori “poetici” appunto. Poco sostenuta dal lirismo, la poesia di Cristina non è neppure narrativa; la padronanza degli strumenti poetici consente alla poetessa di muoversi con corretta grazia lungo tutto il libro. L’insieme delle poesie è sorretto da una coreografia che non vuole stupire però è elegante e piena di forza inventiva e lessicale.
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Narda Fattori
 

domenica 24 febbraio 2013

recensione di Simonetta Bumbi


Quando la poesia


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c’è una parola, nella prefazione, che m’ha colpita subito, ma ho continuato a leggere senza darle troppa attenzione. poi.
poi, man mano che i versi mi disegnavano storie e raccontavano i vari passaggi della pelle su cui la poetessa si sostava, quella parola s’è fatta sempre più prepotente.
eleganza.
dalla prefazione di anna maria curci: “…e l’eleganza che unisce talento innato a sapiente e originale rielaborazione è tratto caratteristico di tutti i componimenti…”
ecco, è vero, e l’ho detto a me stessa spesso, dopo.
cerco sempre di non lasciarmi coinvolgere dalla conoscenza di chi è dietro, a un libro o un disco, quando devo dire il mio pensiero, ché  credo l’onestà sia lo specchio delle dita, un po’ come quando stringiamo la mano a qualcuno con energia, quasi volessimo trasmettere tutto il piacere di quell’incontro.
ecco, incontrare cristina bove attraverso il profumo della carta stampata, è un rinnovare il piacere che si prova mentre la si legge nel virtuale, ché riesce a trasmetterti tutti i suoi voli terreni con ali d’anima, e sia che si pianga, si sorrida o si attraversi solo un sogno o un incubo, c’è sempre il desiderio della bellezza che esplode come un’impollinazione.
non è voluta, è innata nelle righe che scorrono e pian piano si manifestano. e restano.
il suo componimento “Sbalordire” termina con questi versi: “…una teiera bianca…”
ecco, una semplice immagine scolpisce la sua porcellana, e le sue poesie sono di questa materia. e calde, come i suoi incontri vissuti, proprio come il bianco che sa disegnare, sempre e comunque, l’eleganza.
lei è ovunque, ed anche loro, che possiamo essere noi vestiti da personaggi incontrati, e nei suoi viaggi tutto è collocato nell’universo naturale che la circonda, come ad esempio “…il sole nell’ampolla dell’aceto…” ( da “Minime (?) COSE“) o “…bevevo la luce dal turchino…” (da “Sherifa“).
Chi legge è invitato… a seguire vene sotterranee erroneamente date per esaurite, a percorrere traiettorie divergenti dal canone consolidato, anche da quello che l’epidermica impressione può far percepire come inusuale e innovativo e che troppo spesso, nella poesia contemporanea, non osa oltrepassare la striminzita e logora tessera del canovaccio pseudo-ermetico-essenziale.” (dalla prefazione).
sì, mi sento di condividere appieno le parole sopracitate, e quelle a seguire della post-fazione di francesco marotta: “…tutte “emersioni” a fior di lingua di un implacato fluttuare inconscio, del lento, persistente trascorrere di una materia che è già “oltranza”. Cioè: poesia.”
a chiusura non posso che…passare “la lingua intorno all’orologio”, ché nulla si chiude del tempo goduto…
simonetta bumbi

sabato 23 febbraio 2013

Recensione di Fernanda Ferraresso


Lungo il corso della parola e tra i rami di Ofelia che ancora là fiorisce


Prima delle note sul libro, che oggi presento, una piccola riflessione necessaria, secondo me, per trovare chiavi che sfuggono. Quando infatti si ha l’età di Cristina Bove, e non mi riferisco all’età anagrafica comune ma a quella dell’anima o del demone  interiore, che dunque è inconteggiabile, non si può non contenere l’universo negli occhi, nelle mani e nelle parole. Non posso, dalla distanza da cui a lei mi sento prossima, non vedere quanto con mano ferma tratteggia nitida, apre, spacca e riconduce in luce ed è ciò che è e significa la nostra presenza su questa galassia di abusi, di sconcezze, di infime lordure con cui si cancella l’umanità, in lei ricchissima e irrinunciabile, ma anche di non trangugiabile bellezza. La sua capacità di prendere tutte le erbe del prato e farne un grande mazzo di più voci e suoni profondi, la sua innata e matura abilità di ridere dell’ottusità, delle nostre pochezze oltre ad uno sguardo che irradia la sapienza della semplicità, derivata da una cultura profonda, fa della sua scrittura un polimorfo mondo in cui infero e magnifico riflettono le loro sostanze in ogni forma e sfaccettatura. E’ proprio con questa chiave che ho aperto e percorso tutte le stanze del suo ultimo libro MI HANNO DETTO DI OFELIA, per le Edizioni Smasher. Un occhio particolare meritano anche i trucchi, i salti, persino le interpunzioni che, spesso, sembrano le giuste punizioni per il lettore rapido, che vorrebbe correndo passare oltre,  mentre serve fermarsi, serve chinarsi, a volte scivolarsi dentro, per sentire tutto quanto ha da dire la parola, che altrimenti morirebbe, nel corso di una liquidità senza sostanza, sperdendosi nell’acqua torbida, nell’indifferenza.  Genesi e apocalisse stanno in queste pagine come ramificazioni del pensare dire fare quotidiano, e sono letture che Cristina Bove riprende dagli eventi di cui partecipa con reale profonda compassione e dalla storia. Pathos è per lei sinonimo di qualcosa che non lascia tregua e non confonde il sentire, anzi lo accuisce, ne appuntisce ogni pennino ricadendo in scrittura poetica, non in parola da vetrina o parola in vendita.

