martedì 15 dicembre 2020

Una donna di marmo nell'aiuola - prefazione di Annamaria Ferramosca




      Contro ogni marmo non resta che mendicare il sogno dei folli e dei poeti

Tra opere d’arte varia (pittura, scultura, video-art) e dopo tre raccolte di poesia pubblicate e il successo del romanzo autobiografico Una per mille, la poliedrica artista Cristina Bove ritorna alla poesia con questo nuovo incandescente libro, frutto di un imponente lavoro di introspezione e percezione del mondo e del suo senso.
 La donna di marmo nell’aiuola è proprio lei, l’autrice, che inscena il grandioso spettacolo della vita e pure la sfera oscura dell’oltrevita, indagando l’essenza dell’umano e del mondo, incalzando con testi serrati la stessa esistenza a rivelare il versante indicibile, tutta la sua assurdità, perfino ad ammetterne il possibile non-sense. Attraverso un andamento simil-poematico che procede per testi separati, ma che risultano tutti interconnessi e senza rompere l’opera in sezioni, Cristina Bove dipana le sue interrogazioni metafisiche e lo fa con toni lievi, quasi dialoganti, e con una continua sottile ironia, che salva la scrittura dal rischio di sconfinamento filosofico.
Ritorna la sua visione cosmica - gli esseri come frammenti di infinito nell’infinito – o come lembi vaganti di pensiero o anche nomi in volo che aspettano di essere riconosciuti, comunque minime cosmiche entità in un continuo gioco del ritrovarci dopo esserci persi. Una verità ineludibile, che gli umani continuano a non vedere, perché oscurata dai guasti che essi stessi insistono a perpetrare sul mondo, quasi in una maledetta coazione a ripetere, un destino gramo che fa dimenticare l’immenso da cui si proviene. Ecco perché l’autrice dichiara di restare in attesa dell’andata e del non ritorno, come per ritornare alla serenità dell’origine, e di sentirsi già nel momento del trapasso tra fuoco e ghiaccio, chiedendo per sé solo un prato di giunchiglie (l’aiuola del titolo, metafora di uno spazio di pace). La ricerca di senso accade per visioni oniriche e sprazzi dal sapore profetico, con figure di creature mitiche che nel ricordo della poetessa emergevano dalle mura domestiche già dalla lontana infanzia e che - come simboli di illusione – la informano della possibile totale inconsistenza della realtà.
e non si appare che vestiti vuoti
appollaiati alle finestre
vapori a fil di vento
a tessere giornate in spazi assenti

città dipinte nei colori onirici
intorno a tutti i sé temuti e amati
-ci si può stare in tanti –
suggeriscono strade sul confine
oltre le cose conosciute e solide
varchi da cui si possa intravedere
un altro esistere               - forse -            (n.9)
E l’ironia, che a volte sconfina nel sarcasmo, è il corrimano cui Bove si aggrappa per resistere al senso di vuoto che avverte, devastante, come nei versi
L’aria che avvolge i corpi
è il calco d’ogni forma
-una fusione a cielo perso -   
e
anime confinate nei minuti
- lo spazio, un vuoto a rendere -         (n.11)
 Perfino il possedere una stanza tutta per sé, di woolfiana memoria, non basta a diradare la nebbia persistente. Restano i bambini, figure-archetipo della pura percezione della verità, a intuire e suggerire, e resta l’amore, che in questo buio-luce è ineliminabile fuoco. Anche se dell’amore non si può dire - di fronte alle macerie umane che sommergono - sia per eccesso di pudore, sia perché è quasi impossibile un vero amoroso incontro, nonostante la vicinanza degli amanti.     

Con il suo naturale andamento metrico in settenari ed endecasillabi e nel lessico l’uso frequente  di termini polifusi,     l’affabulare poetico di Cristina Bove procede in sonora tensione ritmica e forza immaginativa indagando bellezza e fragilità del mondo e scavando nelle pieghe dell’io, snodi cruciali di questa poetica. Bove pure riconosce le difficoltà dello scavo e la distanza che sempre si frappone con il proprio focus di verità, quel “segreto centro” borgesiano, sorgente di suggestioni e tracce rivelatrici, eppure mai completamente raggiungibile.

