venerdì 9 gennaio 2015

recensione di Gianluca Garrapa







Il romanzo di Cristina Bove inizia descrivendo L’uomo nero. L’uomo nero è anche il titolo del primo capitolo-racconto. Ogni capitolo porta, almeno nell’indice, come titolo, le prime parole del capitolo stesso. Un procedimento tipico della poesia. Cristina Bove è poetessa e scultrice, manipola la materia dei pieni e dei vuoti, e anche il linguaggio del romanzo modella luci e buio.
Presenze di carne e anche fantasmi, simili a quelli della copertina, opera della stessa Bove. Questi fantasmi… sono reali! Sono davvero il rapporto che la donna-che-scrive ha con la propria capacità di godere e amare il proprio passato, il proprio passare sotto i nostri occhi. L’uomo nero sembra rievocare anche la nostra infanzia, in realtà è un carbonaio in carne e ossa: è spiazzante. E lo spiazzante ritorna spesso, con delicato contrappunto all’apparente linearità dei ricordi. Ricordi, sì, ma non c’è posto per la nostalgia melensa, per storie strappalacrime, anche se non possiamo evitare di innamorarci di questo divenire-donna dall’infanzia a ora, attraverso momenti davvero brutti ma sorvolati con la leggerezza di uno spirito che disegna gorghi senza lasciarsene affogare. La storia di un’identità dai primissimi anni fino all’adesso del romanzo che non chiude, che non può terminare. C’è la realtà di una vita, il mistero che si nasconde, che stupisce, gli ‘spiritelli’ e anche la percezione extrasensoriale del dolore e morte altrui, che è la diretta conseguenza della capacità di contatto umano, della consapevolezza degli altri, esperienze inspiegabili, ormai, in questo mondo materiale e rotto al magico. 
La vita descritta come un’autobiografia sperimentale, per alternanza, come lo sono i ricordi. Che appaiono dislocati, spostati, come in un’immensa città interiore in cui tutto è velluto, carnale, identico e opposto. Vario. Leggero. Umano.
I luoghi sono tanti. Le atmosfere cambiano. Transvolate continentali. Paesaggi desertici e guizzi fluviali, solitudini urbane e divertimenti in resort accarezzati da mari esotici, ma anche il freddo e narcisistico web, lo studio di una psicanalista e la stanza di cloro e sofferenza di un ospedale.
Incalzante il ritmo, dove non c’è solo il lettore che legge e una scrittrice che scrive. C’è anche un fantasma, l’ennesimo, in carne e ossa, che legge nel pensiero della scrittrice, che commenta, che segue e che a volte prende in giro la pretesa di fermare i ricordi così come si sorride del bambino che vuole, ingenuo, riporre tutto il mare nel secchiello. C’è sempre un dislocamento tra persone, insomma: l’autrice che scrive e il fantasma-incarnato che scrive di lei-scrittrice. E questo terzo attore, tra noi che leggiamo e lei che sta scrivendo, appare come la pinna-poesia dorsale di un delfino sulla superficie increspata del mare-conoscenza. Questa voce sottile non disturba, semmai ci fa pensare alla tenerezza di una Giulietta degli spiriti e in fondo non manca un equilibrato romanticismo di colori e sensazioni disparate, gioviale, e come un fresco bouquet alleggerisce la tristezza della materia bruta, i sacrifici di una bambina, e le preoccupazioni di una madre, che pur costituiscono parte essenziale del racconto. Tutto accade per flussi e riflussi. Già, come risacche trasbordanti oggetti-stati simili a registratori di eventi stratificati. Un fluttuante vibrare di blocchi esistenziali che infilano un percorso meraviglioso. Nulla, però, trascende il qui e ora, pur essendo remoto il passaggio che scalfisce il corpo e che ammala, pur non riuscendo a sottrarlo alla costante lotta per la gioia di vivere. Ogni buio, qui, non abbatte ma fortifica, non cerca e non trova rimedio in un divino senso di provvidenza, ma in un salutare e potente senso di previdenza, preveggenza, di bagaglio, di tesoro da lasciare ai posteri e ai presenti: è l’esperienza, leggera e corroborante, della saggezza. Dell’essere antico, per parafrasare Carmelo Bene. E il passato diventa estroflessione ragionata di ciò che accade ora, nel futuro.