fernanda ferraresso

mercoledì 23 febbraio 2011

Francesco Marotta

sulla mia poesia

Ho sempre pensato che la poesia fosse un linguaggio particolare, che offrisse la possibilità di comunicare a parole ciò che non si riesce a esprimere altrimenti.
So che i testi poetici si scrivono per necessità, per non implodere, almeno a me così capita.
Ma estrinsecare il concetto di poesia, non certo presente in me mentre scrivo, non sarebbe stato nelle mie possibilità.
Quindi la mia sorpresa è stata grande nel leggere quanto ne pensa il poeta
Francesco Marotta nel seguente brano, replica a una serie di commenti, 
sul suo blog  La dimora del tempo sospeso "   :
 

“…siamo di fronte a una scrittura all’interno della quale …“anticlimax” è un “passo funzionale” all’espressione complessiva, una funzione di verifica e di controllo della materia e del dettato lirico – finalizzata, in modo consapevole o inconsapevole, a impedirne con estremo rigore il “tracimare”, l’enfasi, l’effetto che nulla aggiunge al ventaglio delle possibilità conoscitive che un testo comunque veicola.

La poetica di Cristina è un attraversamento lucidissimo della grande tradizione italiana novecentesca, ma a “testa sempre molto alta”, guardando “avanti” e non “intorno”. L’intorno suggestiona e, inconsciamente, finisce per legare il “passo” alla fascinazione dei modelli, dei monumenti, o dei ruderi, splendenti che popolano il paesaggio circostante; l’avanti è la fedeltà più intima e conseguente alla “propria” cadenza, al timbro della “propria” voce – il che non significa spogliarsi ad ogni costo delle atmosfere, dei profumi e dei suoni di cui, comunque, ci si impregna nel “passaggio”. Tutto sta nelle “strategie di controllo”, non solo formali, che si mettono in atto, per impedire che il “carico imbarcato” finisca per sostituirsi alla “sostanza” primaria di cui siamo unici e irripetibili portatori. Il testo deve restituire proprio quest’ultima, o non è: sarà anche uno splendido esercizio, ma la “calligrafia” non è, e non sarà mai, poesia. Non è e non sarà mai “stile”, ovverosia la cifra più specifica di una “voce”.


Nelle poesie di Cristina Bove di calligrafico non c’è assolutamente nulla, il che significa che l’attenzione critica alle procedure da cui la forma si origina è ben vigile, attiva. E non solo a livello cosciente, a mio modo di vedere – perché esiste anche una “forma occulta” (che ha i suoi tempi, i suoi modi e la sua sintassi) attraverso la quale l’inconscio, comunque, veicola la “materia poematica”, accentuando o declassando taluni vettori in virtù di meccanismi che solo l’ascolto più attento riesce a percepire e a restituire.

Ed è proprio una “lettura/ascolto” così configurata che permette di verificare l’intersecarsi dei due piani. Da una parte il controllo dei livelli di “vocazione emozionale”; la “restrizione” del campo di azione della tensione che, lasciata a se stessa, sfocerebbe, inevitabilmente, nella “commozione”, nella ricerca dell’effetto e della “complicità”; la chiusura di alcuni spazi verbali (con il significato polverizzato e disseminato ad arte nel gioco riflessivo dei significanti) – tutte strategie dove il “pensiero poetico” agisce in piena consapevolezza, con estrema decisione. Dall’altra, le cadute di ritmo che spezzano una cadenza e frustrano l’aspettativa facile del “canto”, aprendo, contemporaneamente, “spazi impensati” di riflessione che solo il lettore può colmare; la “natura ricorsiva” di alcune strutture testuali, con la conseguente insistenza su determinati termini che accentuano la reiterazione dell’immagine o dell’azione; la percezione, fuori controllo, dell’incompiuto, e l’incompiutezza “perturbante” che affiora a increspare l’ordine del discorso o quella che appariva, a tutta prima, come la più “naturale” delle aperture e conclusioni di senso – tutte “emersioni” a fior di lingua di un implacato fluttuare inconscio, del lento, persistente trascorrere di una materia che è già “oltranza”. Cioè poesia.

fm