domenica 14 dicembre 2014

M.Carmen Lama

Metà del silenzio

Prefazione

Il silenzio, talvolta, è un gravitare di parole il cui suono è quello di una lingua universale. Parole che nascono a fior di labbra e lì si fermano, o nel cavo dell’anima dove vengono tenute in gran fermento, ma senza osare debordare. Attraverso le parole non dette, il silenzio assume tanta forza da ergersi a sentinella della torre più alta della Vita. Ed è allora che proietta la sua ombra su ogni cosa di cui vorrebbe dire e invece tace.
Al poeta, però, non è concesso vivere all’ombra del silenzio. Egli deve assumerne le responsabilità e tradurlo nelle parole poetiche che gli urgono dentro. Ma senza alcuna invasione di campo, anzi, nel più garbato rispetto del silenzio altrui.
Cristina Bove, nella sua nuova silloge, ha scelto questa via e ha così lasciato che “Metà del silenzio” rimanesse tale, mentre si è avvalsa dell’altra metà per dare voce alle congetture possibili che quella metà taciuta ha di volta in volta in lei evocato.
La poesia che dà il titolo alla silloge, infatti, è paradigmatica in tal senso: si parla delle donne, (la “metà del cielo” silenziosa) “arretrate su rive senza rena” che “vanno col viso vuoto / le mani piene nei sorrisi incerti” // “E braccia / da stringersi soltanto al proprio petto”: il loro silenzio è un grido altissimo che Cristina ha catturato e trasformato in poesia. L’ha interpretato dai gesti, dagli sguardi, dalla malinconia che traspare “dagli occhi di smeraldo”.
Ed è un silenzio che vive della sua stessa forza, declinata al positivo e tradotta nella ricchezza interiore che produce.
Non fa altro, il poeta, che prelevare dal profondo le parole di quell’intima sofferenza difficile da esprimere, ma che accomuna per molti suoi aspetti gli esseri umani e che, quindi, dà modo al suo animo sensibile di farla propria e, così, di esplicitarla.
Da questa breve premessa, si coglie già l’intento poetico di Cristina Bove: assumere pienamente la funzione del poeta e, pertanto, illuminare ciò che esige una spiegazione, un senso, e cercare di analizzare da più prospettive dubbi, domande, misteri, dolore e, insomma, tutto ciò che attiene all’esistenza universale per darne una possibile, ma mai univoca, né esaustiva, interpretazione.

Ma, al di là del titolo esemplificativo dell’intera silloge, ciò che colpisce a prima vista sono anche gli stessi titoli di ciascuna poesia:
-  alcuni, per i giochi di parole che evocano e che nella nostra ricca lingua sono molto stimolanti; ed è interessante vedere come vengono poi riempiti di significato nei diversi sensi dis_giunti da un segno (come la sublinea appena evidenziata nel termine dis_giunti), oppure da parentesi. Alcuni esempi: Con_sensi; Di_versi fuochi; Tra_scende_re; A (f) fondo;
- altri per l’originalità espressiva che, nella maggior parte dei casi, racchiude già in sé il senso complessivo della poesia (es. Chi sogna Che; Parole inferte; Acque profonde; Notifica a ciel sereno; Il burqa occidentale; Fluitare; ecc…);
- altri ancora, perché sono il segno di una cultura ampia, che va dalla fisica, all’astrofisica, alla filosofia, al mito, alla scienza, perfino alla musica e alle arti plastiche e pittoriche, e senza trascurare le fiabe prese a simbolo di accadimenti e vissuti (es: Acherontia; Capella; Atlantidea; PiErre; PHI; Myrmeleontidae; Alhabor; Doroty e il Mago; ecc...).
Questa ricchezza, che appare già alla prima scorsa dell’Indice, si sostanzializza poi nelle diverse poesie, attraversate da una musicalità e un’armonia che guidano il lettore nella comprensione pressoché immediata, se non del senso profondo, almeno dell’atmosfera incarnata nella forma.
Una tecnica fine, tendente a mascherare l’endecasillabo, quasi sempre presente, a volte in alternanza col settenario, come nella migliore tradizione classica mai superata, è quella di spezzarlo, così da far sembrare interrotto il  pensiero e far prendere respiro, accennando a una pausa vocale che sostiene meglio l’andamento ritmico e, ancora una volta, la stessa comprensione.

Ma vorrei ora sottolineare una particolare caratteristica di Cristina Bove-poeta, che discende dall’ampiezza culturale di cui sono permeate le sue opere: leggendo le sue poesie, ci si chiede, quasi increduli, in che modo ella riesca a introdurre l’universo, nelle sue molteplici sfaccettature, all’interno di un breve componimento poetico. Sembra quasi che la sua mente sia in grado di contenerlo, senza che le occorra altro che un immobile viaggio (quello mentale, appunto!) per portare alla superficie e mostrare ai suoi lettori quanto è oggetto delle sue visioni fantastiche e immaginative.
L’esperienza personale è spesso spunto per formulare poeticamente riflessioni sulla vita, sulla sofferenza, sulla gioia, sull’amore, sull’amicizia, ma anche in questi casi, apparentemente più semplici da gestire dal punto di vista poetico, Cristina attua dei voli pindarici e trasporta il lettore in una dimensione lirica che viene completamente assorbita dalle fibre più intime dell’anima di chi legge.

Un’altra peculiarità da sottolineare consiste nell’uso di un lessico che si differenzia non solo dall’uso comune (il che è normale per un “vero” poeta), ma dallo stesso uso che ne fanno altri poeti: è come se la Bove fosse distante una o più dimensioni nell’uso del linguaggio, rispetto alla maniera più comune di poetare; è come se il “nutrimento” linguistico- lessicale fosse stato da lei metabolizzato e poi re-inventato in un modo del tutto imprevedibile, in particolare negli accostamenti di termini che nelle sue mani non diventano soltanto metafore prima impensate ed impensabili, forbite ed originali, ma anche semplicemente (sic!) espressioni vive, mobili, che si leggono come se si stesse assistendo ad una rappresentazione teatrale, in modo che appaiono le scene descritte come nell’atto stesso in cui si svolgono.