Questo racconto di vita vissuta, non è, però, un’autoreferenza intimista o un taccuino freddo e geometrico dell’esistenza che si voglia ergere, narcisistica, a dimostrazione vanitosa dell’avercela fatta. È un gioco, e in certi momenti tenerissimo, in altri divertente, che ci appassiona in continuazione, non ci sono stagni di monotonia. Al massimo c’è la neutralità di una percezione fotografica, e niente di meno. È un percorso anche all’interno della storia collettiva, dall’essere bambini ai giorni nostri, e se di autobiografia si tratta, questo non lo sai mai, perché il romanzo di una vita è un monumento vivo, è un setaccio, dove friggono acque di guizzanti pesci, si dibattono percezioni di corpi, di altri mille corpi, di altre dimensioni. Che cosa è, allora, un’autobiografia? Che cos’è la Filosofia? si chiedevano un filosofo e uno psicanalista francesi (Deleuze e Guattari). E noi, finito il romanzo, non possiamo che chiederci: Allora? Che cos’è questa meraviglia? Che cos’è la vita? Forse sono le realtà, in continuo crearsi e mutare, di questo suggestivo romanzo che davvero insegna a vivere?

Gianluca Garrapa

giovedì 8 gennaio 2015

Fernanda Ferraresso


http://cartesensibili.wordpress.com/2014/03/07/cristina-bove-una-per-mille-unautotassazione-dellessere-molti-fernanda-ferraresso/


Raccontare, che siano vicende inventate o realmente accadute, in fondo è come persuadersi, e persuadere, che nulla è andato perso, delle nostre vite, della nostra fantasia, del nostro cuore.”

A dirlo è lei, Cristina Bove, l’autrice del libro e prima ancora autrice di una vita che ha più di mille figure e ancora più di  mille contro-figurazioni di ciò che è vivere, di ciò che nella morte, vissuta quotidianamente, si accende di quell’oltre che si è, attimo per attimo (s)conosciuto.
Trappole, le costruisce con grande ingegno l’autrice, per adescare e per afferrare ciò che all’occhio comune sfugge. Per ogni elemento una diversa esca, una ben progettata scena e la (bi)lancia, da cui non scappa nessuno dei suoi soggetti, senza mostrarsi e misurarsi alla luce della sua parola. E ciò che afferra è comunque sempre se stessa, in tutti i costumi e gli specchi lei si ritragga, la dimensione del sentire la rende ogni volta il centro del suo osservare, serbare, ridisegnare, aprire, nutrendo ora, nella memoria, quanto ha nutrito durante tutto l’arco della vita: la coscienza, la presenza, il dialogo con l’altra, l’altra sé che in se stessa alla pari del prossimo ha riconosciuto subito, pur nella molteplicità del suo affacciarsi, del suo proporsi. E c’è una carica, sempre esplosiva, che anche con l’ironia, dote propria dell’autrice, riesce a rendere enigmatica persino ciò che definiremmo tragedia. Tutto è dramma in Cristina e perciò ha luci taglienti, radenti, non è possibile stare in piedi, chi barcolla è destinato a dileguarsi, come un colore nell’acqua, come uno shift, di una scia luminosa nell’aria. Una per mille, un po’ come le tasse, elaborate al femminile però, che Cristina paga solo a se stessa, ora, dopo aver percorso piani e scivoli, dislivelli, angoli, botole, come a dire tutte le passioni, le paure, le contraddizioni, gli incontri e aver costruito in sé le chiavi di volta di costruzioni che andavano ampliandosi fino a perdere fondazioni e soffitti eppure stavano perfettamente in piedi, dentro le sue piante, in una infanzia maturata in tutti i soli che ha raccolto, in tutti gli esseri che ha accolto nella dimensione delle sue vite in mille e più storie, dentro quel teatro che, come ha riconosciuto, entrambe allestiamo e ricostruiamo nella testa e l’uomo nero è un demone, che cammina dietro le quinte, il trovarobe necessario per far assumere a ciascun essere una, mille forme e in questo modo essere, uomini, donne, bambini, luoghi, paesi, il cielo, la terra, addirittura tutto l’universo.

E ora dò i numeri! Un ambo secco per la ruota della vita: 18- 20,  capitoli  di un preventivo in cui Cristina dice di sé moltissimo, con una semplicità e una sicurezza nello spendersi che solo la teatralizzazione poetica riesce a maturare, fino al fondo della scena, quando cala la luce e si sa che andando via si resta comunque nel teatro, senza più posa. Li metto in vista e nel mio personale lotto vedo già una piccola impagabile vincita: conoscerla.
fernanda ferraresso
cristina bove
città di mare wp - by criBo.
Da Una per mille, Cristina Bove
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mercoledì 7 gennaio 2015

Ida Verrei

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"Una per mille"


