sabato 10 gennaio 2015

Anna Maria Curci - Una per mille

Una per mille

 
Raccontare la vita nelle sue manifestazioni più diverse: se questa formula, da un lato, riassume ciò che pungola chi scrive e attrae chi legge, essa non spiega, dall’altro, le ragioni dell’impronta forte e durevole che determinate narrazioni sanno consegnare all’immaginario e alla memoria. Dice il contenuto, l’oggetto della narrazione, ma non ne dispiega il come. È il come si racconta, ovviamente, a fare la differenza; qui non contano le ricette a buon mercato, le pillole di saggezza anche recentemente dispensate via tubo catodico, le messe in guardia dall’autobiografismo e le distillazioni varie – con l’erborista ovvero dispensatore di grappa letteraria di turno in versione “Così parlò…” – di sottili distinguo circa realismo, verosimiglianza, scelta e trattazione della materia grezza narrativa. È la verità a fare la differenza, quella che Albertine, nel finale di Doppio sogno di Schnitzler, tiene ben distinta dalla semplice realtà, fosse anche la realtà di un’intera vita umana: nel romanzo di Cristina Bove è la verità a guidare sguardo e resoconto, rievocazioni e considerazioni.
Tornando, tuttavia, all’enunciato iniziale di questa nota, è necessario qui innanzitutto porre al plurale l’oggetto della narrazione, perché non di una vita si parla, ma di tante vite, delle linee successive o parallele di chi narra, che si definisce, come recita esplicitamente il titolo, Una per mille. È, inoltre, delle vite altrui che si intesse, procedendo nella narrazione, la trama del romanzo. Sono le esistenze altrui, che attraversano ovvero che rendono sempre piena di sorprese, nutrendola perfino, come nel caso dei quattro figli, la vita (le vite) dell’io narrante. Al plurale sono prese in considerazione, ancora, le dimensioni dell’esistenza, con un’attenzione rivolta all’altro da sé, all’altrove, a modalità ‘altre’ di accesso alla conoscenza, alla dialettica tra istinto naturale e coscienza.

Il duetto tra le due voci più in vista, nell’esistenza così come nella scrittura, dell’io narrante – lo sdoppiamento, si badi bene, è solo una delle sue manifestazioni - accompagna, disegnandone l’articolazione, lo scorrere di eventi narrati, pensieri e ricordi. Si intreccia con considerazioni, sorridenti e ironiche, autoironiche, sul padroneggiare, scrivendo, la materia narrativa.
I luoghi, Napoli, Roma, i colli Albani, Tunisia, Israele, Costarica, serbano e riportano con la forza della verità tutte le vite che li hanno attraversati.
Chi legge, si congeda dall’io narrante con riconoscenza, con un arrivederci e, nell’attesa della prosecuzione del cammino, si volge, tornando indietro, all’incipit del romanzo, bellezza e verità:

«L’uomo nero era il carbonaio del fondaco di via San Gregorio Armeno. Viveva nella stalla con i cavalli alti e neri, sempre a masticare biada con la testa nel sacco. Lui invece il sacco lo portava sulla testa a fargli da cappuccio fino alla schiena.
   Sua moglie, guercia e butterata, vendeva il ghiaccio in un grottino seminterrato.
La bambina aspettava che lo grattasse dal lingottone traslucido e ne riempisse il bicchiere di carta, poi la spruzzata di cedro o granatina. Meglio ancora solo ghiaccio, ché poi la nonna ci metteva le amarene sciroppate.»


Anna Maria Curci

 Una per mille
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venerdì 9 gennaio 2015

Recensione di M.Carmen Lama



Cristina Bove - Una per mille
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«Un romanzo autobiografico scritto sul filo dei ricordi»