Le poesie che fanno parte di questa raccolta spaziano su un’ampia gamma di temi, com’è buona consuetudine dell’autrice, così dando modo al lettore di ritrovarsi almeno in alcune delle situazioni o dei vissuti che ne costituiscono l’oggetto.
Ne analizzerò alcune soltanto per suggerire possibili chiavi interpretative, lasciando per il resto ai lettori la gioia della scoperta della magistrale potenzialità della mente umana, in intima relazione con la mente poetica della Bove.
Le poesie che colpiscono maggiormente in una raccolta poetica come questa sono generalmente quelle che incuriosiscono già a partire dal titolo, ma, in base a quanto ho già scritto in proposito, la mia scelta è davvero difficile.
Per restare sul tema delle donne, introdotto dalla Metà del silenzio, altre poesie sullo stesso tema, molto sentito e, purtroppo, sempre attuale, tendono i nervi e il cuore a loro difesa o, quantomeno, ad una sofferta partecipazione. Si vedano, ad esempio, le poesie:
-   Parole inferte, a significare quanto le parole possano fare male, ferire, quando sono pronunciate con una sorta di astio, sempre ingiustificato, a mio parere, quando l’altro/a è un familiare;
-   Donna chissà…, in cui si avverte un forte desiderio di rispetto per la donna, non solo nei momenti in cui le si fa vivere (meglio, “si vive insieme”!) “l’ansimo di un’ora resa insolita” con “un guizzo di vita”; tutto questo, infatti, si cancella di colpo se poi le si trafigge persino l’ombra;
-   Donne, che enumera la diversità delle mansioni a cui le donne ottemperano per l’utilità della famiglia, poi  ripagate da coloro da cui ci si aspetterebbe il massimo rispetto e almeno un po’ d’affetto (compresa la società più ampia), con inganni, e altre azioni non degne di alcun essere umano;
-   Il burqa occidentale, a significare che la condizione femminile non è ancora risolta neppure nel civilizzato (?) mondo occidentale;
-   Figlie della solitudine, donne che hanno per compagnia solo il proprio silenzio carico di profonde emozioni, accumulate già dalla fanciullezza, spesso in ambienti che avrebbero dovuto incoraggiare, difendere, sostenere la fragilità insita per natura in ogni essere umano e tanto più in una bambina;
-   o, ancora, Alfa privativo, dove le donne sono viste come appartenenti all’altra parte della vita; esse lasciano in secondo piano, (meglio, annullano…!) il proprio autentico sentire per poter maggiormente soddisfare il partner, ma sono rese oggetto in mani che “devastano” proprio mentre le si accoglie; e la civiltà? non ha voce per queste abiezioni umane: “la terra non ripaga le sue amazzoni / e  nei giardini i pomi delle esperidi / restano appesi ai rami”.

Molte sono anche le poesie d’amore, in cui questo sentimento viene presentato con i suoi alti e bassi, come avviene in modo naturale nella vita di ognuno: Cristina segue istintivamente i moti dell’animo che le permettono di alternare il sogno, il desiderio, la paura di entrare in una storia nuova che pare se-ducente, il rimpianto per le parole d’amore mai sentite, la nostalgia per i momenti felici trascorsi e il ricordo che torna a farsi vivo come a voler sottolineare, a volte, la distanza tra il passato ricco di emozioni positive e il presente arido, intriso di solitudine esistenziale, e altre volte come a voler supplire alla mancanza di quelle atmosfere piacevoli dei tempi andati, addolcendo così i momenti di abbattimento presenti.

Vi sono poi le poesie più propriamente filosofiche, in cui la Bove continua la sua sofferta ricerca per carpire almeno un barlume di senso dell’esistenza, all’interno di un universo di cui si è parte infinitesima ma che ci rende partecipi della sua grandezza.
E allora, ecco poesie come CHI sogna CHE, dove “meno d’un fiato è il sogno / della vita / dall’agglomerazione alla scompagine” e ciascuno di noi è contemporaneamente il sogno e colui che sogna, e solo l’amore ha la capacità di fare questa sorta di miracolo; o come Tra_scende_re, in cui c’è una sorta di dura opposizione a quel “Tu l’eterno immanente / in ogni quanto particella nome / Tu che immortale vivi / d’ogni morte; o come Notifica a ciel sereno, uno struggente dialogo mistico con la Vita, ingannatrice, beffarda, alla quale si notifica in modo determinato e che non ammette repliche “che il silenzio è peccato originale // è meglio un grido / Madre / di una lacerazione all’infinito”; o come Albori semiotici (in connessioni inspiegabili), in cui la poetessa scopre adesso che “Ero già lì / miliardi di universi partoriti”; o come Mai, dove “è qui che scorre il dentro / tu sei fuori […] // Il vero dio / siamo in frammenti noi / […] siamo i teloni dell’impermanenza / perché tu possa dichiararti eterno”.

Non mancano le poesie un po’ giocose, che sembrano punteggiare la raccolta per allentare un po’ la tensione provocata da certe invettive sociali che pure sono presenti: una per tutte, Mix, dove risaltano in modo netto e fin troppo significativo alcune espressioni che sembrano non avere niente a che fare con le altre, ma dove l’elenco delle cose da “mixare” viene a chiarire alla fine il suo scopo; e allora le “parentesi quadre” inducono ad una sorta di pausa riflessiva momentanea, un “imperativo categorico” sta per un volersi imporre, senza possibilità di ripensamenti, almeno un margine di riflessione che faccia, da sola, da “cartina al tornasole” e finalmente evidenzi con chiarezza la situazione presente; e poi il silenzio, evidenziato dal “cauterio” e dal “chiudere a filo bocca”, per finire con quel “clic su my heart” e sentirne il suono onomatopeico “splash” che da solo spiega quale triste effetto hanno prodotto le condizioni di quella confusione di vita alla quale non ci si riesce ad adattare; molte delle espressioni usate (apparentemente giustapposizioni non legate da alcuna logica discorsiva) trovano la loro corretta collocazione non solo in riferimento al titolo della poesia, ma soprattutto nel denotare come si voglia pensare ad altro per meglio sopportare la propria sofferenza e come, per questo motivo, ci si immerge in situazioni mediatiche, ad esempio seguendo l’andamento della Borsa delle azioni, i matrimoni speciali o altro che possa far parte della quotidianità e da cui ci si possa sentire emotivamente distanziati.

A volte, Cristina sorprende con poesie il cui contenuto viene molto rafforzato dalla struttura grafica: ad esempio, la poesia Myrmeleontidae è scritta in forma di calligramma ed evoca l’habitat della formicaleone, avvalendosi della originalissima metafora dell'imbuto-voragine-abisso, resa visibile dalla stessa grafica dei versi. Questi i versi cardine:
"allunga arpia la mano come gli aztechi a depredarti il cuore e danza
sulle tue ossa stanche il suo bolero d'ombra piramide di sangue
ahimé! quanto sconquasso le parole e quanto scivolosa
nell'imbuto la tana oscura. Può gridare piacere
ai quattro venti: è l'amante del nulla".
[……………………………….]
Il tutto per rapportare all’esperienza umana la vita delle myrmeleontidae: la tana e il loro cibarsi di insetti corrisponderebbe così all’abisso scavato tra le persone quando depredano anime.