E centrale appare il testo Desistenze (n.39), dove è inscenato un dialogo tra la poetessa e un altro - non importa chi sia, compagno di vita o amico/a -, in cui il desiderio di ricomposizione di un’interiorità lacerata e pure la fame di salvezza da un sistema esterno che travolge l’umano, si scontrano con la consapevolezza di un destino di solitudine e di finale totale evanescenza. Resta potente la rappresentazione della miseria umana, dell’imperturbabile sordità dei responsabili al potere verso il grido che si leva dagli ultimi della terra. La poetessa si spinge così a prefigurare un’autoestinzione dei viventi, epilogo molto probabile dell’umana vicenda, forse - a parziale discolpa degli umani - con colpo finale dato da eventi catastrofici geologici, quando la Terra vorrà scrollarsi dalle pulci. (n.72)
Si percepisce nettamente da questa scrittura colma d’amarezza l’impronta di una cicatrice non rimarginata, l’esito di un fiero dolore-mancanza che ha capovolto quella capacità di visione che siamo soliti dire “normale”, rendendola acuta e nitida, fino all’incandescenza. E tutto questo accade in un perimetro privato, angusto come è quello domestico, tra un taglio di patate e una pentola lasciata bruciare, o uno sguardo sul giardino fuori dalla finestra: condizioni che qui invece dilatano e accelerano l’acuzie del pensiero, capace di lanciare fuori dal bunker una parola autentica, debordante, memorabile. Il suo ritmo curatissimo, il suo tono ora colloquiale, ora stralunato, dà vita ad una scrittura che Cristina Bove sa colorare di tinte inafferrabili e arcane, come fa con le sue oniriche e rarefatte opere di videoart. Basta soffermarsi sui testi E di siffatte favole dormire (n.59) e Come in un quadro di Chagall (n.60), dove, nonostante tutto, anche in contraddizione con altra tesi poeticamente sostenuta in precedenza, emerge - impellente di necessità - il desiderio di vicinanza e sostegno affettivo. Così la poesia di Bove lascia sottendere che, soprattutto in poesia, occorre fare i conti con la contraddizione, che non è altro che uno specchio della molteplicità del reale. Dal grigiore ci si può infatti sollevare volando, magari con le labili ali di Icaro che ci faranno ammarare senza salvagente, ma con la consapevolezza che ci sarà concesso di guardare quella turbolenza all’orizzonte, ultima parvenza di una possibile realtà benigna.
nel tempo limitato degli sguardi
nello spazio di cose sottoscritte
l’angelo che ci assiste se ne va
toccato e arreso
 ci lascia sopraffatti dalla vita
 spenti alla luna, accesi in altri mondi
ciascuno nella propria solitudine            (n.40)
Tutto il libro si rivela dunque un cammino che esplora senza paura i tanti aspetti del buio che ci sommerge, una voce familiare che sembra prenderci per mano, che ci lascia pure una sua ultima accorata richiesta di perdono e infine lancia una sorta di aperta profezia, che la vita forse sarà sempre un mendicare il sogno dei folli e dei poeti. (n.49)
Cristina Bove ha saputo costruire in questi nostri giorni disastrati e disconnessi un raro ed esemplare modello di poesia sul senso dell’esistere, con una scrittura limpida, coraggiosa, fuori da ogni maschera. Offrendo la propria inquietudine e la propria elaborazione poetica, e insieme una soglia raggiunta di serenità, la poetessa ha sospinto la parola oltre i confini della finitezza, laddove la sua comunicazione si fa più acuta e il senso intravisto degno di memoria. E’questa oggi la responsabilità che si richiede alla poesia.
                                                                                          Annamaria Ferramosca 
 

lunedì 30 novembre 2020

"La simmetria del vuoto" Recensione a cura di M. Carmen Lama

 

Cristina Bove - La simmetria del  vuoto - Arcipelago Itaca

 

 

Una silloge che si presenta in modo inusuale già dal titolo, questa di Cristina Bove, edita da Arcipelago Itaca nel 2018: La simmetria del vuoto.

Ma come fa il vuoto ad essere simmetrico? Come fa Cristina Bove a immaginare di poter attribuire al vuoto delle caratteristiche topologico-geometriche come la simmetria?

E poi, quale tipo di simmetria ha in mente Cristina? Quella speculare, o rotatoria-radiale, o traslatoria che si usa nell’arte pittorica? 

Certo è che si tratterebbe, nell’arte poetica, così come nell’arte pittorica, di dare equilibrio e armonia all'opera in cui si utilizza, cosa che certamente riesce in questa silloge all’autrice.

Ma è l’immaginazione del vuoto sottoposto a qualsiasi operazione, geometrica o artistica o d’ogni altro tipo, che pone un dilemma: si può dare una forma, qualunque essa sia, a qualcosa che non è?

O il vuoto ha consistenza? E se sì, di che particolare “materia” si tratta? E dove si trova il vuoto? Avrà un suo luogo dove poterlo osservare o è solo un’illusione meta_fisica? 

Ecco, cominciando da così tante domande, si intuisce che si sta per entrare in un mondo tutto da esplorare, da scoprire e da com_prendere.

E che bisogna munirsi di strumenti sofisticati per riuscire a venirne a capo. 

Nella silloge non c’è alcuna poesia che faccia esplicito riferimento al concetto di simmetria del vuoto. Tutte le poesie, però, hanno caratteristiche abbastanza simili, non tanto nella struttura compositiva, quanto nell’adattamento dei versi a quel che viene trasmesso, sia pure senza una vera e propria consapevolezza intenzionale.