Sintesi emblematica di un percorso di vita, storia di una donna, “Una per mille”, una e mille: ricordi d’infanzia; rievocazioni; reminiscenze; sogni e visioni rivestiti dell’apparenza psichica delle emozioni;  non un vero e proprio romanzo autobiografico, ma memoria, un divagare che procede per analogie, associazioni di immagini e di idee, una sorta di flusso di coscienza, che conserva, però, una sintassi razionalmente strutturata, pur se i procedimenti narrativi vengono risolti in modo del tutto personale e peculiare.
Cristina Bove, artista poliedrica, poetessa, pittrice, scultrice, fotografa,  riconduce in quest’opera in prosa  tutte le tecniche delle arti che frequenta. Ne risulta una singolare composizione, una scrittura colma di immagini e assonanze, che spiazzano ma coinvolgono il lettore dall’inizio alla fine.
“… Se ne stava seduta sulla seggiolina fatta apposta per lei da quel suo nonno falegname a cui mancava mezzo pollice… Sedeva accanto a lui che ascoltava musica classica, con la testa ripiegata e i pollici sotto le bretelle…” (pag.5)
“Nel dormitorio, in lettini di ferro ci si stava in due… A me toccò una coetanea, menomale… Avevo sempre freddo…”(pag.8)
Sta raccontando la sua vita, certo, e per non perdere il filo, segue una linea di percorso, alterna, perché così vanno i ricordi. E se uno comincia a riviversi mica si ferma e aspetta di rincontrarsi a tutte le età contemporaneamente. O forse sì…”  

È sempre Cristina Bove che parla, rivisita il passato e, voce narrante,  lo racconta in terza persona;  poi si reincarna nella bimba di un tempo e diviene l’io che rievoca. Ancora, torna all’oggi e commenta, spiega, quasi fosse altro da sé, testimone e non protagonista. Il “doppio” (che è poi il mille indicato dal titolo)  qui non rappresenta la dualità tra bene e male o tra possibile e impossibile,  quanto piuttosto un geniale espediente narrativo per colloquiare con il lettore, per immetterlo nel suo mondo, ricco di chiari e scuri, ma anche di colori accecanti o sfumati, di “ero, sono, sarò”.  Salti temporali, viaggi avanti e indietro tra presente, passato e futuro; un tempo misto;  una scrittura capace di cambiare pelle e adattarsi ad ogni stagione della vita, ad ogni stato d’animo, ad ogni transizione emotiva. Un monologo a più voci, attraverso il quale è possibile ricostruire da diversi punti di vista, di tempo e di luogo, una storia che è vita. Un romanzo che trova il valore unitario nell’alone di sospensione e di attesa che sovrasta l’atmosfera e che, dilatandosi oltre i confini di un’unica vita, assurge a vicenda universale.  Ampi spazi di considerazioni e riflessioni filosofiche, apparentemente divaganti, si intrecciano al filo onirico che si ritrova in tutta la tessitura romanzesca; una visionarietà profonda che si dipana attraverso le memorie che si sovrappongono alle vicende, in qualche modo condizionandole, un raccontare che è rivivere, un’analisi del passato senza censure, una vita messa a nudo con delicato pudore
E così attraversiamo un’intera esistenza, una crescita fisica, intellettuale, spirituale. Vita intrecciata ad altre vite, recupero del passato attraverso la memoria involontaria, riscoperta di angoli dell’anima dove si annida la sofferenza, quella che si rimuove ma con la quale poi dobbiamo fare i conti tutta la vita:
“Da una certa rinascita si ritorna nudi, soli… Poi bisogna tener conto dei distacchi… il primo degli addii fu per il padre… sparì, come Babbo Natale sotto un cappotto di cammello. Prima ancora, non propriamente un addio, ma un abbandono sì, fu il giorno in cui si chiusero alle sue spalle di bambina i battenti del portone del collegio…”
Ma anche momenti tenerissimi di gioie familiari, di esaltazione struggente:
 “Quando glielo misero tra le braccia, fu travolta dal profumo di neonato… Le accadeva la vita, ed era un mistero così grande da farla piangere… 
E poi ancora l’angoscia, gli incubi che ritornano. Quel “salto dal quarto piano come in trance”, quella memoria che diviene “interludio” di tutta una vita, quel “volo sospeso… rimandato sempre…” Un presagio di morte, o forse un desiderio, che sembra aleggiare in tutta la narrazione. Ma con una sorta di levità, con autoironia, cosicché, anche nel ricordo di eventi che per molti sarebbero devastanti, Cristina  trova forza e coraggio, fiducia nel presente e nel futuro:
Potrebbe sembrare eccessivo considerare decenni di vita una proroga, eppure è proprio così che li ha vissuti, sentendosi in un certo senso privilegiata…  “Domani” era una speranza da custodire…” 
  E il suo libro diviene un inno alla vita, testimonianza d’amore, di generosità, di pienezza intellettuale e spirituale.
Leggerlo, vuol dire arricchirsi.