Anche nel campo letterario c’è movimento, aspirazione a cambiamenti, in sintonia con il tempo tecnologico in cui viviamo, nel quale ci siamo e non ci siamo, dentro al quale non riusciamo a percepire la nostra stessa consistenza, non riuscendo a tenere i piedi per terra una volta per tutte.
E quando ci sembra di avere raggiunto una meta, che si tratti di apprendimento di nuove conoscenze o si tratti di nuove relazioni amicali, ecco intervenire delle novità inaspettate dalle quali si è inconsapevolmente proiettati in nuove dimensioni o ricacciati in habitat sconosciuti, sebbene quasi tradizionali.
Ebbene, sensazioni simili possono essere sperimentate anche leggendo nuovi romanzi.
Quello di Cristina Bove che mi accingo a recensire ne è un esempio. Molto interessante, tra l’altro, perché del tutto singolare.
Tuttavia, di una singolarità anche plurale. E già dal titolo se ne può percepire il senso.
Una e mille. Dà l’idea di una rifrazione prismatica di colori e, seguendo quanto recita una significativa poesia di Emily Dickinson, “il prisma non trattenne mai i colori, li udì solo giocare”, ci sentiamo -contemporaneamente all’autrice- trasportati, dalle mille rifrazioni prodotte dal prisma, da un colore all’altro dei ricordi, che nella strategia d’insieme del romanzo, fungono da tessere sparpagliate di un puzzle (un gioco in piena regola, dunque…) e richiedono una loro precisa collocazione.
Ma, si badi bene, non una collocazione in ordine cronologico che potrebbe risultare noiosa quanto scontata, bensì una collocazione che dia luogo all’immagine di una vita e che possa essere scomposta e ricomposta molte volte, ricostruendo ogni volta immagini diverse e tutte aventi pieno diritto ad essere prese per buone, perché esplicative di un senso profondo di un’esistenza.
Al punto che, dopo la prima lettura seguendo l’ordine dei capitoli, si possono sperimentare altre modalità di lettura seguendo soltanto il proprio istinto, partendo ad esempio da una frase che colpisce per l’immediatezza e la veridicità dell’esperienza narrata. Oppure seguendo un ordine del tutto personale, a seconda del sentire del momento. E non occorre pertanto neanche il rimando (che sarebbe in qualche modo forzato) da parte dell’autrice, da un capitolo ad un altro preordinato, come è nel romanzo di Julio Cortázar, Il gioco del mondo (Rayuela).
Una caratteristica che balza immediatamente agli occhi, dopo la lettura dei primi capitoli, è una sorta di sdoppiamento della narratrice e protagonista delle vicende raccontate, che è evidenziato dalla scrittura normale alternata a scrittura in carattere corsivo. È una modalità, questa, a cui  non siamo abituati. È come se ci fossero effettivamente due autrici e due protagoniste, la cui vita, peraltro, “si frammenta in mille pezzi”, a volte nel senso letterale dell’espressione, per risultare alla fine una composizione armonica, come fosse un brano musicale.
Per restare nell’ambito della metafora musicale, vorrei sottolineare come la melodia che risuona nell’aria, pur composta da note a volte dissonanti (ad esempio, quando l’autrice narra eventi traumatici o tragici), non stride, ma segue l’andamento e l’effetto di quel che sta accadendo.
Come quando si ascolta La mère di Debussy, per intenderci. Laddove la musica rigenera le onde tempestose e, mentre si è consapevoli che si sta ascoltando un brano musicale, pur tuttavia si ha netta e vivida l’impressione di trovarsi su una spiaggia ad ascoltare il rumore assordante e continuo delle onde che si accavallano minacciose.
È un romanzo con colori cangianti, proprio come la superficie del mare in una giornata primaverile.
Cristina Bove, inoltre, come Gabriel Garcìa Márquez, con il suo “Vivere per raccontarla”. Con gli opportuni distinguo, perché Cristina non ha vissuto e non vive per scrivere, ma scrive per vivere.
E questo romanzo è stato il suo primo esercizio di vita, in prosa poetica, che ha rappresentato una sorta di sfida con se stessa mentre costituiva una sorta di gioco virtuale con il quale intratteneva piacevolmente i suoi lettori più assidui e affezionati, come la sottoscritta.
Ma la novità e l’originalità del romanzo non potevano passare inosservate.
Cosicché la proposta della pubblicazione da parte delle Edizioni Smasher costituisce certamente un giusto riconoscimento del valore di un’artista quale dimostra di essere Cristina, in ogni campo nel quale si cimenta.
Ma torniamo all’analisi degli aspetti salienti e originali del romanzo.
I dialoghi e la struttura complessiva, ad esempio.
Quanto ai dialoghi, colpisce la sequenza scarna, priva di riferimenti ai singoli interlocutori e alle rispettive frasi, pur tuttavia, non solo si coglie chiaramente chi sta parlando e cosa dice esattamente, ma ci si coinvolge a tal punto nella conversazione che sembra di essere presenti ad ascoltare, e basta solo muovere lo sguardo dall’uno all’altro per non perdere neppure quegli elementi psicoinconsci dei parlanti che completano il senso vero e profondo del discorso, come i gesti o il tono della voce.
La struttura del romanzo la definirei a cerchi concentrici e concatenati. Se ne prende coscienza man mano, ma se ne ha conferma ovviamente al termine del romanzo.
In qualche sezione alcuni cerchi si sovrappongono parzialmente, e ciò avviene ad esempio, quando si riprende un ricordo e lo si rigira da un altro lato, mostrandone una diversa sfaccettatura. Può essere identico il luogo, o uno dei personaggi, ma cambia il fatto narrato. E questa peculiarità corrisponde, credo, ad una vera e propria strategia narrativa, che non solo consolida i legami tra i vari capitoli, ma serve anche a tenere desta l’attenzione del lettore e il suo coinvolgimento, anche emotivo.
Alcuni capitoli sarebbero da analizzare a parte.