La confrontabilità delle poesie sul piano dell’intreccio formale e contenutistico-emozionale, che è quanto arriva al lettore (parlo per me, in questo caso, ovviamente), balza così in primo piano che se ne potrebbe fare una rappresentazione visiva attraverso uno schema, semplicemente servendosi di versi-chiave: alcuni che mettono in evidenza un vissuto di sofferenza psichica, ma non particolarmente accentuata, bensì quasi sfumata, altri che tentano un’evasione in qualche oasi di positività, così da equilibrare il senso di malessere che pervade l’animo.

Darò soltanto alcuni esempi, per rendere più chiaro quanto appena scritto, che rimanda alla mia personale percezione:

e dirsi in versi

forse nel tentativo di sottrarsi

non solamente al male

ma anche alla terribile bellezza

che annichilisce e ammalia (pag. 14)

vestirsi del saluto d’ogni giorno

scriversi addosso che la vita è vita

se si rimane svegli

dagli ibridi parlanti   dalle parole obese

dalle follie diacroniche

mi allontano _spossata_ (pag. 15)

vestita solamente del mio dire

ché preferisco tinte delicate

se proprio devo esprimere un pensiero

ciò che nessuno vede per davvero

è la prigione dove stagna il cuore (pag. 24)

trovare pace in zone misteriose

dove si fa preghiera l’intelletto

e senza più parole

dire di sé quanto rimane acceso

 

raccolsi ogni tuo modo di morire

non potevo sapere

quanto ti avrebbe consentito il vivere (pag. 62)

Ed in quell’altro modo ch’è restare

sfogliandosi di tutte le risposte

scriversi un colorato ricordare

braccata dalla nostalgia

si percepiva sempre più straniera (pag. 69)

_ne verrai fuori_

dissero dalla luce sopra il pozzo

in cui precipitò

[…]

come in un fermo-immagine

vede con gli occhi chiusi

luminose nonforme ad aspettare

Vagabondare intorno ai propri passi

nel guscio della casa

o starsene sospesi  (pag.73)

si va restando immobili nel corpo

si sta mentre si spazia oltre il sensibile

nell’universo dell’iperesistere

la strada andava ed era in viaggio il suolo

correva sotto il premere dei passi

_a volte mi mostrava denti aguzzi_

ingranaggi serpenti

capelli di medusa nello specchio

ed io guardai

[…]

la mia canzone già precipitava

-hai visto- disse il monte dalla vetta?

-hai visto come cade giù la sera?-  (pag. 76/77)

Ma distolsi lo sguardo

misi il pensiero in stallo

vidi me stessa uscire dalla roccia

e fui soltanto un ruscellare d’acqua

 

E si potrebbe continuare con molti altri simili modelli.

Ma preferisco passare a dare spazio “anche” ai pensieri di Cristina, così come li ha esternati in alcuni versi:

ci si ammalava di pensieri morti” – p. 39

pensiero ricorrente che attanaglia” – p. 68

“_era una volta liscio ogni pensiero_” – p. 72

“_le scorte di pensieri andate a male_” – p. 74

tra cocci di pensieri” – p. 84

 

Questi pochi versi evidenziano quale modalità di pensiero sia sottesa alla percezione della realtà da parte di Cristina, in questa particolare silloge.

Non ci sono poesie in cui si possa cogliere la delicatezza del porgere il proprio malessere senza farlo trapassare nel lettore, perché subito stemperato dall’ironia; ironia che, nelle precedenti sillogi, era più “dominante” e smussava, appunto, ogni pensiero pietroso, aguzzo, che incideva ferite nell’anima della poetessa e che, per questa sua dolorosa caratteristica, doveva essere in qualche modo neutralizzato. 

Qui si coglie invece quasi una rassegnazione, una disillusione e, per contrasto, una precisa consapevolezza dell’irrimediabilità delle spine del tempo, delle sue lacerazioni e dei suoi strappi, della sua continua limatura del corpo ma anche degli stessi pensieri. 

Quasi mai il tempo è esplicitamente menzionato. Ma se ne coglie tutta la sua forza e pesantezza e nello stesso tempo tutto il suo sfuggire senza mai lasciarsi guidare né tanto meno dominare.

Il tempo infatti non fugge, ma semplicemente sfugge. Quanto più si vorrebbe agguantarlo, tanto più sfugge alla nostra presa. Ed è questa nostra incapacità di incidere almeno un poco sulla realtà, dominata dal tempo che la usura, quel che ci lascia interdetti e impotenti, specialmente mentre sentiamo che l’anima non si lascia sottomettere, anzi cerca ancora spazi per sé, non più scalpitando, ma chiedendo soltanto giustizia.

Ma poi, no. Si accorge, con una piena evidenza, non consentita alla mente, che  il vuoto, compatto o rarefatto, comunque sia è perfettamente sovrapponibile e coincidente con se stesso in ogni punto, in ampiezza e in profondità. E se suddiviso idealmente in due metà, è davvero anche simmetrico e sovrapponibile a specchio. E se immaginato sferico, sovrapponibili saranno gli spicchi di vuoto.

E l’anima sa anche che è inutile chiedersi dove esso si trovi.