Ci sarebbe ancora molto altro da dire per presentare in modo completo questa ricca e interessante silloge poetica, ma mi limiterò a concludere sottolineando come Cristina abbia una grande capacità di captare minimi segnali, non solo dalla vita delle persone direttamente o indirettamente conosciute, ma anche dalla presenza di oggetti e cose che potrebbero sembrare insignificanti e che lei invece riempie di vita e senso, soprattutto in analogia con la propria o altrui esperienza.
È come se riuscisse a rendere presente a ciascun lettore, che volesse immergersi nella sua poetica, l’aspetto stereoscopico della propria anima, nei cui fondali scoprire, insieme a lei,  tesori inimmaginabili che la abitano. Ma sempre portandoci con mano lieve e a volte persino con leggera ironia, anche quando presenta immagini di dolore. Capace, così, di confermare quanto Leopardi scriveva ne’ L’ultimo canto di Saffo, (III, 45-46): “Arcano è tutto, fuor che il nostro dolor”, in quanto riesce a liberare il dolore stesso dalla nozione di arcano, rendendolo vivo, palpabile, e con effetto di forte e immediata partecipazione emotiva del lettore.
Dunque, è così che il silenzio, talvolta, è un gravitare di parole nel vento della sera, un accendere fuochi a precipizio, cauterio di ferite che più sono invisibili più bruciano, lasciando riverberi “in cieli di smeraldo”. Riverberi prontamente captati (con) magica_mente da Cristina Bove, moderna poeta che lascia suggestioni profonde nell’animo di chi sa pienamente apprezzare la sua poetica.

M. Carmen Lama


sabato 14 giugno 2014

Metà del silenzio - lettura di Narda Fattori

  

Normalmente si definisce il silenzio come un vuoto dentro il quale naufragano gesti e parole; il titolo di questa silloge avrebbe ben poco senso se così fosse; il silenzio, al contrario, è un pieno che non sa dirsi, è la vita che si vieta di narrarsi, è il pensiero che si riflette e non sa trovare formule per esplicitarsi.
Affrontare il silenzio è affrontare se stessi, interamente e integralmente. E’ un’impresa complessa, forse impossibile.
Affrontarne la metà è indice di coraggio, è necessità di estirpare i carcinomi che senz’aria, reclusi, proliferano e diventano pericolosi.
In questa metà del silenzio di Cristina forse non c’è metà dei suoi  vissuti, ma riconosciamo le sue fatiche, le sue amarezze, le sue ritrosie, gli ardimenti, i suoi pensieri appesi e lucenti come led ai frattali dell’universo. Gli ardimentosi accostamenti di parole e immagini denunciano una cultura che abbraccia più branche del sapere intrise nella sua e nella nostra vita, spesso mascherate, a volte quasi in mostra.
Queste sono anche le caratteristiche della poesia di Cristina, non semplice, ma qua è là quasi disincantata e disincarnata. C’è molta umanità di sentire e di soffrire, ci sono squarci ironici e giocosi, c’è soprattutto una messa a fuoco precisa, imperdonata. “Sotto la chioma bruna/ che parla in strato sferico/ riferimenti in sovra-numero / --- “ la poesia termina con un inatteso “e sì che vorrei essere un abbraccio” Quest’ultimo verso dice molto della filosofia e degli atteggiamenti culturali e comportamentali di Cristina, ferita, delusa, non più in attesa, ma lei accogliente, rassicurante, protettiva. Ma “nei giardini delle esperidi/ i pomi restano appesi ai rami”  La poetessa fruga nelle sue esperienze e in quelle altrui alla ricerca di un qualsiasi bene; non mancano ma sono racchiusi in impenetrabili gusci o si sono rarefatti lungo il cammino ormai cetre spente.
Così ogni tentativo di volo oltre e sopra il dolore è destinato a fallire, la parola no, essa resta, consolazione degli afflitti, surrogato degli affetti, bastone che sorregge l’andatura zoppicante e scansa il tranello lungo il percorso. Molto spesso il percorso si tuffa in mare e qui mutano le forme di vita non l’esito, sempre capriccioso e indocile.
Nella sovrabbondanza di parole che affluiscono nella stessa poesia da diversi campi semantici qualcuno potrebbe inferire una ricerca razionale raffinata, poi si scopre che certe visioni tornano, che alcune parole sono tracce e indizi, esistono per la loro capacità di dire in quel modo e solo in quello. La poesia di C.Bove ha un’altra caratteristica: pare non rivolgersi a nessuno: non a un io, né a un tu, neppure ad un noi o voi, tutto coesiste e tutti sono chiamati allo specchio della loro coscienza; soltanto quando parla di donne il grumo del suo dettato si scioglie e la poesia si apre come un fiore dai molti petali ( non so se rosa o girasole) ma da quell’apertura penetrano solo amarezze, illusioni. Ci sono poesie sulle crudeltà contro i bambini e allora il linguaggio si liquefa in pianto; né mancano i j’accuse contro i potenti sempre prepotenti, sempre pronti a calpestare  la dignità dei poveri .
Tecnicamente la poesia di Cristina è priva di retorica; qua e là gioca con i doppi sensi, con le assonanze; tuttavia queste poesie possiedono una musicalità propria di chi ha il ritmo e le cadenze dentro, come un musico.



Narda Fattori

mercoledì 12 marzo 2014

Annamaria Tanzella

 riflessioni di lettura
http://annamaria-liberipensieri.blogspot.it/2014/03/riflessioni-di-lettura.html

lunedì 3 marzo 2014

Gloria Gaetano

commenta "Una per mille"

 

Un romanzo solo apparentemente autobiografico, anche se c’è la vita dell’autrice adombrata, sinceramente espressa, con levitas, e senza alcuna concessione al sentimentalismo melenso.
Storia di una formazione, di una crescita, che è poi, in fondo, sempre una metamorfosi, che avvolge tutti coloro che vengono in relazione con l’autrice. Una scrittura limpida, semplice, che scorre dall’incipit all’epilogo. Lo stile ha una sua cifra personale, lieve, intensa, ma anche un po’ distaccata dall’eccessività di certe emozioni. Tutto è calbrato, compatto, suggestivo, fluido. Per fortuna c’è ancora da leggere qualche opera narrativa che ti prende, cattura, ma ti lascia tanta serenità e ti spinge ad accettare la vita, così come ti è successa, donandoti un senso profondo dell’essere e del trasformarsi. E della relazione con gli altri, su cui ti fa riflettere...

mercoledì 22 gennaio 2014

a Radio Alma Brussellando

tutto all'insegna dell'improvvisazione, e quindi momenti di indecisione dovuti all'emotività.
dal punto 16,10 potrete ascoltare l'intervista riguardante il mio libro.