Verso la fine, ad esempio, c’è un capitolo che mette i brividi. Si parla di una seduta spiritica. Personalmente, sono molto scettica in questo campo, penso a suggestioni o qualcosa di simile, ma non posso fare altro che credere a tutto quello che è descritto, perché è troppo verosimile. Quantomeno... il modo di raccontare tutta la scena è più che realistico, accidenti!!!
In un altro capitolo, introdotto semplicemente dal  suono del campanello di casa, vi è una interessante discussione / riflessione sulla religione e i suoi annessi e connessi.
Mi ha fatto tornare alla mente un libro di Jung (Tipi psicologici) laddove Jung colloca il mito religioso nel giusto alveo, il mito appunto, di cui l'uomo da sempre si serve per necessità sua propria, tranne che, passati millenni e millenni, dopo che la necessità individuale è stata condivisa e ne è scaturito un mito collettivo, non si ha più memoria delle origini e si assume come dato di fatto, prendere o lasciare.
Colpisce il modo in cui l’autrice ne parla perché si sente la piena consapevolezza e convinzione delle sue affermazioni, compresa l’invenzione del cestino cosmico e il click per eliminare, fosse solo possibile…!
Il romanzo si caratterizza poi anche per altri due aspetti importanti che non voglio tralasciare.
Il primo è l’aspetto didascalico che assumono alcuni capitoli e che si apprezza soprattutto perché se ne nota l’assoluta “mancanza di intento”. L’autrice si limita, cioè, a narrare e a riportare le sue osservazioni critiche o il suo modo di vedere le circostanze e quel che le accompagna, comprese le conseguenze, e intanto appare come affiorare in superficie un insegnamento che si può trarre da quanto accaduto. Questa modalità, quasi inconsapevole, risulta leggera, non impositiva e dunque particolarmente incisiva.
Il secondo è l’aspetto culturale, anche questo non forzato, ma naturalmente consequenziale a quel che si sta narrando. La sua importanza è rintracciabile nel fatto che, al di là del voler esibire il proprio mondo formativo, (cosa che non è), se ne coglie tutta la profondità e l’estensione, che peraltro è già evidente nel lessico fine, da romanzo di alto livello culturale, appunto.
Con questo primo lavoro in prosa, per quanto fin qui evidenziato, collocherei in modo quasi naturale l’autrice nell’ambito delle seguenti riflessioni, scritte da me in altra occasione:
«Nel breve intervallo dell’esistenza, ciascuno di noi assume delle caratteristiche comportamentali proprie trasmesse inizialmente dall’ambiente familiare, ma assorbite anche dal contesto  sociale a partire dall’infanzia e, in modi inconsci, anche nell’età adulta, quando si crede di essere invulnerabili, di avere delle opinioni personali o delle idee da difendere e sostenere.
In realtà, siamo immersi in una miriade di relazioni che ci sottopongono a specifiche reazioni, spesso diverse a seconda dell’interlocutore, anche su fatti o argomenti identici.
Eppure ogni individuo si riconosce come se fosse dotato di una specifica identità, che gli appartiene e lo fa essere quale è.
Noi stessi teniamo a distinguerci dagli altri per la nostra specifica personalità che a volte identifichiamo quasi con l’ambiente di vita e crediamo di essere come siamo per aver introiettato i più minuti dettagli del nostro ambiente anche naturale, oltre che sociale; pensiamo di essere un po’ anche i luoghi da dove veniamo, i luoghi che amiamo, quelli da cui abbiamo ricevuto una sorta di imprinting.
Dal punto di vista psicologico, appare rassicurante sostenere che si ha (si è) una precisa identità. È come se si fosse attrezzati per sostenere le sfide più impegnative e difficili della vita.
E invece, bisognerebbe ricordare la lezione di Henri Louis Bergson: In ogni istante della nostra vita noi siamo diversi, ci cambiano le coordinate spazio temporali, in funzione della resistenza della vita sulla morte. Per questo continuiamo ad evolvere, fino al raggiungimento di una maturità tragica”».
(La tragicità sta ovviamente nel comune destino di tutti gli esseri umani).
Cristina Bove incarna precisamente questa pluralità, pur nel continuare ad essere quell’una che è.
Questa una e mille Cristina (immersa/e nel romanzo che rispecchia la sua poliedrica vita) segue un percorso lineare o accidentato, (a seconda dei punti di vista sulle cose di volta in volta narrate), che è sempre coinvolgente, a diversi livelli: nell'apparente passaggio senza un legame cronologico da un fatto a un altro, c'è invece un nesso che chiamerei "memoriale", nel doppio significato del termine.
In primo luogo, perché la memoria passa tranquillamente da un fatto a un altro, soltanto grazie a un'associazione di un'immagine o di una parola o di un'atmosfera o altro, seguendo in questo percorso il movimento imprevedibile pel pensiero.
In secondo luogo, perché alla fine ne viene fuori un vero e proprio memoriale.
Molto bella e poetica, inoltre, è anche la creazione del suo mondo fittizio, parallelo alla vita reale. Anche in questo caso, non è la bellezza in sé del mondo inventato che colpisce, bensì il fatto che il tutto rimanda mentalmente alla mente che ci sta dietro, alla creatività dell'altra mente (quella dell’autrice) e si resta come in apnea.
Ma nonostante questi continui sbalzi dal reale al virtuale al fantastico, e sbalzi anche spaziotemporali, Cristina Bove segue una sua bussola mentale e procede sicura senza  mai smarrirsi nel labirinto in cui si muove, senza perdere il filo che la condurrà all’uscita. Che anche in questo punto è peculiare: perché il suo è un romanzo che non ha ancora la sua fine.
Al lettore il compito di immaginare… di andare avanti e oltre… accompagnando Cristina, con piacere e sintonia, in questa sua originale e avvincente avventura intellettuale e umana.
M. Carmen Lama, 22 novembre 2013