Perché non si saprebbe dove trovare le risposte. Non si saprebbe dove cercare, non certamente in qualche modalità esperibile nel concreto, con tanto di sperimentazione, né in modo logico-formale.

E neppure nella geometria.

E tuttavia, l’anima sa bene cosa sia il vuoto, anche se la mente non sa definirlo o localizzarlo.

Perché è proprio lei che ne subisce gli attacchi.

Il vuoto toglie la consapevolezza di essere quel che si è, ci fa sentire nulla, un vuoto, appunto! Che tautologico mistero!

A volte, è talmente insopportabile la sua insidia che tentiamo di colmare tutte (crediamo…) le sue concavità e asperità, siamo portati a pensare che somigli un po’ al silenzio assoluto e per questo lo riempiamo di parole. Talvolta soltanto di pensieri.

Non ci accorgiamo, però, che ogni volta rimangono angoli fessure depressioni imbuti di vuoto che non riusciamo a raggiungere, perché sfuggenti sempre oltre, in direzione di uno sbocco “naturale” nell’infinito, perché tale è la sua essenza e dimensione: l’infinito.

Inutile provare ad ampliare i nostri raggi d’azione. Siano pur raggi luminosi, come le poesie di questa silloge, non ci conducono mai fino agli estremi limiti, nonostante in qualche modo sentiamo una specie di promessa di vittoria e per questo mettiamo in campo tutti gli sforzi necessari.

Ma il risultato non cambia. La nostra volontà è insufficiente, anche se è lodevole esplicarla al massimo.

Alla fine bisogna arrendersi, spossati, insoddisfatti. Proprio come fa Cristina Bove che, pur cercando spiragli di luce, di benessere, sa che sono provvisori, effimeri, illusori.

Ma ciò non vieta di riprendere nuovo slancio e riprovare ancora e ancora e ancora… magari con la scrittura di nuove poesie che, a loro modo, si configurano come un antidoto al tempo che ci travalica, ci oltrepassa. Al tempo che forse ci permetterà soltanto di fare -da soli- gli ultimi passi, abbandonando, lui-subdolo, la nostra pur fragile presa.

Intanto ci sentiamo come esseri in dissolvenza… con l’amara consapevolezza che niente e nessuno ci potrà trattenere dallo scivolamento…

Forse la sensazione di vuoto è costitutiva dell’animo umano, come la solitudine.

Ora non so con precisione da quali sensazioni, emozioni o atmosfere Cristina Bove sia stata attraversata scrivendo le poesie di questa sua raccolta, né in che modo abbia voluto intenderle.

So soltanto, e senza dubbio, che questa mia interpretazione risente moltissimo di mie suggestioni, mentre Cristina avrà forse scritto con altri intenti e con altre sue percezioni.

Ma la poesia vive di vita propria ed è efficace ed incisiva se dà al lettore quel che egli chiede.

A me, la lettura delle poesie di questa peculiare silloge ha dato quel che ho voluto/potuto sentire in questo momento, in questo tempo ingrato che, oltre ad essere il mio specifico tempo, è anche un tempo universale, un tempo che si aggira per il mondo eludendo i suoi obblighi e le sue promesse, mentre, con irresolubile nonchalance, anche (e soprattutto!) raggira.

E ci lascia vuoti, completamente vuoti di senso, del tutto disincantati. Noi, brevi segmenti di Tempo, sottilissime linee di demarcazione fra il nulla che ha preceduto l’inizio della nostra vita e il nulla che ne seguirà la fine.
Noi, linea di mezzo | specchio in cui il vuoto del prima riflette esattamente, simmetricamente, il vuoto del dopo. Vladimir Jankélévitch
docet!



(Robbiate, 21.12.2020)

venerdì 4 settembre 2020

Prof. Giuseppe Martella

  

> PROFILO DIDATTICO <

Ha fatto parte delle commissioni di esame e di laurea; ha inoltre seguito numerose tesi di laurea di argomento vario, specialmente sulla drammaturgia elisabettiana e sulla poesia e la narrativa del Novecento. Ha anche fornito assistenza e orientamento agli studenti nelle loro ricerche e nella formulazione dei piani di studio individuali, con successiva verifica e correzione degli stessi.

Tra gli argomenti dei seminari e dei corsi tenuti ricordiamo: la teoria estetica e la metodologia critica di I.A. Richards, sulla poesia di S.T. Coleridge, la poesia di W.B. Yeats, il poeta italo-americano contemporaneo Enrico Garzilli (in collaborazione con la prof. Angela Giannitrapani ha curato la pubblicazione di un poemetto di Enrico Garzilli, corredandola con un saggio introduttivo, cfr. bibliografia); l'applicazione alla letteratura della nozione di "paradigma" di T.S. Kuhn, e l'applicazione dell'analisi del discorso e della teoria degli Speech Acts allo studio dei testi drammatici, il dramma shakespeariano in rapporto alla cultura dell'epoca. (Hamlet, Mac beth, King), il dramma storico shakespeariano con l'analisi del discorso nel testo drammatico, utilizzando metodi tratti dalla linguistica, dall'etnometodologia, dalla sociologia dell'interazone quotidiana (in particolare gli incipit delle tragedie di Shakespeare), il "Rinascimento ed età elisabettiana", l'episteme rinascimentale servendosi degli studi critici di J. Burkhardt, E. Cassirer e M. Foucault, soffermandosi specialmente sul concetto di "allegoria", e istituendo anche dei paralleli con l'uso che ne hanno fatto autori moderni, come J.L. Borges. Ha inoltre trattato lo studio del testo poetico, utilizzando in particolare le metodiche di R. Jakobson e J. Lotman (W.B. Yeats e T.S. Eliot.), si è occupato di ermeneutica epistemologia e decostruzione; del modernismo (W.B. Yeats, T.S. Eliot, W.H. Auden e J. Joyce).