  

martedì 21 gennaio 2014

Guido Mura

Romanzo di Cristina Bove
Romanzo di Cristina Bove
Una per mille
di Cristina Bove
Edizioni Smasher
http://www.edizionismasher.it/cristinabove2.html
Narrativa
ISBN 978-88-6300-098-6
Prezzo € 12,00


Libro molto particolare, questo di Cristina Bove, in cui la complessità del pensiero non diventa mai ostentazione sussiegosa (il che per chi scrive versi è una caratteristica rara). Ne è spia l’adozione di un linguaggio che, senza rinunciare all’uso di termini colti e di riferimenti culturali, si colloca spesso in una dimensione spontanea e popolare, con un atteggiamento colloquiale che ricerca volutamente il contatto con il lettore.
Il romanzo, se così lo vogliamo chiamare, riflette molto bene la personalità di Cristina, come emerge dalla sua ormai vasta produzione poetica. Capace di improvvisi guizzi di genialità, decisamente originale, ma anche fondamentalmente anarchica, almeno in apparenza. Personalmente apprezzo molto questo coraggio della diversità, questo voler essere spontanea fino allo spasimo, questo voler esprimere se stessi senza preoccuparsi troppo del giudizio dei critici più tradizionalisti.
Così certo, non si può richiedere alla prosa di Cristina assoluta uniformità e coerenza strutturale. Bisogna accettare le sue improvvise tirate, non raccontate dalla bocca di un personaggio, ma spesso introdotte da un intervento quasi saggistico del narratore.
Ma, a una lettura più attenta, non sfugge che il caos contenutistico e temporale è, nella realtà, un caos strutturato e che osserva le sue leggi. La molteplicità, che già si intravede dal titolo, si manifesta invece come una sorta di dualità, tra un io esterno, che percepisce e descrive, e un io oggettivo e calato nel tempo e nello spazio, che si lascia percepire e raccontare. Come potrebbe il narratore esterno, che si colloca in un eterno presente, seguire un ordine temporale preciso e ricomporre i frammenti di vita e di pensiero in una struttura saggistica o diegetica troppo condizionata dal nostro sentimento dell’ordine e della simmetria?
E allora dico a me stesso che per affrontare libri come questi bisogna avere il coraggio di abbandonare i preconcetti del critico o dell’editor nei confronti del romanzo, che viene ancora considerato come una struttura immutabile e sacra, un po’ come la forma-sonata nella composizione musicale ottocentesca. Il romanzo qui è insieme narrazione, autobiografia, ma anche pamphlet, saggio, cronaca, denuncia: è un’insieme ricco, anche troppo, e rimane una valida testimonianza di una vita e di una società. Ma non è quello che in fondo chiediamo da sempre alla buona letteratura?

Morena Fanti




Una per mille e la poetica di Cristina Bove

una-per-mille
Una per mille
Cristina Bove
Edizioni Smasher
Narrativa
ISBN 978-88-6300-098-6
1a edizione ottobre 2013


Leggere questo libro di Cristina Bove fa capire come l’autrice non possa mai lasciare la sua anima di poetessa raffinata che sa di endecasillabi e di parole scelte con cura.
Nel libro ruotano vari stati d’animo e dialoghi interni tra l’autrice e un suo alter ego dall’anima in opposizione.
Si intuisce la difficoltà di questa scrittura, che rivela molte cose che Cristina ha tenuto dentro se stessa per tanti anni e che premevano per uscire e rivelarsi al mondo. Il racconto si snoda attraverso tutta la sua vita, in un percorso assimilabile a una mostra d’arte, in cui i vari capitoli si dipingono sotto i nostri occhi come quadri dai colori ora vividi, ora pastello, infuocati con rossi accesi e blu che si mischiano nel racconto dei viaggi, delle case abitate, delle visite ricevute, e anche delle delusioni, delle tristezze accumulate, in una melanconia di fondo che permea tutto il racconto. I colori sono simili ad acquerelli in cui l’acqua si stempera ma non diluisce la forza.
Il linguaggio di Cristina Bove in questo libro è all’apparenza semplice, di fluida lettura, pur mantenendo la scelta di alcuni termini colti e una scansione dei tempi perfetta, da chi è abituata a scegliere con cura le sillabe con cui ricamare i propri pensieri. Nel raccontarci la sua vita – perché di questo si tratta: di una vita che ha visto tante cose e che ha formato tante persone – l’autrice si mostra senza veli al lettore, attraversando decenni di ansie e angosce che l’hanno spesso fiaccata nel corpo ma mai nello spirito.
È in quel titolo variamente interpretabile che vedo la molteplicità dell’anima di una donna e un’artista che ha saputo cogliere gli insegnamenti della vita, trasformandoli in Arte. Una donna che non si tira indietro quando deve parlare, che non teme di mostrarsi e che si indigna con passione, la stessa passione che la spinge alla scrittura, alla pittura, alle fotografie in cui ritaglia spicchi di realtà, proprio come ha saputo fare in questo libro collage della sua anima.

“Se non avessi avuto il senso di provvisorietà del mio vivere, non avrei mai avuto il coraggio di espormi come ho fatto. È quando si sta per attraversare un confine, “quel” confine, che si può decidere di proseguire al buio, con il solo bagaglio della propria mente, alla giornata. [...] Vivo, immemore di avere un corpo a orologeria. Sono temeraria, affronto passioni ancora come un’adolescente, ma non proietto nulla oltre il mio giorno.”