 “rifuggo gli aggettivi: brutta o bella  
non aggiungono niente alla mia essenza
né tolgono un momento al mio passato…  
…E vivo della mia e d’ogni altra bellezza”  (da:  "Comunque" di C.Bove)


I.V.

L'autore racconta

di Grazia Calanna 

Francesco Di Domenico

recensisce "Una per mille"
http://www.dido.ilcannocchiale.it/

la recensione di Simona Lo Iacono

 

Scriviamo sempre contro la morte, lanciamo dardi infuocati contro la fine. Gli scrittori sono forse le creature che più di altre hanno consapevolezza di morire, fiutano l’intima fragilità delle cose, intuiscono che abbiamo un tempo, una scadenza.
Perciò afferrano disperatamente ogni frammento e lo trattengono con le parole. Per eternarlo, e per trovarsi, per rivelarsi.
Scrivendo, si può forse arginare l’impetuoso galoppo verso quella conclusione, ci si può arrendere al fatto di essere tanto compiuti già all’atto di nascere. Stelle che avranno poche ore per fare luce, a cui non resta altro che lasciare traccia, un ricordo.
Così fa Cristina Bove, ricapitola momento per momento, non fugge né il tempo né quel mistero che è vivere, un mistero irrisolvibile, che si può solo raccontare.
Ma raccontare con la prosa che non si rassegna mai a essere memoriale, con le parole che ardono di bellezza, con i ricordi che giocano a mostrasi crudeli e veri, spietati e umilissimi, giocosi e arrendevoli, una baldoria di città attraversate, corpi sani e malati, precipizi e resurrezioni.
Cristina Bove non si sottrae alla ricerca della verità, non tesse assoluzioni o condanne, non scrive per dare un senso, ma per darsi un senso.
Scrivendo, si vede incedere tra orde di fantasmi benevoli, sfiora l’indicibile, quel pozzo in cui è caduta e dal quale riemerge a forza di braccia, e a forza di versi, e a forza di sillabe che intrecciano una corda di salvezza, una mano pietosa che la solleva dal buio, che la salva.
E avviene.
Il dolore si trasforma. E così le perdite, i salti oltre balconi e parapetti, i voli straziati di quando non si sa ancora che cosa sia – davvero – stare dentro la vita.
Una scoperta.
Mentre giace riversa tra la vita e la morte, è la semplicità delle cose a rivelarsi. Viviamo perché siamo parte di un’esperienza d’amore. Viviamo perché di quell’amore siamo una costola e una goccia, una parte segreta all’interno della quale germoglia sia il dolore che l’universo. Una particula, insomma, una su mille, o forse una per mille. Tanti noi dentro noi stessi, ma pure fuori, in una fratellanza caritatevole e necessaria degli uni con gli altri e persino del nostro io con noi stessi.
Cantrice dell’armonia, Cristina Bove arriva ad essa varcando portali dolorosi, tagliando epoche, eventi, scelte. Scoprendo che accogliere il mistero è l’unico modo per goderne anche gli impensabili vantaggi: una gioia pura e disarmata, una consapevolezza che dal passato corre verso il futuro e poi di nuovo avanti e indietro.
Raccontandosi si è scomposta e frammentata, ma non per perdersi, per ritrovarsi in ogni sfaccettatura, per cogliersi in completezza e verità, per scrutare l’essere umano con coraggio, e anche con la certezza di compiere un atto sacro e inviolabile.
Con “Una per mille” Cristina Bove ci consegna un’opera di altissima ricerca spirituale, in cui è impossibile scandagliare il confine tra essere che scrive e parola scritta, tra umanità e arte.
– Cristina, le chiedo, questo è un libro nato come un atto di pura necessità. Raccontaci perchè hai deciso di scriverlo.
Non conosco esattamente il perché, so che a un tratto sono cominciati i ricordi ad affacciarsi e ho sentito l’urgenza di condividerli. Non tanto per tramandare, quanto per dichiarare: esisto per qualche motivo imperscrutabile, la mia vita si è svolta in questo modo, se lo asserisco mi faccio garante della vita, e del rispetto, che avverto imprescindibile dall’amore, per me stessa e per tutti gli esseri viventi.
– E la prosa che incede con la bellezza dei versi, musicale, composta con guizzi di rivelazione. Cos’è per te la poesia? E che rapporto ha con questo libro?
Credo che per me lo scrivere abbia sempre quel senso di rivelazione, iniziato con la poesia come una sorta di linguaggio estremo, suggerito e necessario a rivelare quanto di misterioso e ineffabile ci avvolge, e confluito nella prosa, che comunque non sento così diversa se non per l’addensarsi discorsivo e la continuità, malgrado le apparenze, del ricordo. Raccontare, che siano vicende inventate o realmente accadute, in fondo è come persuadersi, e persuadere, che nulla è andato perso, delle nostre vite, della nostra fantasia, del nostro cuore.
– Questo però è anche un libro di visioni, di presenze dell’oltremondo. Come quando racconti: “La figura era sempre lì, al suo fianco…. una bilancia apparve a mezz’aria, tra il letto e la parete di fronte. Uno dei piatti era appesantito da un mucchio di spine. Su quello contrapposto una mano cominciò a deporne altre. La libra era sorretta da un essere tanto risplendente che non riusciva a distinguerne le fattezze e dal cui centro, più o meno all’altezza del cuore, cominciarono a scaturire rose, di tutte le sfumature, di tutte le dimensioni, aperte, chiuse, boccioli. Si riversavano nel piatto vuoto formando un mucchio sempre più alto; tuttavia, benchè si stesse colmando, non accennava a scendere”. Vuoi spiegarci la forza di questa immagine di potenza quasi biblica?
Certo, posso farlo, anche perché il ricordo, a distanza di anni si presenta con la stessa vividezza di allora. Stavo in una sorta di sospensione, intorno a me tutto si presentava rarefatto, e benché avessi la percezione di chi mi stava intorno, ero contemporaneamente in una bolla ovattata in cui si evidenziò la figura di cui scrivo.
Sapevo di essere presente in più realtà, se così posso dire, ma le parole sono davvero insufficienti a descrivere quanto stavo provando.
Posso dire soltanto che la visione luminosa con tutto quello che significava, tra rose e comunicazione del pensiero, mi diede una sferzata di energia, che non apparteneva soltanto al corpo, bensì a un quid pulsante e vivo, in una pluridimensionalità che mi rassicurava, e che “riconoscevo”.
E ci fu ancora modo di scegliere, perché, in definitiva, i due mondi si compenetrano, e andare o stare è sempre lo stesso esistere.