> PROFILO SCIENTIFICO <

Dal 1979 al 1986 Giuseppe Martella ha fatto parte di un gruppo di ricerca interuniversitario sotto la direzione del prof. W.N. Dodd. Il programma del gruppo aveva come obbiettivo finale la ridescrizione delle convenzioni del testo drammatico, mediante l'uso di strumenti di analisi tratti dalla linguistica, dalla etnometodologia, dalla sociologia dell'interazione quotidiana, dalla filosofia del linguaggio, ecc; e mediante esempi tratti dalla drammaturgia inglese nel suo complesso ma specialmente da quella elisabettiana. Uno dei problemi maggiormente studiati concerneva l'insieme delle strategie messe in opera dal drammaturgo nell'incipit per introdurre lo spettatore nel mondo fittizio del dramma - strategie che si configurano diversamente a seconda che si abbia a che fare con poetiche dell'illusione o, piuttosto, di straniamento. L'impostazione della ricerca era molto articolata e aveva notevoli potenzialità, che sono state solo parzialmente sfruttate. Tuttavia, allo scopo di verificare le strategie dell'incipit in un corpus compatto e sorretto da una poetica coerente, il gruppo ha svolto uno studio sistematico dei drammi di Shakespeare, i cui risultati sono stati raccolti in un volume pubblicato col titolo: Interazione, dialogo, convenzioni: il caso del testo drammatico, Bologna, CLUEB, 1983. Nell'ambito del progetto collettivo, si è poi dedicato, in collaborazione con P. Pugliatti, allo studio dei drammi Shakespeare sulla storia inglese. Su quest'argomento ha pubblicato alcuni saggi.

L'altra principale area di ricerca cui Martella si dedica da una decina d'anni, concerne la narrativa e la poetica di Joyce. Dal 1985 al 1990, infatti, ha partecipato a una ricerca interuniversitaria su "La scrittura e la critica di Joyce", coordinata dal prof. T. Kemeny. La ricerca si proponeva di esplorare diversi aspetti della coerenza dei testi di Joyce, al di là della loro talvolta apparente frammentarietà. Nell'ambito di questa ricerca, ha lavorato in particolare sull'Ulisse, concentrandosi sui modi in cui il "romanzo" di Joyce esprime la crisi epistemologica del Novecento. Come risultato di questo studio, ha pubblicato diversi saggi.

L'oggetto principale d’interesse riguarda tuttavia la teoria della rappresentazione sia narrativa che drammatica, con particolare riferimento all'Ulisse di Joyce, e alle conseguenze che se ne possono trarre per la poetica dell'autore. Allo scopo di approfondire lo sfondo teoretico delle proprie ricerche, e per un'esigenza già da lungo tempo da lui avvertita, si è dedicato, almeno dal 1986 in poi, allo studio di diversi classici della storia della filosofia, con l'intento di acquisire il lessico e gli strumenti concettuali necessari per poter delineare lo schizzo di una teoria "evenemenziale" della rappresentazione in grado di corrispondere alle strutture linguistiche e agli effetti di senso dei testi joyceiani, e modernisti in generale. Si trattava infine di una teoria dei rapporti fra metafora (intesa anche come metanoia, shock etico-conoscitivo) e mito (inteso come funzione portante della continuità della coscienza), e delle loro possibili articolazioni, in quanto poli complementari e reciprocamente irriducibili del discorso nei vari generi, vecchi e nuovi, di rappresentazione. E si trattava anche di trarre le implicazioni che tali rapporti hanno per le poetiche narrative e drammaturgiche del Novecento, allorché i generi letterari tradizionali subiscono l'impatto netto dei nuovi mass media. Un problema perspicuamente posto da Benjamin negli anni trenta e non ancora adeguatamente riformulato filosoficamente per le nuove situazioni della significazione e della comunicazione telematiche. Tutto ciò risulta pertinente per lo studio dell'Ulisse, dove si dispiega una vasta gamma dei moderni linguaggi dei media, dalle parodie del giornalismo a quelle della pubblicità.