“Dalla finestra di cucina osserva il tempo farsi nuovamente aprile. l’orto è vestito verde a fiori bianchi.
Mentre si diffonde l’aroma del caffè, toglie le poche briciole dal tavolo.
Bevendo il caffellatte sul balcone, elimina le foglie secche dei gerani. La parete della casa contigua invia riflessi gialli sulla guazza del selciato.
Sarà per cogliere siffatte piccole cose che si vive ancora?”

lunedì 23 dicembre 2013

Domenica Luise


legge

Una per mille, di Cristina Bove

Sono i pensieri di una madre poetessa. Questo balzare dal passato al presente e viceversa rende tutto vivo e unifica l’avventura in un “oggi” dove l’età e il tempo storico sono semplici effetti collaterali dell’esistenza. Così giovinezza, maturità e vecchiezza sono un solo io-noi che fummo, siamo e saremo fra gli altri come noi a spasso nel mistero.

E il mistero è simultaneamente interiore ed esteriore.

Il passato diventa presente e contiene già il futuro dentro di sé: è il miracolo della poesia dal particolare umano all’universale e viceversa in un solo punto come l’universo prima del big bang che ha diversificato quel punto iniziale senza cancellarlo mai. I dilemmi propri ed altrui, le radici della vita e del pensiero, la prosa poetica, è ovvio senza le acutezze ermetiche e le relative concentrazioni a sprazzi, la delicatezza e la forza di una donna immersa nel quotidiano: dentro questo romanzo c’è Cristina, goccia del mare e di tempo.

Nulla di costruito: tutto vero. Non ciò che sembra, ma ciò che è. Fenomeno raro della scrittura odierna e, per me, punto di arrivo. Come insegnante di lettere, consiglio di studiarlo nelle università, a lettere moderne.


Domenica Luise

domenica 24 novembre 2013

Recensione di Renzo Montagnoli


http://edizionismasher.it/cristinabove2.html

Una per mille
di Cristina Bove
Edizioni Smasher
Narrativa
ISBN 978-88-6300-098-6
Prezzo € 12,00




Una vita movimentata


Per chi è abituato a scrivere poesie il passaggio alla narrativa rappresenta sempre un valico arduo da un campo in cui si è acquisita esperienza a un altro che è tutto nuovo e sconosciuto. Potete ben capire che un conto è metter giù dei versi che fotografano un’emozione, un sentimento, mentre altra cosa è svolgere un tema in più pagine, anzi in molte pagine. Credo che Cristina Bove, pertanto, abbia fatto una scelta giusta, non scrivendo un romanzo, ma quella che può essere definita un’autobiografia fra il passato e l’oggi, quest’ultimo destinato per lo più a riflessioni di carattere generale. Il continuo ripescare fatti ed episodi della propria esistenza, come il ritornare all’oggi, se all’inizio disorienta un po’, alla fine si apprezza perché in questo modo si evitano quelle esposizioni cronologicamente successive che tendono inevitabilmente a tediare il lettore. Direi che l’autrice ha un po’ ripercorso il metodo utilizzato da Stendhal per il suo Vita di Henry Brulard, che, guarda caso, è un’altra autobiografia.
Certo, a leggere queste pagine, mi accorgo che la mia vita è stata tutto sommato lineare, e non certo discontinua, quasi avventurosa come quella di Cristina Bove, che volentieri si confessa, raccontando certi fatti che altri magari preferirebbero tacere, ma che a ragion veduta sono stati determinanti nell’iter vitale, come un certo volo da un quarto piano, risoltosi miracolosamente con serie fratture, poi sanate; non sanato invece è stato il motivo di questa caduta, fatta passare dai familiari come un’imprudenza. Va bene, era giovane e da giovani si commettono sciocchezze, però episodio dopo episodio mi sembra di riscontrare un problema di fondo, causato  dall’assenza della figura paterna (il padre c’era, ma se n’andò di casa, quando lei era ancora piccola). Che volete mai, ognuno ha le sue teorie, ma credo che quell’abbandono abbia segnato per sempre, nel bene e nel male, la vita dell’autrice. E poi il collegio con le camerate fredde, l’impossibilità di realizzarsi scolasticamente sono tutte cose che lasciano inevitabili strascichi; da, qui, forse un remoto rigurgito di insoddisfazione che né un matrimonio, né la nascita dei figli sono riusciti a sanare.   Solo l’arte, la passione di leggere, di scrivere, di dipingere, insomma di concretizzare in forme plastiche o comunque accessibili quella inconscia rabbia che si porta dentro, hanno potuto generare un’oasi di appagamento, tanto che mi viene da dire che senza la scrittura non avremmo Cristina Bove, cioè senza di essa si sarebbe lasciata andare e che lo scrivere sia per lei come il respirare, una condizione unica e indispensabile per continuare a vivere.
Personalità indubbiamente complessa, che si riflette anche nella sua produzione poetica, eventi ed accadimenti (in cui si spera ci sia almeno un pizzico di fantasia), ci vengono sciorinati quasi come fossero normali, e invece, per lo più, non lo sono.
C’è in tutto questo, come nella vita di ognuno di noi, un disegno sconosciuto, e il raccontarci finisce con il diventare la ricerca di questo programma. Non credo che Cristina Bove sia riuscita a scoprire l’arcano, ma in cambio, per farlo, ci delizia con questa sua autobiografia dal linguaggio semplice, ma immediato, uno specchio in cui si riflettono dieci, cento, mille Cristina, sempre la stessa e pur così diversa, a seconda dell’angolo di osservazione.
Ma in fondo chi, pur credendosi unico, a guardare dentro di sé non trova tante e tali sfaccettature che prima non avrebbe immaginato?
Ecco, fra penne e pennini, fra carta e inchiostro, rivoltato il suo passato, Cristina Bove, senza ipotecare un avvenire, lascia un segno nel presente, ripercorrendo il suo passato.
Da leggere, mi sembra più che chiaro.

Renzo Montagnoli   




Cristina Bove è nata a Napoli il 16 settembre 1942, vive a Roma dal ‘63. Ha cominciato da piccolissima a disegnare, a nutrire la passione per la lettura. In seguito si è dedicata alla pittura, alla scultura, di quattro raccolte già pubblicate. e alla scrittura.  Negli ultimi tempi si esprime soprattutto in poesia, molti suoi testi formano le sillogi pubblicate.
Scampata più volte alla morte, ha grande comprensione per chi soffre, nel fisico e nella psiche. Crede nella libertà e nella giustizia, pensa che il rispetto della diversità sia un valore fondante tra gli esseri umani e ne sia inestimabile ricchezza. È alla costante ricerca del significato di questo infinito mistero in cui si sente immersa e partecipe.
Ama la vita, i suoi cari, e tutti gli esseri umani dal cuore buono e dalla mente aperta. Considera la poesia un linguaggio universale, l’esperanto dell’anima.
Scrivere è per lei una sorta di rispetto per la propria e altrui memoria, un fissare con la parola il pensiero affinché non si disperda, e renda sacralità alla vita.
Ha pubblicato tre raccolte di poesie per la casa editrice Il Foglio Letterario:  Fiori e fulmini (2007), Il respiro della luna (2008), Attraversamenti verticali (2009). È presente in diverse antologie: Antologia di Poetarum Silva (a cura di Enzo Campi), Auroralia (a cura di GajaCenciarelli), La ricognizione del dolore (a cura di Pietro Pancamo), Antologia del Giardino dei poeti (a cura sua e di altri poeti), Mi hanno detto di Ofelia (2012) per le Edizioni Smasher.