Simona Lo Iacono

Loredana Falcone




Quello di Cristina Bove non è un romanzo e nemmeno un'autobiografia. È un viaggio nell'anima. Le prime pagine possono trarre in inganno aprendoci le porte di un mondo di bambina, una piccola bambina con le treccine annodate in testa che già nei gesti quotidiani, nelle parole e nelle carezze dei propri cari, cercava risposte a domande ancora sconosciute. C'è in quella bambina il presagio di una vita che l'avrebbe portata a respirare odori e popoli lontani. Ci sono in quegli occhi d'azzurro innocente, le scintille di una sensibilità capace di penetrare un'anima. ...continua qui

martedì 6 gennaio 2015

Laura Costantini

 su Una per mille"

Non è un romanzo.
Non è un'autobiografia.
È di più. Qualcuno ha detto che solo una poetessa poteva riuscire a rendere la poesia in prosa.
Un libro difficile. Molto personale. Eppure universalmente valido.
Una grande prova di scrittura che ammalia pur limitandosi a raccontare le pieghe di un'anima che vuole aprirsi a tutte le latre anime. E che regala una speranza dopo averle perse tutte.
La frase: "Ormai non sa più quando, e se, potrà essere scritta la parola fine, e questo è davvero straordinario." chiude il libro nel momento stesso in cui lo apre. Rendendocelo affine e necessario.

Gaetano Vergara (Aitan)



Cristina, ho appena finito di (ri-)leggere il tuo romanzo "Una per mille", confermando le buone impressioni che avevo avuto quando avevo scorso le anteprime che mandavi via blog.
È un romanzo/non-romanzo che racchiude la tua poliedricità di interessi, sentimenti e passioni; e scrivo romanzo/non-romanzo non tanto per la frammentarietà e la moltiplicazione dei punti di vista che lo contraddistinguono, ma per la voluta incompiutezza di quel finale/non-finale che si congeda dal lettore con quella "soluzione di continuità" che lascia ogni porta aperta, come nella vita reale (e non come nei romanzi, la cui caratteristica più peculiare è proprio il racchiudere gli eventi in un inizio e una fine; come tra parentesi).
"Ormai non sai più quando, e se, potrà essere scritta la parola fine, e questo è davvero straordinario."
Molte considerazioni te le avevo già mandate nei commenti del blog nel corso del tuo "work in progress"; aggiungo che i capitoli che mi hanno più intrigato e che mettono in mostra le diverse corde della tua scrittura sono il 31 (con quella felice alternanza della ricetta della "mesciueia" e il tuo quotidiano di donna), il 39 (in bilico tra metaletteratura, metafisica, considerazioni sull'arte e sulla religione), il 40 (umorismo puro) e il 43 (una summa di tutto quanto ho scritto nelle parentesi qui sopra).