Questi studi si ricollegano d’altronde alle ricerche sui drammi storici di Shakespeare, che vennero interrotte a suo tempo proprio per l'esigenza avvertita di approfondire i contesti teoretici delle proprie ricerche sul dramma, allo scopo di poter tentare in modo più consapevole una definizione del sottogenere "dramma storico", con riguardo particolare all'epoca elisabettiana. A tale scopo, dal gennaio all'aprile 1985, Giuseppe Martella ha svolto una serie di ricerche, presso lo Shakespeare Institute dell'Università di Birmingham, sulla ricezione della Poetica di Aristotele in Inghilterra durante il Cinquecento: queste ricerche non hanno avuto risultati in termini di pubblicazioni. Nel 1991, ha ripreso la ricerca sul dramma storico shakespeariano come genere, cercando di fissarne alcuni tratti costitutivi attorno alla tensione epistemologica che lo regge: cioè quella fra la verità intesa come corrispondenza fra l'intreccio drammatico e i fatti storici trattati, e la verità intesa come coerenza interna del testo. Questo abbozzo di una definizione del genere e delle strategie usate da Shakespeare per drammatizzare i materiali storiografici, si trova nel saggio su Henry IV.

Martella ha proseguito le sue ricerche sulla narrazione, approfondendo lo studio del mito greco e della sua persistenza e vitalità nella cultura occidentale (cfr. Kereny, Calasso, Blumemberg, ecc.), a partire dai grandi racconti legittimanti della filosofia moderna (Schelling, Hegel, Nietzsche specialmente), passando per le configurazioni narrative e metaforiche della psicanalisi freudiana e per la teoria junghiana degli archetipi dell'inconscio collettivo, per finire con i romanzi otto-novecenteschi. Questi ultimi si possono leggere infatti come pezzi di rimitizzazione in un linguaggio ormai dominato dai concetti e dalle metafore scientifiche, come viene suggerito dalle ipotesi di H. Blumemberg e di altri autori. Tutto ciò ovviamente è stato svolto a grandi linee, data l'ampiezza della materia, e con la consapevolezza dei rischi di dispersione ivi impliciti e dello scotto da pagare in termini di fatica e di immagine, ma se ne è ricavata almeno una lezione di umiltà. Dal punto di vista formale la definizione generale più valida del mito rimane quella data da Aristotele come "l'ordinamento dei fatti secondo verosimiglianza e necessità". A partire da questa definizione amplissima, si è studiato il rapporto essenziale che lega il racconto con la metafora, intesa come messa in scena drammatica (si pensi al mito platonico della Caverna); il nesso costitutivo fra immagine e mondo che in quella si realizza; il nesso ontologico fra autore, eroe e destinatario, intesi come funtivi universali del racconto; e infine il rapporto fra la struttura teleologica dell'intreccio e un'immagine cardine ( o "epifania"), quale si realizza nell'Ulisse di Joyce, alla definizione della cui poetica è infatti finalizzata la ricerca. Ha dunque intrapreso lo studio delle strutture narrative dell'Ulisse che pongono problemi oltremodo spinosi alle analisi strutturali e semiotiche e, come osserva U. Eco (Le poetiche di Joyce), chiamano in gioco l'intero campo delle poetiche novecentesche. Ma, nel mentre cercava di trovare una teoria capace di corrispondere alla novità dell'opera, ha notato che quest'ultima era saldamente radicata nella tradizione letteraria, a partire più che dall'Odissea dalla Bibbia, che riveste nei confronti dell'Ulisse la funzione di modello sia per quanto riguarda i temi, che le figure, che le strutture narrative. La ricerca si è dunque orientata a delineare e a sviluppare un parallelo biblico nell'Ulisse e a discuterne l'importanza per la comprensione del testo. Inoltre si è provato a far apparire alcune fila dell'incrocio fra la componente biblica e quella classica nel testo e di mostrare come la (post)modernità dell'Ulisse sia funzione della sua arcaicità. I risultati di questa ricerca sono stati in parte raccolti nel recente volume edito dalla CLUEB.

Martella utilizza una metodologia eclettica, che tuttavia unifica secondo una prospettiva fenomenologico-ermeneutica. Si serve della tipologia della cultura di J. Lotman, dell'ermeneutica storica e biblica di P. Ricoeur, degli approcci letterari alla Bibbia di R. Alter e N. Frye, degli approcci filosofico-ermeneutici al mito e alla storia della sua efficacia di H. Blumemberg, R. Calasso, M. Cacciari, oltre che di studi ormai classici sui miti, come quelli di Schelling e di K. Kereny, e sulla Bibbia, come quelli di Bultmann e Culmann. Si serve anche di studi di critici della cultura e di teorici della comunicazione di massa, come quelli di W. Benjamin, M. McLuhan, U. Eco, F. Jameson. La terza area principale alla ricerca di Martella, accanto a quelle del dramma elisabettiano e della letteratura modernista, e ad esse complementare, è infatti la teoria della critica e l'ermeneutica filosofico-letteraria, di cui si occupa ormai da parecchio tempo con la pertecipazione a seminari e con la scrittura di alcuni saggi, in parte raccolti nel volume pubblicato dalla ETS.