recensione di Gianluca Garrapa







Il romanzo di Cristina Bove inizia descrivendo L’uomo nero. L’uomo nero è anche il titolo del primo capitolo-racconto. Ogni capitolo porta, almeno nell’indice, come titolo, le prime parole del capitolo stesso. Un procedimento tipico della poesia. Cristina Bove è poetessa e scultrice, manipola la materia dei pieni e dei vuoti, e anche il linguaggio del romanzo modella luci e buio.
Presenze di carne e anche fantasmi, simili a quelli della copertina, opera della stessa Bove. Questi fantasmi… sono reali! Sono davvero il rapporto che la donna-che-scrive ha con la propria capacità di godere e amare il proprio passato, il proprio passare sotto i nostri occhi. L’uomo nero sembra rievocare anche la nostra infanzia, in realtà è un carbonaio in carne e ossa: è spiazzante. E lo spiazzante ritorna spesso, con delicato contrappunto all’apparente linearità dei ricordi. Ricordi, sì, ma non c’è posto per la nostalgia melensa, per storie strappalacrime, anche se non possiamo evitare di innamorarci di questo divenire-donna dall’infanzia a ora, attraverso momenti davvero brutti ma sorvolati con la leggerezza di uno spirito che disegna gorghi senza lasciarsene affogare. La storia di un’identità dai primissimi anni fino all’adesso del romanzo che non chiude, che non può terminare. C’è la realtà di una vita, il mistero che si nasconde, che stupisce, gli ‘spiritelli’ e anche la percezione extrasensoriale del dolore e morte altrui, che è la diretta conseguenza della capacità di contatto umano, della consapevolezza degli altri, esperienze inspiegabili, ormai, in questo mondo materiale e rotto al magico. 
La vita descritta come un’autobiografia sperimentale, per alternanza, come lo sono i ricordi. Che appaiono dislocati, spostati, come in un’immensa città interiore in cui tutto è velluto, carnale, identico e opposto. Vario. Leggero. Umano.
I luoghi sono tanti. Le atmosfere cambiano. Transvolate continentali. Paesaggi desertici e guizzi fluviali, solitudini urbane e divertimenti in resort accarezzati da mari esotici, ma anche il freddo e narcisistico web, lo studio di una psicanalista e la stanza di cloro e sofferenza di un ospedale.
Incalzante il ritmo, dove non c’è solo il lettore che legge e una scrittrice che scrive. C’è anche un fantasma, l’ennesimo, in carne e ossa, che legge nel pensiero della scrittrice, che commenta, che segue e che a volte prende in giro la pretesa di fermare i ricordi così come si sorride del bambino che vuole, ingenuo, riporre tutto il mare nel secchiello. C’è sempre un dislocamento tra persone, insomma: l’autrice che scrive e il fantasma-incarnato che scrive di lei-scrittrice. E questo terzo attore, tra noi che leggiamo e lei che sta scrivendo, appare come la pinna-poesia dorsale di un delfino sulla superficie increspata del mare-conoscenza. Questa voce sottile non disturba, semmai ci fa pensare alla tenerezza di una Giulietta degli spiriti e in fondo non manca un equilibrato romanticismo di colori e sensazioni disparate, gioviale, e come un fresco bouquet alleggerisce la tristezza della materia bruta, i sacrifici di una bambina, e le preoccupazioni di una madre, che pur costituiscono parte essenziale del racconto. Tutto accade per flussi e riflussi. Già, come risacche trasbordanti oggetti-stati simili a registratori di eventi stratificati. Un fluttuante vibrare di blocchi esistenziali che infilano un percorso meraviglioso. Nulla, però, trascende il qui e ora, pur essendo remoto il passaggio che scalfisce il corpo e che ammala, pur non riuscendo a sottrarlo alla costante lotta per la gioia di vivere. Ogni buio, qui, non abbatte ma fortifica, non cerca e non trova rimedio in un divino senso di provvidenza, ma in un salutare e potente senso di previdenza, preveggenza, di bagaglio, di tesoro da lasciare ai posteri e ai presenti: è l’esperienza, leggera e corroborante, della saggezza. Dell’essere antico, per parafrasare Carmelo Bene. E il passato diventa estroflessione ragionata di ciò che accade ora, nel futuro.