G.V.

mercoledì 17 dicembre 2014

Metà del silenzio - Nota introduttiva di Anna Maria Curci




 Una mano sulla spalla, proprio là dove il dolore sordo e continuo accompagna i giorni, il tocco lieve e fermo: questo è per me l’incontro, che si rinnova con la raccolta Metà del silenzio, con la poesia di Cristina Bove. Quella mano potrebbe scrollare - ne ha tutta la forza e l’autorevolezza-  ma non lo fa; al contrario, quel tocco è l’invito alla sosta, alla riflessione, a un volteggio perfino, a condividere una danza, a percorrere un tratto di strada insieme. Quella mano e il suo tocco non possono essere disgiunti dagli occhi che la guidano, e quegli occhi guardano oltre, verso una dimensione altra. Attenzione, tuttavia: non ci troviamo dinanzi a una poesia che sfugge, spaurita e dimentica, il reale; semplicemente, lo attraversa, cogliendone orrori tanto palesi quanto palesemente ignorati dai più e, insieme, bellezze che si sottraggono alla superficialità e che non tutti, quindi, sono in grado di percepire. Viene spontaneo, dunque, l’accostamento a una raccolta precedente di Cristina Bove, Attraversamenti verticali, ma anche qui, come ogni volta mi accade, penso al superamento, che dell’attraversamento è compagno e affine e che ne costituisce una prosecuzione allo stesso tempo naturale e dettata da una volontà inconsueta.
Attraversamento e superamento, si diceva: sotto questa luce va letto, studiato, raccolto, il titolo del libro, che è poi anche il titolo di uno dei testi che la compongono: Metà del silenzio. Stavolta la pluralità, ancor più della duplicità del significato dell’insieme, diversamente da come avviene di solito nei titoli e nel corpo delle poesie di Cristina Bove (basti leggere, anche qui, d’altronde, i primi titoli: Con_sensi, Di_versi fuochi e, più avanti, Tra_scende_re, A(f)fondo) non è dichiarata e neanche suggerita, almeno non esplicitamente: essa emerge dalla lettura dei testi, cosicché è chi legge a chiedersi, dopo, se non sia percorribile il sentiero tracciato qui dall’autrice anche alla luce di un accento tolto. Dunque, non solo “metà”, una delle due parti, del silenzio, ma anche “meta”, traguardo,  del silenzio. Resta ancora aperta una terza accezione della prima parola, “metà”: quella che la ricollega alla preposizione che in greco antico reggeva proprio il caso genitivo e che apre la strada quindi a un’altra interpretazione del complemento espresso dalle parole “del silenzio”: insieme al silenzio, per mezzo del silenzio, oltre il silenzio, riflessione sul silenzio, attraversamento  e superamento grazie al silenzio?
Suggerisco, per affrontare il cammino in Metà del silenzio, questo viatico, vale a dire il tocco lieve e fermo della mano che ho dichiarato in apertura essere tratto distintivo della poesia di Cristina Bove. È un tratto semplice perché sceglie termini ed espressioni d’uso comune, e insieme complesso, perché sul significato dei termini di uso comune riflette, con piglio divertito e severo, piegando e dispiegando, mostrando e dimostrando che oltre l’uso comune si può andare, a patto che, appunto, lo si sia attraversato, con sguardo lucido, volontà e capacità critica.
Se il viatico è un tocco lieve e fermo della mano, il viaggio non teme di andare a fondo e di affrontare, nel tendersi oltre la soglia dell’immediatamente riconoscibile – e si torna qui alla dimensione ‘meta-“ – ciò che è ‘oltre’, che si pone ‘al di là’,  ciò che nella vita di superficie, nella ‘esistenza di galleggiamento’ viene accuratamente evitato, cancellato, ignorato e dunque, non senza una non più ingenua e senz’altro sbrigativa superstizione, taciuto.  Il passaggio a questa altra dimensione della conoscenza attraversa, e non salta a piè pari, esperienze dolorose di perdita, di allontanamento dal rassicurante, di divisione, di lacerazione e di «parole inferte». Un’esistenza di frontiera, questa, che è resa con andamento dei versi e termini che non temono il salto di tonalità – l’uso comune della lingua è affiancato da termini di minore frequenza, inusuali, ma mai inseriti per il mero fine dell’effetto ricercato, del preziosismo a tutti i costi – e il chiaroscuro spiazzante all’interno della composizione. Chi è l’io lirico? Acheronte il traghettatore, la fanciulla che in volo scopre verità, Dorothy dal Mago di Oz, la donna «dal dolore contratto», il fabbro che «spezza faville» (e che dà corpo al felice sospetto che l’associazione tra favilla e favella, tra lo spezzare faville e solcare favelle non sia soltanto efficace analogia, ma intento programmatico), colei che per una volta sceglie di essere Criptica, oppure colei che «da tempi infiniti» reca fiori? L’io lirico è tutti loro, ed è, ancora, qualcosa di più: assume forme molteplici – tratto questo che è proprio della poesia di Cristina Bove, come ebbi occasione di affermare a proposito della sua precedente raccolta Mi hanno detto di Ofelia – e si manifesta, come recita il titolo del romanzo di Cristina Bove, come Una per mille. L’intima coerenza, nel perenne mutamento e nell’attraversamento come valore che non esito a definire etico, sta nel tendere alla luce, nella ricerca, e non di rado nella percezione netta, di quello che il poeta Michael Krüger chiamò in una sua raccolta “il coro del mondo”. Raccolta del residuo, di ciò che altri scartano (“ma ciò che resta…” di Hölderlin risuona nelle orecchie) e contributo vivissimo a una nuova, insospettata armonia che si libra e libera; a chi legge non resta, ed è tanto, che accogliere l’invito che conclude la poesia Di voli e altri viaggi:  «Non fatela atterrare / portate via il frastuono / ha il sonno lieve / anche il frusciare minimo la desta. / sogna di porti e navi / di biglietti per dove».