Dal 1997 in poi, ha lavorato prevalentemente sul modernismo ; Joyce e i generi della Sacra Scrittura ; Joyce e il linguaggio dei media. Ha cercato, nel complesso, di mostrare il nesso essenziale fra tradizione e innovazione nei grandi classici modernisti, e in particolare in James Joyce.

Ha condotto una ricerca sul rapporto fra tradizione letteraria e influenza dei linguaggi della comunicazione di massa nella narrativa, nel dramma e nella poesia di lingua inglese - con particolare riferimento alle opere di Joyce, in cui la tensione fra tradizione e sperimentazione si può cogliere al meglio, come ripresa parodistica, nell’epoca del trionfo della tecnica, dell’intera tradizione letteraria dell’Occidente, che viene proiettata oltre se stessa, in uno spazio di comunicazione mediologico. Tale spazio viene simulato e progettato con grande anticipo, nelle opere maggiori di Joyce : l’Ulisse e il Finnegans Wake. Nelle opere giovanili si possono cogliere segni di questa "preveggenza" di Joyce riguardo alla mutazione in atto nella tradizione letteraria. Una tappa importante, nel processo di rappresentazione di un nuovo spazio iper-letterario da parte di Joyce, è costituita dalla breve "autobiografia" fictional, non intesa alla pubblicazione, Giacomo Joyce. Qui, negli scorci del diario di una infatuazione del Joyce triestino per una sua allieva ebrea, si aprono crepe e abissi nello spazio letterario, che lo rovesciano nella dimensione altra, ipermediale, che lo attende. Giacomo Joyce costituisce l’orizzonte aperto e prefigurato su cui si articoleranno i temi e le strutture delle opere maggiori. Proprio intorno a questo testo poco studiato ruota idealmente la nuova ricerca: Ha appena finito di scrivere, infatti, un primo contributo critico sul  Giacomo Joyce per gli Atti del James Joyce Symposium (Roma, giugno 1998), di prossima pubblicazione.

 

> BIBLIOGRAFIA <


Limiti del diafano. Studi di teoria e critica letteraria, Pisa, ETS, 1990.

"Sul mimo : Ione-Dedalus", Malavoglia, 16, giugno, 1995.

"Postmoderno : Five Fingers Exercise", Malavoglia, 19, giugno, 1996.

"Henry the Fourth : the Frame of History", in Mnema. Per Lino Falzon Santucci, a cura di P. Pugliatti, Messina, 1997.

Ulisse : parallelo biblico e modernità, Bologna, CLUEB, 1997.


"Storicismo vecchio e nuovo", Malavoglia, 19, giugno, 1997.

"Giacomo Joyce : Hypertext and Wisdom Literature", F. Ruggeri, ed., Classic Joyce, Roma, Bulzoni, 1999.

Giuseppe Martella

 

 

> CURRICULUM VITAE <

9 luglio 1974 Laurea in Lingue e letterature straniere presso l'Università di Messina, con una tesi sulla metodologia critica di I.A. Richards.

Dal 2.12.1974 assegno di studio presso l'Istituto di Lingue e Letterature Germaniche della Facoltà di Magistero dell'Università di Messina poi trasferito presso la facoltà di Magistero dell'Università di Bologna, a decorrere dal 12.11.1979.

Dal 1.8.1980 ricercatore confermato, presso la Facoltà di Magistero dell'Università di Bologna. Trasferito, dal 8.5.1984, presso la Facoltà di Lettere dell'università di Bologna.

1994-95 supplenza per l'insegnamento di Lingua e Letteratura Inglese III anno (Facoltà di Lingue e Letterature Straniere, Università di Bologna)

Dall’ A.A. 1995-96 all’ A.A. 1997-98 affidamento per l'insegnamento di Lingua e Letteratura Inglese III (Facoltà di Lingue e Letterature Straniere, Università di Bologna)

Dall’ A.A. 1998-99 associato di Lingua e Letteratura Inglese presso l’Università di Urbino  (Piazza Rinascimento 7 -- 61029 Urbino)

 

 