Questo racconto di vita vissuta, non è, però, un’autoreferenza intimista o un taccuino freddo e geometrico dell’esistenza che si voglia ergere, narcisistica, a dimostrazione vanitosa dell’avercela fatta. È un gioco, e in certi momenti tenerissimo, in altri divertente, che ci appassiona in continuazione, non ci sono stagni di monotonia. Al massimo c’è la neutralità di una percezione fotografica, e niente di meno. È un percorso anche all’interno della storia collettiva, dall’essere bambini ai giorni nostri, e se di autobiografia si tratta, questo non lo sai mai, perché il romanzo di una vita è un monumento vivo, è un setaccio, dove friggono acque di guizzanti pesci, si dibattono percezioni di corpi, di altri mille corpi, di altre dimensioni. Che cosa è, allora, un’autobiografia? Che cos’è la Filosofia? si chiedevano un filosofo e uno psicanalista francesi (Deleuze e Guattari). E noi, finito il romanzo, non possiamo che chiederci: Allora? Che cos’è questa meraviglia? Che cos’è la vita? Forse sono le realtà, in continuo crearsi e mutare, di questo suggestivo romanzo che davvero insegna a vivere?

Gianluca Garrapa

giovedì 8 gennaio 2015

Fernanda Ferraresso


http://cartesensibili.wordpress.com/2014/03/07/cristina-bove-una-per-mille-unautotassazione-dellessere-molti-fernanda-ferraresso/


Raccontare, che siano vicende inventate o realmente accadute, in fondo è come persuadersi, e persuadere, che nulla è andato perso, delle nostre vite, della nostra fantasia, del nostro cuore.”

A dirlo è lei, Cristina Bove, l’autrice del libro e prima ancora autrice di una vita che ha più di mille figure e ancora più di  mille contro-figurazioni di ciò che è vivere, di ciò che nella morte, vissuta quotidianamente, si accende di quell’oltre che si è, attimo per attimo (s)conosciuto.
Trappole, le costruisce con grande ingegno l’autrice, per adescare e per afferrare ciò che all’occhio comune sfugge. Per ogni elemento una diversa esca, una ben progettata scena e la (bi)lancia, da cui non scappa nessuno dei suoi soggetti, senza mostrarsi e misurarsi alla luce della sua parola. E ciò che afferra è comunque sempre se stessa, in tutti i costumi e gli specchi lei si ritragga, la dimensione del sentire la rende ogni volta il centro del suo osservare, serbare, ridisegnare, aprire, nutrendo ora, nella memoria, quanto ha nutrito durante tutto l’arco della vita: la coscienza, la presenza, il dialogo con l’altra, l’altra sé che in se stessa alla pari del prossimo ha riconosciuto subito, pur nella molteplicità del suo affacciarsi, del suo proporsi. E c’è una carica, sempre esplosiva, che anche con l’ironia, dote propria dell’autrice, riesce a rendere enigmatica persino ciò che definiremmo tragedia. Tutto è dramma in Cristina e perciò ha luci taglienti, radenti, non è possibile stare in piedi, chi barcolla è destinato a dileguarsi, come un colore nell’acqua, come uno shift, di una scia luminosa nell’aria. Una per mille, un po’ come le tasse, elaborate al femminile però, che Cristina paga solo a se stessa, ora, dopo aver percorso piani e scivoli, dislivelli, angoli, botole, come a dire tutte le passioni, le paure, le contraddizioni, gli incontri e aver costruito in sé le chiavi di volta di costruzioni che andavano ampliandosi fino a perdere fondazioni e soffitti eppure stavano perfettamente in piedi, dentro le sue piante, in una infanzia maturata in tutti i soli che ha raccolto, in tutti gli esseri che ha accolto nella dimensione delle sue vite in mille e più storie, dentro quel teatro che, come ha riconosciuto, entrambe allestiamo e ricostruiamo nella testa e l’uomo nero è un demone, che cammina dietro le quinte, il trovarobe necessario per far assumere a ciascun essere una, mille forme e in questo modo essere, uomini, donne, bambini, luoghi, paesi, il cielo, la terra, addirittura tutto l’universo.