© Anna Maria Curci




   Parole inferte

Sotto la chioma bruna
che parla in strato sferico
riferimenti in sovran_numero
si calano le fronti corrugate
strade d'asfalto accelerando il passo
non il respiro, quello
rimane appeso al chiodo.

E sbeffeggiare chi la vita stringe
filo di ferro infisso tra le vertebre
a consentirle transiti di scarto
- ecco un bacino idrico -
la ninfa delle ellissi
di quello che non ha ferisce a morte
ché se appena si approssima d'un cielo
bavero di cristallo
termina l'alfabeto nella forra
e nel suo manto nero sfoga l'urlo.

Io sono qui, mi accosto con prudenza
perché ho paura d'essere ferita
la millesima volta.
E sì che vorrei essere un abbraccio.

(p. 18)

Donna chissà...

Portale un guizzo di vita
   una lama diretta nel centro
   a infilzarle pensieri
oppure a mormorii
di sé precipitando che le strappa
il vestito
il chiaro-luna pelle
l'ansimo di un'ora resa insolita
se ti trema la voce
poi non chiudere a sassi l'apertura
non trafiggerne l'ombra.

le mani te le rendo
non sono indispensabili al morire.

(p. 21)
Acherontia

    Allora ti avvicini con la bocca
    alle cose sentite dire altrove
    che non sono le tue
    raccogli cenci
  spolveri le travi -  i ragni li farai infelici -
e se pronunci ancora altre parole
otterrai sei monete e due lustrini
di fandonie sgargianti
 
tu non conosci decerebrazione
l'essere solo corpo -  il pesce anfiosso -
il suono delle cellule che cade
transitorio
giù per accenti tonici

emerge da cunicoli
deflagrando crisalidi - l'atropa sfinge -
separata ristagna e si nasconde
sotto lemmi e cifrari
l'anima mia
per un destino d'ali.

(p. 32)

Almeno chiedersi

Ci sono tombe in cielo fatte di fumo
tante hanno misure piccole
portano solo nomi illeggibili
sono però nel cuore delle stelle

conservano la cenere degli uomini
i loro corpi mutilati e offesi
madri svuotate di bambini a sangue

c'erano scarpe a tonnellate
fuori dai forni, denti
occhiali una montagna
e ceste di capelli

prima d'essere fumo li spogliarono
d'identità e di pelle
se ne fecero tzanzas e paralumi:
chi scuoiava, conciava, a chi pareva logico
fare d'esseri umani suppellettili?

Più delle sentinelle
dei cavalli di frisia
del gelo e della fame
li uccise chi
non vedeva orrore
in quei bambini ossuti
strappati dalle braccia delle madri
chi non provava pena
per i corpi indifesi nella neve
e che li raccoglieva
per gettarli nel fuoco e nelle fosse

quelli per cui la strage fu normale.

Di quelli ancora è pieno il mondo
brandiscono randelli
e vorrebbero forni da sfamare.

(p. 40)

Criptica (della quale non do spiegazione)

S’inceppano dentro
ehm… colpi di tosse e un sorso
a mandar giù rospi di maggio
ma solo perché è maggio
se fosse stato agosto
rospi d’agosto.

Ti prende alla sprovvista
al nord dei desideri
iperborea presenza
- sapresti mai di me se non sentissi
il vuoto dell’assenza?-
esisto in quanto sono una mancanza.

Si arresta al filo dell’ascolto
chi non conosce la parola giusta
e crede che una capra
campi di più sopra la panca
o che le fisarmoniche soffrano di raucedine
e la natrice senza sibilare
rimanga nella nebbia.