E in alcuni siti, tra cui:
La dimora del tempo sospesa, Neobar, Filosofi per caso.
Il suo blog su wordpress 
http://ancorapoesia.wordpress.com/
Conduce il blog 
http://giardinodeipoeti.splinder.com/
È nella redazione di  
http://viadellebelledonne.wordpress.com/

sabato 23 novembre 2013

Maria Carmen Lama

Cristina Bove - Una per mille - Edizioni Fusibilia 2016

«Un romanzo autobiografico scritto sul filo dei ricordi»

Anche nel campo letterario c’è movimento, aspirazione a cambiamenti, in sintonia con il tempo tecnologico in cui viviamo, nel quale ci siamo e non ci siamo, dentro al quale non riusciamo a percepire la nostra stessa consistenza, non riuscendo a tenere i piedi per terra una volta per tutte.
E quando ci sembra di avere raggiunto una meta, che si tratti di apprendimento di nuove conoscenze o si tratti di nuove relazioni amicali, ecco intervenire delle novità inaspettate dalle quali si è inconsapevolmente proiettati in nuove dimensioni o ricacciati in habitat sconosciuti, sebbene quasi tradizionali.
Ebbene, sensazioni simili possono essere sperimentate anche leggendo nuovi romanzi.
Quello di Cristina Bove che mi accingo a recensire ne è un esempio. Molto interessante, tra l’altro, perché del tutto singolare.
Tuttavia, di una singolarità anche plurale. E già dal titolo se ne può percepire il senso.
Una e mille. Dà l’idea di una rifrazione prismatica di colori e, seguendo quanto recita una significativa poesia di Emily Dickinson, “il prisma non trattenne mai i colori, li udì solo giocare”, ci sentiamo -contemporaneamente all’autrice- trasportati, dalle mille rifrazioni prodotte dal prisma, da un colore all’altro dei ricordi, che nella strategia d’insieme del romanzo, fungono da tessere sparpagliate di un puzzle (un gioco in piena regola, dunque…) e richiedono una loro precisa collocazione.
Ma, si badi bene, non una collocazione in ordine cronologico che potrebbe risultare noiosa quanto scontata, bensì una collocazione che dia luogo all’immagine di una vita e che possa essere scomposta e ricomposta molte volte, ricostruendo ogni volta immagini diverse e tutte aventi pieno diritto ad essere prese per buone, perché esplicative di un senso profondo di un’esistenza.
Al punto che, dopo la prima lettura seguendo l’ordine dei capitoli, si possono sperimentare altre modalità di lettura seguendo soltanto il proprio istinto, partendo ad esempio da una frase che colpisce per l’immediatezza e la veridicità dell’esperienza narrata. Oppure seguendo un ordine del tutto personale, a seconda del sentire del momento. E non occorre pertanto neanche il rimando (che sarebbe in qualche modo forzato) da parte dell’autrice, da un capitolo ad un altro preordinato, come è nel romanzo di Julio Cortázar, Il gioco del mondo (Rayuela).
Una caratteristica che balza immediatamente agli occhi, dopo la lettura dei primi capitoli, è una sorta di sdoppiamento della narratrice e protagonista delle vicende raccontate, che è evidenziato dalla scrittura normale alternata a scrittura in carattere corsivo. È una modalità, questa, a cui  non siamo abituati. È come se ci fossero effettivamente due autrici e due protagoniste, la cui vita, peraltro, “si frammenta in mille pezzi”, a volte nel senso letterale dell’espressione, per risultare alla fine una composizione armonica, come fosse un brano musicale.
Per restare nell’ambito della metafora musicale, vorrei sottolineare come la melodia che risuona nell’aria, pur composta da note a volte dissonanti (ad esempio, quando l’autrice narra eventi traumatici o tragici), non stride, ma segue l’andamento e l’effetto di quel che sta accadendo.
Come quando si ascolta La mère di Debussy, per intenderci. Laddove la musica rigenera le onde tempestose e, mentre si è consapevoli che si sta ascoltando un brano musicale, pur tuttavia si ha netta e vivida l’impressione di trovarsi su una spiaggia ad ascoltare il rumore assordante e continuo delle onde che si accavallano minacciose.
È un romanzo con colori cangianti, proprio come la superficie del mare in una giornata primaverile.
Cristina Bove, inoltre, come Gabriel Garcìa Márquez, con il suo “Vivere per raccontarla”. Con gli opportuni distinguo, perché Cristina non ha vissuto e non vive per scrivere, ma scrive per vivere.
E questo romanzo è stato il suo primo esercizio di vita, in prosa poetica, che ha rappresentato una sorta di sfida con se stessa mentre costituiva una sorta di gioco virtuale con il quale intratteneva piacevolmente i suoi lettori più assidui e affezionati, come la sottoscritta.
Ma la novità e l’originalità del romanzo non potevano passare inosservate.
Cosicché la proposta della pubblicazione da parte delle Edizioni Smasher costituisce certamente un giusto riconoscimento del valore di un’artista quale dimostra di essere Cristina, in ogni campo nel quale si cimenta.
Ma torniamo all’analisi degli aspetti salienti e originali del romanzo.
I dialoghi e la struttura complessiva, ad esempio.
Quanto ai dialoghi, colpisce la sequenza scarna, priva di riferimenti ai singoli interlocutori e alle rispettive frasi, pur tuttavia, non solo si coglie chiaramente chi sta parlando e cosa dice esattamente, ma ci si coinvolge a tal punto nella conversazione che sembra di essere presenti ad ascoltare, e basta solo muovere lo sguardo dall’uno all’altro per non perdere neppure quegli elementi psicoinconsci dei parlanti che completano il senso vero e profondo del discorso, come i gesti o il tono della voce.
La struttura del romanzo la definirei a cerchi concentrici e concatenati. Se ne prende coscienza man mano, ma se ne ha conferma ovviamente al termine del romanzo.
In qualche sezione alcuni cerchi si sovrappongono parzialmente, e ciò avviene ad esempio, quando si riprende un ricordo e lo si rigira da un altro lato, mostrandone una diversa sfaccettatura. Può essere identico il luogo, o uno dei personaggi, ma cambia il fatto narrato. E questa peculiarità corrisponde, credo, ad una vera e propria strategia narrativa, che non solo consolida i legami tra i vari capitoli, ma serve anche a tenere desta l’attenzione del lettore e il suo coinvolgimento, anche emotivo.