E ora dò i numeri! Un ambo secco per la ruota della vita: 18- 20,  capitoli  di un preventivo in cui Cristina dice di sé moltissimo, con una semplicità e una sicurezza nello spendersi che solo la teatralizzazione poetica riesce a maturare, fino al fondo della scena, quando cala la luce e si sa che andando via si resta comunque nel teatro, senza più posa. Li metto in vista e nel mio personale lotto vedo già una piccola impagabile vincita: conoscerla.
fernanda ferraresso
cristina bove
città di mare wp - by criBo.
Da Una per mille, Cristina Bove
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mercoledì 7 gennaio 2015

Ida Verrei

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"Una per mille"


Sintesi emblematica di un percorso di vita, storia di una donna, “Una per mille”, una e mille: ricordi d’infanzia; rievocazioni; reminiscenze; sogni e visioni rivestiti dell’apparenza psichica delle emozioni;  non un vero e proprio romanzo autobiografico, ma memoria, un divagare che procede per analogie, associazioni di immagini e di idee, una sorta di flusso di coscienza, che conserva, però, una sintassi razionalmente strutturata, pur se i procedimenti narrativi vengono risolti in modo del tutto personale e peculiare.
Cristina Bove, artista poliedrica, poetessa, pittrice, scultrice, fotografa,  riconduce in quest’opera in prosa  tutte le tecniche delle arti che frequenta. Ne risulta una singolare composizione, una scrittura colma di immagini e assonanze, che spiazzano ma coinvolgono il lettore dall’inizio alla fine.
“… Se ne stava seduta sulla seggiolina fatta apposta per lei da quel suo nonno falegname a cui mancava mezzo pollice… Sedeva accanto a lui che ascoltava musica classica, con la testa ripiegata e i pollici sotto le bretelle…” (pag.5)
“Nel dormitorio, in lettini di ferro ci si stava in due… A me toccò una coetanea, menomale… Avevo sempre freddo…”(pag.8)
Sta raccontando la sua vita, certo, e per non perdere il filo, segue una linea di percorso, alterna, perché così vanno i ricordi. E se uno comincia a riviversi mica si ferma e aspetta di rincontrarsi a tutte le età contemporaneamente. O forse sì…”  