venerdì 10 gennaio 2020

Anna Maria Curci su "La simmetria del vuoto" - Arcipelago Itaca edizioni

L’equilibrio della sospensione: _La simmetria del vuoto_ di Cristina Bove

C’è un verbo che associo alla poesia di Cristina Bove e che si addice in modo particolare a questa raccolta, _La simmetria del vuoto_. È un verbo che appartiene alla lingua tedesca e, come spesso accade per i passaggi da un idioma all’altro, racchiude molti significati, che non possono essere resi con un solo verbo italiano. Il termine tedesco è schweben, e vuol dire stare sospesi, librarsi, così come, pure, oscillare, fluttuare. Ecco, la dimensione nella quale si muovono e alla quale permettono di accedere i versi di Cristina Bove è sicuramente ‘oltre’, al di sopra (si pensi al «canto al di sopra della polvere» dei Canti lungo la fuga di Ingeborg Bachmann), si muove, si libra, sorvola, conservando tuttavia la piena consapevolezza del bilico perenne, della sospensione su un abisso che può essere fatale, o lo è già stato e dunque si spalanca nell’indaffarata noncuranza della maggior parte dei viventi.
Occorrenze e ricorrenze sono una prova vivida del collocarsi della poesia di Cristina Bove su una soglia tutta particolare. Più che fermarsi al vano di una porta, le immagini prendono per mano e conducono piuttosto sul parapetto di un balcone, sull’impavesata di un veliero, su scogli a picco o, ancora, sul limitare di un bosco insieme incantato e insidioso e, naturalmente, “attraverso lo specchio” di Alice in Lewis Carroll. Già soltanto con il termine “oltre”, ci imbattiamo - mentre la ricchissima tavolozza di Cristina Bove dispiega una formidabile gamma cromatica e ripesca dalla nostra memoria, anche senza menzionarlo, il blu oltremare -  in due composti, «oltresemantico» e «oltreluce». Si tratta di due termini che interpreto come programmatici: occorre aspirare a significato e a chiarezza che comprendano e insieme superino il piano sensoriale.
Altro termine ricorrente è «volo» – e torniamo al librarsi, all’essere sospesi, al sorvolare. Se il volo è da un lato legato a un episodio-svolta nell’esistenza  - «da quella notte del trentuno agosto», leggiamo in 1961 (epilogo d’estate e d’un suicidio) - , come ribadiscono i versi di Immaginaria lettera d’amore:  «: è lì che sei rimasta, passandoti attraverso/ indenne/  così ti vidi nella scia del volo/ cadere tra i gerani  e adesso il velo/ che ti sfigura e quasi ti cancella/ ha il senso che ti diedi _parve una foto in ombra_/ tuttavia/ raccolsi ogni tuo modo di morire/ non potevo sapere/ quanto ti avrebbe consentito il vivere», e gli endecasillabi perfetti di In itinere: «eppure un volo le testimoniava/ di un alfabeto senza le parole», dall’altro esso si manifesta sotto le sembianze di turbinare universale di «sirene pesci girifalchi in volo» nell’(auto)irridente La visione centripeta, in cui «è l’Es che r(ide) e si ridimensiona».
Cristina Bove sembra avvertire chi legge: non ti fermare al primo significato, non ti fermare all’apparenza, abbi il coraggio di scavalcare,< di fare un balzo o scivolare dall’altra parte, in altre parole, semplicemente, di oltrepassare. Questo fa sì che anche coloro che, come chi sta scrivendo,  hanno visto ‘nascere’ molti di questi testi e ne hanno seguito i primi passi, con sentimenti mescolati di empatia e di sorpresa, possano avvertire, a ogni rinnovato passaggio, l’invito ad addentrarsi maggiormente in questo mondo fatto di percezioni chiarissime, ma non liquidabili o esauribili con un atto di mera ragione o con una immediata sovrapposizione, a mo’ di carta copiativa, al dato biografico.
Librarsi a un livello superiore non significa affatto condannarsi ad essere tanto eterei quanto esili, tutt’altro. La poesia di Cristina Bove conosce e pratica la robusta critica alle piccinerie del momento così come alla perdurante ‘tentazione al vanesio’ in multiformi e vuote varietà e, con accenti e versi inequivocabili, al potere rimpinzante e narcotizzante, come avviene in Ipnagogica: « il potere ha lo sporco nelle unghie/ _un supermarket delle  ambiguità_/ distribuzione  di foraggiamenti / appalti e nomine, tanto a pagare sarai sempre tu/  tu prono, col tuo codice fiscale/  illuso d’esser libero/ ma incatenato e con la palla al piede».
Avere acquisito una visione dall’alto (e il prezzo è salato, sconti non ce ne sono, su questo non può sussistere alcun dubbio, leggiamo tra i versi e nei titoli sapidi e creativi; uno per tutti è Affetti collaterali) non è motivo di vano inorgoglirsi per Cristina Bove, ma, al contrario, pungolo di ricerca per un comune denominatore umano, nonostante tutto, o, forse, per una condivisa dimensione ‘oltreumana’, ma senza alcuna forzatura esoterica o vitalistica.  La condizione di «sospesi», infatti, si concorda in questa raccolta quasi sempre con a un «noi» che comprende, che non esclude. Per sé, Cristina Bove assume il compito di cercare un equilibrio nella sospensione, consapevole dell’azzardo e dell’instabilità incombenti: una simmetria del vuoto, appunto,  «_tra due trattini stesi_» (in .mettere un punto).
«E quelli che vivono male e in modo sbagliato il mistero (e sono moltissimi), lo perdono solo per sé e lo trasmettono come una lettera sigillata, senza saperlo», scriveva Rilke in una delle Lettere a un giovane poeta (questo passaggio, nella mia traduzione, è tratto dalla lettera spedita a Kappus il 16 luglio 1903, quando Rilke si trovava a Worpswede): Cristina Bove ha fatto tesoro di questa constatazione e lascia a chi legge la scelta di aprire o lasciare sigillata quella lettera.

Anna Maria Curci