(p. 46)
Di voli e altri viaggi

Una corazza d'anni arrugginiti
o cavalli di frisia
a protezione della carne tenera
si potrebbe spacciarla per culla
infiocchettarla di violamammola
e tanto per
appuntarle due spille a fior di labbra.

Gradisce la signora
nastri di taffettà?
E chi lo sa, se poi sfatta di cera
a una candela basta uno stoppino
- evitare tragedie, un piccolo bruciare
a colar via -

e la vedete infissa
dal millenovecentosessantuno
a volo d'angelo.

Non fatela atterrare
portate via il frastuono
ha il sonno lieve
anche il frusciare minimo la desta.
Sogna di porti e navi
di biglietti per dove.

(p. 48)
Donne

A quelle donne di meraviglie e fiori
quelle che silenziose fanno andare
casupole e favelas, figli portati sulle
spalle chine, lana pungente sulla pelle
dita affondate negli inverni
donne dismesse a ricamare perle
e chatouches per quelle fortunate.

Donne dai pianti occulti per i figli perduti,
donne dalle carezze rassegnate
sulle deformità dei loro nati e quelli d'altre.
Vanno con passo celere
più avanti della vita
più pietose del quadro sugli altari
che spiega nel suo ebete sorriso
quanto non fu mai loro e di quei figli abnormi,
l'opposto dei bei riccioli dipinti
e lineamenti rosa.

Donne delle catene di montaggio
recluse per un tralcio di mimosa
donne dei mille passi nel deserto
per un una goccia d'acqua
donne a scacciare mosche dai sorrisi
dei loro figli condannati a sete.
Donne vendute
donne vilipese

Qui ci piangiamo addosso
per uno specchio rotto, una sedia tarlata
solitudine in versi che dovrebbe
consacrarci poeti
roba che non soccorre i derelitti
che non reclama l'equità dovuta
e niente fa per togliere al potente
quello che ruba ai miseri.

Donne di ceri e cere
prigioniere d'inganni, occhi cuciti,
che al prete per figliare e per morire
pagano sempre il truogolo e l'ingrasso.
Spossessate del corpo, incubatrici
di vittime innocenti.
Madri di stupratori e santi
donne comunque e sempre.

(pp. 50- 51)
Guardami

potrei anche non esserci
nel buio sono o non sono
come il famoso gatto di Schrödinger
esisto solo se qualcuno osserva.

La logica dei quanti
sarà pure dei tanti compassati cervelli
espressa a formule
le nonmisure mie sulla lavagna

e_vasi comunicanti
per una fenditura
sangue a con_fondere
ti prometto quel bacio di carbonio
diamante a mezzanotte
solo se ti soffermi
alla sua luce.

(p. 57)

Di una poesia della raccolta, Dorothy e il mago, esiste una versione in tedesco:
Dorothy e il Mago

Non gridare se nasci d'autunno
se la tua voce è traccia del vissuto
la città di smeraldo ha le sue tane
e non temere il freddo sulle vie
battute dal maestrale
vieni a braccia distese
portami ombrelli rosa d'artemisia

ti disegno col dito nelle fragole
i contorni di Oz
e tu da quel velario che separa
giorni di grigio dalle luminarie
scrivimi fiabe a margine
ti leggerò le labbra
e basterà.



Di una poesia della raccolta, Dorothy e il mago, esiste una versione in tedesco:
Dorothy e il Mago

Non gridare se nasci d'autunno
se la tua voce è traccia del vissuto
la città di smeraldo ha le sue tane
e non temere il freddo sulle vie
battute dal maestrale
vieni a braccia distese
portami ombrelli rosa d'artemisia

ti disegno col dito nelle fragole
i contorni di Oz
e tu da quel velario che separa
giorni di grigio dalle luminarie
scrivimi fiabe a margine
ti leggerò le labbra
e basterà.


Dorothy und der Zauberer
Schrei nicht, wenn du im Herbst geboren wirst,
wenn deine Stimme Spur des Erlebten ist
die Stadt aus Smaragd hat ihre Höhlen
und fürchte dich nicht vor der Kälte auf den
vom Mistral gepeitschten Straßen
komm mit ausgestreckten Armen
bring mir rosenrote Schirme aus Beifuß
ich zeichne dir mit dem Finger in den Erdbeeren
die Umrisse von Oz
und du aus dem Vorhang, der Tage
aus Grau von der Lichterflut trennt,
schreib mir Märchen am Rand
ich werde dich von den Lippen ablesen
und das wird reichen.

Cristina Bove, da:  Metà del silenzio, Pibuk 2014, p. 30
(traduzione in tedesco di Anna Maria Curci)


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