È sempre Cristina Bove che parla, rivisita il passato e, voce narrante,  lo racconta in terza persona;  poi si reincarna nella bimba di un tempo e diviene l’io che rievoca. Ancora, torna all’oggi e commenta, spiega, quasi fosse altro da sé, testimone e non protagonista. Il “doppio” (che è poi il mille indicato dal titolo)  qui non rappresenta la dualità tra bene e male o tra possibile e impossibile,  quanto piuttosto un geniale espediente narrativo per colloquiare con il lettore, per immetterlo nel suo mondo, ricco di chiari e scuri, ma anche di colori accecanti o sfumati, di “ero, sono, sarò”.  Salti temporali, viaggi avanti e indietro tra presente, passato e futuro; un tempo misto;  una scrittura capace di cambiare pelle e adattarsi ad ogni stagione della vita, ad ogni stato d’animo, ad ogni transizione emotiva. Un monologo a più voci, attraverso il quale è possibile ricostruire da diversi punti di vista, di tempo e di luogo, una storia che è vita. Un romanzo che trova il valore unitario nell’alone di sospensione e di attesa che sovrasta l’atmosfera e che, dilatandosi oltre i confini di un’unica vita, assurge a vicenda universale.  Ampi spazi di considerazioni e riflessioni filosofiche, apparentemente divaganti, si intrecciano al filo onirico che si ritrova in tutta la tessitura romanzesca; una visionarietà profonda che si dipana attraverso le memorie che si sovrappongono alle vicende, in qualche modo condizionandole, un raccontare che è rivivere, un’analisi del passato senza censure, una vita messa a nudo con delicato pudore
E così attraversiamo un’intera esistenza, una crescita fisica, intellettuale, spirituale. Vita intrecciata ad altre vite, recupero del passato attraverso la memoria involontaria, riscoperta di angoli dell’anima dove si annida la sofferenza, quella che si rimuove ma con la quale poi dobbiamo fare i conti tutta la vita:
“Da una certa rinascita si ritorna nudi, soli… Poi bisogna tener conto dei distacchi… il primo degli addii fu per il padre… sparì, come Babbo Natale sotto un cappotto di cammello. Prima ancora, non propriamente un addio, ma un abbandono sì, fu il giorno in cui si chiusero alle sue spalle di bambina i battenti del portone del collegio…”
Ma anche momenti tenerissimi di gioie familiari, di esaltazione struggente:
 “Quando glielo misero tra le braccia, fu travolta dal profumo di neonato… Le accadeva la vita, ed era un mistero così grande da farla piangere… 
E poi ancora l’angoscia, gli incubi che ritornano. Quel “salto dal quarto piano come in trance”, quella memoria che diviene “interludio” di tutta una vita, quel “volo sospeso… rimandato sempre…” Un presagio di morte, o forse un desiderio, che sembra aleggiare in tutta la narrazione. Ma con una sorta di levità, con autoironia, cosicché, anche nel ricordo di eventi che per molti sarebbero devastanti, Cristina  trova forza e coraggio, fiducia nel presente e nel futuro:
Potrebbe sembrare eccessivo considerare decenni di vita una proroga, eppure è proprio così che li ha vissuti, sentendosi in un certo senso privilegiata…  “Domani” era una speranza da custodire…” 
  E il suo libro diviene un inno alla vita, testimonianza d’amore, di generosità, di pienezza intellettuale e spirituale.
Leggerlo, vuol dire arricchirsi.

 “rifuggo gli aggettivi: brutta o bella  
non aggiungono niente alla mia essenza
né tolgono un momento al mio passato…  
…E vivo della mia e d’ogni altra bellezza”  (da:  "Comunque" di C.Bove)


I.V.

L'autore racconta

di Grazia Calanna 

Francesco Di Domenico

recensisce "Una per mille"
http://www.dido.ilcannocchiale.it/

la recensione di Simona Lo Iacono

 