Alcuni capitoli sarebbero da analizzare a parte.
Verso la fine, ad esempio, c’è un capitolo che mette i brividi. Si parla di una seduta spiritica. Personalmente, sono molto scettica in questo campo, penso a suggestioni o qualcosa di simile, ma non posso fare altro che credere a tutto quello che è descritto, perché è troppo verosimile. Quantomeno... il modo di raccontare tutta la scena è più che realistico, accidenti!!!
In un altro capitolo, introdotto semplicemente dal  suono del campanello di casa, vi è una interessante discussione / riflessione sulla religione e i suoi annessi e connessi.
Mi ha fatto tornare alla mente un libro di Jung (Tipi psicologici) laddove Jung colloca il mito religioso nel giusto alveo, il mito appunto, di cui l'uomo da sempre si serve per necessità sua propria, tranne che, passati millenni e millenni, dopo che la necessità individuale è stata condivisa e ne è scaturito un mito collettivo, non si ha più memoria delle origini e si assume come dato di fatto, prendere o lasciare.
Colpisce il modo in cui l’autrice ne parla perché si sente la piena consapevolezza e convinzione delle sue affermazioni, compresa l’invenzione del cestino cosmico e il click per eliminare, fosse solo possibile…!
Il romanzo si caratterizza poi anche per altri due aspetti importanti che non voglio tralasciare.
Il primo è l’aspetto didascalico che assumono alcuni capitoli e che si apprezza soprattutto perché se ne nota l’assoluta “mancanza di intento”. L’autrice si limita, cioè, a narrare e a riportare le sue osservazioni critiche o il suo modo di vedere le circostanze e quel che le accompagna, comprese le conseguenze, e intanto appare come affiorare in superficie un insegnamento che si può trarre da quanto accaduto. Questa modalità, quasi inconsapevole, risulta leggera, non impositiva e dunque particolarmente incisiva.
Il secondo è l’aspetto culturale, anche questo non forzato, ma naturalmente consequenziale a quel che si sta narrando. La sua importanza è rintracciabile nel fatto che, al di là del voler esibire il proprio mondo formativo, (cosa che non è), se ne coglie tutta la profondità e l’estensione, che peraltro è già evidente nel lessico fine, da romanzo di alto livello culturale, appunto.
Con questo primo lavoro in prosa, per quanto fin qui evidenziato, collocherei in modo quasi naturale l’autrice nell’ambito delle seguenti riflessioni, scritte da me in altra occasione:
«Nel breve intervallo dell’esistenza, ciascuno di noi assume delle caratteristiche comportamentali proprie trasmesse inizialmente dall’ambiente familiare, ma assorbite anche dal contesto  sociale a partire dall’infanzia e, in modi inconsci, anche nell’età adulta, quando si crede di essere invulnerabili, di avere delle opinioni personali o delle idee da difendere e sostenere.
In realtà, siamo immersi in una miriade di relazioni che ci sottopongono a specifiche reazioni, spesso diverse a seconda dell’interlocutore, anche su fatti o argomenti identici.
Eppure ogni individuo si riconosce come se fosse dotato di una specifica identità, che gli appartiene e lo fa essere quale è.
Noi stessi teniamo a distinguerci dagli altri per la nostra specifica personalità che a volte identifichiamo quasi con l’ambiente di vita e crediamo di essere come siamo per aver introiettato i più minuti dettagli del nostro ambiente anche naturale, oltre che sociale; pensiamo di essere un po’ anche i luoghi da dove veniamo, i luoghi che amiamo, quelli da cui abbiamo ricevuto una sorta di imprinting.
Dal punto di vista psicologico, appare rassicurante sostenere che si ha (si è) una precisa identità. È come se si fosse attrezzati per sostenere le sfide più impegnative e difficili della vita.
E invece, bisognerebbe ricordare la lezione di Henri Louis Bergson: In ogni istante della nostra vita noi siamo diversi, ci cambiano le coordinate spazio temporali, in funzione della resistenza della vita sulla morte. Per questo continuiamo ad evolvere, fino al raggiungimento di una maturità tragica”».
(La tragicità sta ovviamente nel comune destino di tutti gli esseri umani).
Cristina Bove incarna precisamente questa pluralità, pur nel continuare ad essere quell’una che è.
Questa una e mille Cristina (immersa/e nel romanzo che rispecchia la sua poliedrica vita) segue un percorso lineare o accidentato, (a seconda dei punti di vista sulle cose di volta in volta narrate), che è sempre coinvolgente, a diversi livelli: nell'apparente passaggio senza un legame cronologico da un fatto a un altro, c'è invece un nesso che chiamerei "memoriale", nel doppio significato del termine.
In primo luogo, perché la memoria passa tranquillamente da un fatto a un altro, soltanto grazie a un'associazione di un'immagine o di una parola o di un'atmosfera o altro, seguendo in questo percorso il movimento imprevedibile pel pensiero.
In secondo luogo, perché alla fine ne viene fuori un vero e proprio memoriale.
Molto bella e poetica, inoltre, è anche la creazione del suo mondo fittizio, parallelo alla vita reale. Anche in questo caso, non è la bellezza in sé del mondo inventato che colpisce, bensì il fatto che il tutto rimanda mentalmente alla mente che ci sta dietro, alla creatività dell'altra mente (quella dell’autrice) e si resta come in apnea.
Ma nonostante questi continui sbalzi dal reale al virtuale al fantastico, e sbalzi anche spaziotemporali, Cristina Bove segue una sua bussola mentale e procede sicura senza  mai smarrirsi nel labirinto in cui si muove, senza perdere il filo che la condurrà all’uscita. Che anche in questo punto è peculiare: perché il suo è un romanzo che non ha ancora la sua fine.
Al lettore il compito di immaginare… di andare avanti e oltre… accompagnando Cristina, con piacere e sintonia, in questa sua originale e avvincente avventura intellettuale e umana.
M. Carmen Lama, 22 novembre 2013