Scriviamo sempre contro la morte, lanciamo dardi infuocati contro la fine. Gli scrittori sono forse le creature che più di altre hanno consapevolezza di morire, fiutano l’intima fragilità delle cose, intuiscono che abbiamo un tempo, una scadenza.
Perciò afferrano disperatamente ogni frammento e lo trattengono con le parole. Per eternarlo, e per trovarsi, per rivelarsi.
Scrivendo, si può forse arginare l’impetuoso galoppo verso quella conclusione, ci si può arrendere al fatto di essere tanto compiuti già all’atto di nascere. Stelle che avranno poche ore per fare luce, a cui non resta altro che lasciare traccia, un ricordo.
Così fa Cristina Bove, ricapitola momento per momento, non fugge né il tempo né quel mistero che è vivere, un mistero irrisolvibile, che si può solo raccontare.
Ma raccontare con la prosa che non si rassegna mai a essere memoriale, con le parole che ardono di bellezza, con i ricordi che giocano a mostrasi crudeli e veri, spietati e umilissimi, giocosi e arrendevoli, una baldoria di città attraversate, corpi sani e malati, precipizi e resurrezioni.
Cristina Bove non si sottrae alla ricerca della verità, non tesse assoluzioni o condanne, non scrive per dare un senso, ma per darsi un senso.
Scrivendo, si vede incedere tra orde di fantasmi benevoli, sfiora l’indicibile, quel pozzo in cui è caduta e dal quale riemerge a forza di braccia, e a forza di versi, e a forza di sillabe che intrecciano una corda di salvezza, una mano pietosa che la solleva dal buio, che la salva.
E avviene.
Il dolore si trasforma. E così le perdite, i salti oltre balconi e parapetti, i voli straziati di quando non si sa ancora che cosa sia – davvero – stare dentro la vita.
Una scoperta.
Mentre giace riversa tra la vita e la morte, è la semplicità delle cose a rivelarsi. Viviamo perché siamo parte di un’esperienza d’amore. Viviamo perché di quell’amore siamo una costola e una goccia, una parte segreta all’interno della quale germoglia sia il dolore che l’universo. Una particula, insomma, una su mille, o forse una per mille. Tanti noi dentro noi stessi, ma pure fuori, in una fratellanza caritatevole e necessaria degli uni con gli altri e persino del nostro io con noi stessi.
Cantrice dell’armonia, Cristina Bove arriva ad essa varcando portali dolorosi, tagliando epoche, eventi, scelte. Scoprendo che accogliere il mistero è l’unico modo per goderne anche gli impensabili vantaggi: una gioia pura e disarmata, una consapevolezza che dal passato corre verso il futuro e poi di nuovo avanti e indietro.
Raccontandosi si è scomposta e frammentata, ma non per perdersi, per ritrovarsi in ogni sfaccettatura, per cogliersi in completezza e verità, per scrutare l’essere umano con coraggio, e anche con la certezza di compiere un atto sacro e inviolabile.
Con “Una per mille” Cristina Bove ci consegna un’opera di altissima ricerca spirituale, in cui è impossibile scandagliare il confine tra essere che scrive e parola scritta, tra umanità e arte.
– Cristina, le chiedo, questo è un libro nato come un atto di pura necessità. Raccontaci perchè hai deciso di scriverlo.
Non conosco esattamente il perché, so che a un tratto sono cominciati i ricordi ad affacciarsi e ho sentito l’urgenza di condividerli. Non tanto per tramandare, quanto per dichiarare: esisto per qualche motivo imperscrutabile, la mia vita si è svolta in questo modo, se lo asserisco mi faccio garante della vita, e del rispetto, che avverto imprescindibile dall’amore, per me stessa e per tutti gli esseri viventi.
– E la prosa che incede con la bellezza dei versi, musicale, composta con guizzi di rivelazione. Cos’è per te la poesia? E che rapporto ha con questo libro?
Credo che per me lo scrivere abbia sempre quel senso di rivelazione, iniziato con la poesia come una sorta di linguaggio estremo, suggerito e necessario a rivelare quanto di misterioso e ineffabile ci avvolge, e confluito nella prosa, che comunque non sento così diversa se non per l’addensarsi discorsivo e la continuità, malgrado le apparenze, del ricordo. Raccontare, che siano vicende inventate o realmente accadute, in fondo è come persuadersi, e persuadere, che nulla è andato perso, delle nostre vite, della nostra fantasia, del nostro cuore.
– Questo però è anche un libro di visioni, di presenze dell’oltremondo. Come quando racconti: “La figura era sempre lì, al suo fianco…. una bilancia apparve a mezz’aria, tra il letto e la parete di fronte. Uno dei piatti era appesantito da un mucchio di spine. Su quello contrapposto una mano cominciò a deporne altre. La libra era sorretta da un essere tanto risplendente che non riusciva a distinguerne le fattezze e dal cui centro, più o meno all’altezza del cuore, cominciarono a scaturire rose, di tutte le sfumature, di tutte le dimensioni, aperte, chiuse, boccioli. Si riversavano nel piatto vuoto formando un mucchio sempre più alto; tuttavia, benchè si stesse colmando, non accennava a scendere”. Vuoi spiegarci la forza di questa immagine di potenza quasi biblica?
Certo, posso farlo, anche perché il ricordo, a distanza di anni si presenta con la stessa vividezza di allora. Stavo in una sorta di sospensione, intorno a me tutto si presentava rarefatto, e benché avessi la percezione di chi mi stava intorno, ero contemporaneamente in una bolla ovattata in cui si evidenziò la figura di cui scrivo.
Sapevo di essere presente in più realtà, se così posso dire, ma le parole sono davvero insufficienti a descrivere quanto stavo provando.
Posso dire soltanto che la visione luminosa con tutto quello che significava, tra rose e comunicazione del pensiero, mi diede una sferzata di energia, che non apparteneva soltanto al corpo, bensì a un quid pulsante e vivo, in una pluridimensionalità che mi rassicurava, e che “riconoscevo”.
E ci fu ancora modo di scegliere, perché, in definitiva, i due mondi si compenetrano, e andare o stare è sempre lo stesso esistere.

Simona Lo Iacono

Loredana Falcone




Quello di Cristina Bove non è un romanzo e nemmeno un'autobiografia. È un viaggio nell'anima. Le prime pagine possono trarre in inganno aprendoci le porte di un mondo di bambina, una piccola bambina con le treccine annodate in testa che già nei gesti quotidiani, nelle parole e nelle carezze dei propri cari, cercava risposte a domande ancora sconosciute. C'è in quella bambina il presagio di una vita che l'avrebbe portata a respirare odori e popoli lontani. Ci sono in quegli occhi d'azzurro innocente, le scintille di una sensibilità capace di penetrare un'anima. ...continua qui