sabato 16 novembre 2013

recensione di Marta Altieri

Una poesia moderna che osserva con occhi tinti di antichità PDF Stampa E-mail
BoveMiHannoDettodiOfeliaSmasher
Mi hanno detto di Ofelia (Edizioni Smasher, pp. 76, € 10,00) è il titolo che Cristina Bove sceglie di dare alla sua nuova silloge, in cui la poesia nasce dal saldo legame con un intero mondo di creazione e di pensieri erranti, guardato con la serenità di chi sa di poter unirsi ad esso quando vuole, se vuole. Un luogo dove arrivano notizie, da cui esce poesia, tinta di modernità.
L’interessante coloritura di questi versi liberi è data da alcuni tratti ricorrenti, come parole interrotte da tratti bassi, quasi fossero bloccate da altre sillabe e così scomposte svelassero quello che in realtà contengono («lame_nti», «stagno_la», «bi_sogni», «amorevol_mente», «di_stanze») e corsivi che mutano il senso di alcune parole o frasi («Appuntimenti», «Una lei senza età a un lui che non sa»).
E non mancano elementi tipici del discorso in prosa che di tanto in tanto affiorano come ad esempio parentesi (anche doppie) e domande; parti di discorso diretto introdotte senza avvertimento grafico («lo ricordate il film di Pasolini?»), mentre la punteggiatura che è quasi inesistente, senz’altro priva di virgole e che volentieri rinuncia a mettere un punto; proposizioni in cui non si distingue inizio e fine rendendo l’impressione di frammenti in un flusso di coscienza («il vuoto mi attraversa / su commessure d’argini sospesa / spessori infinitesimi / riversa in me di me che perdo il senso in questa moltitudine si sfoglia / quella che fui di spalle»). 
Il tutto è racchiuso in un discorso che risulta solo in apparenza slegato, ma composto in realtà da parole incastonate in modo originale nella frase. In Tau, uno fra gli esempi di poesia visuale, l’immagine finale riproduce la lettera greca appunto, ma non è così distante dalla figura di una donna prostrata «piegata / santa dei giorni / scoccati scaduti».
Più volte ci imbattiamo nella parola “contro” («Controsogno», «controcielo», «contromisure»), indice di un modo opposto a quello tradizionale di percepire l’interiorità del il mondo esterno, di farne poesia unendoli e, perché no, confondendoli. La tematica amorosa non ha un ruolo preponderante, ma emerge rare volte in modo dirompente. Un amore impossibile, che non finisce, vissuto (o meglio, non vissuto) da lontano e «a bassa voce». Nella descrizione di quella che sembra una serata d’amore predomina non la dolcezza del romanticismo “glicemico”, ma la visione stessa della scrittrice, un po’ beffarda e ironica, che preferisce «un angolo di luna / la cantilena a mantice di un gatto / suggerire deliri».
Ciò che caratterizza questi componimenti è una totale apertura, l’assenza di confini nei confronti di quello che può diventare oggetto di poesia, la libertà da tematiche e schemi fissi e individuabili; una poesia dal lessico esotico, ma anche specifico, una poesia scevra da stereotipi, in cui l’io poetico continuamente si fa spazio fra piccole epifanie della quotidianità, come in Una ciotola, e momenti limite o cruciali (Porta, Cardioversione), accompagnati da una patina lessicale corposa nella sua inventiva. Anche le poesie che contengono ritratti come La monaca e il vento, Sherifa o La strada per il molo, si sviluppano in modo singolare, unendo un descrittivismo che sfiora il metafisico («le jellabah a coprire corpi d’ebano / e bevevo la luce del turchino»; «scaffali imbarcati al centro a sostenere il peso dei miracoli […] vieni sul mare / a guardare velieri controluce / doppiare l’orizzonte e il calendario») all’accentuazione del carattere personaggio («il cuore indifferente alle stagioni / accarezzata mai sulle colline / dimenticò la valle e scelse il cielo»).
Potrebbe a questo punto risultare estranea l’immagine di Ofelia, di cui non viene ripercorsa la storia o creato un ritratto. Rappresenta bensì un telegrafico seguito dell’opera shakespeariana, la giustificazione di Amleto davanti alla morte di Ofelia. In questa poesia, che porta il senso di tutta la raccolta, si parla di entrambi, una coppia che si è persa nei meandri di una super-ragione fino al completo estraniamento dal mondo e da se stessi.
Ofelia è una figura «fuori dal campo» (titolo di uno dei componimenti), che per decisione di una forza maggiore, che sia la forza creatrice del drammaturgo o un amore lasciato a spegnersi per distrazione, è «tra-lasciata a tra-spirare in vasi di cantina». In questa poesia c’è il risveglio di Amleto, che parla, anzi, scrive da un luogo a noi sconosciuto e si ricorda di Ofelia che soffre. Sono in realtà figure che risiedono ai margini della vita, Ofelia donna abbandonata, Amleto uomo estraniato.
In sintonia con questi personaggi è la voce stessa della poetessa che chiede il suo «restare in disparte», e di «camminare ancora a testa alta», quello che Ofelia non ha mai fatto, se non nell’atto di decidere della sua morte, «un sereno e sicuro silenzio / e poi dormire». «Desidero accucciarmi nel silenzio», è una frase che veste bene l’Amleto shakespeariano, il quale decide di appartarsi dal mondo, si lamenta delle troppe parole degli altri e poi espleta il suo dolore in eccellenti monologhi. Le parole sono un inganno e una salvezza, ed è questo principio che i componimenti portano alla luce, tenendo a bada il pericolo di lasciarsi imprigionare con la pacatezza dei sentimenti mai portati all’estremo, senza tracimare nel “troppo” amletico.
A conferma di ciò, leggendo questi versi si avverte sempre la sensazione e il desiderio di un distacco, di voler essere altrove; emerge, paradossalmente, il desiderio di fare poesia senza usare le parole, di suggerirla a mezza bocca, perché darle fiato la rende forse meno potente.«Mi farò bastare il gioco» dice l’io poetico «tanto mi sveglierò, verrà il silenzio […] quello che non s’inganna con le impronte di parole calcate nella sabbia». Lo sforzo di imprimere sulla pagina questo volere risulta qui espletato, forse superato: «Le parole comprimono l’estasi / intralciano i poeti / li definiscono in cataloghi / allora ammutolisco per sentire / e non vendermi agli echi».
Marta Altieri
(www.excursus.org, anno V, n. 52, novembre 2013)