mercoledì 27 febbraio 2013

Recensione di M. Carmen Lama




scansione0087(1)

“Mi hanno detto di Ofelia” è un titolo assai intrigante per questa nuova silloge di Cristina Bove, che sembra sempre essere giunta all’apice del suo discorso poetico e invece constatiamo che con ogni sua nuova opera l’apice si sposta indefinitamente e si rimane con la sensazione (di per sé piacevolissima) di un’illusione ottico-mentale, anticipatrice di nuove attese… in un crescendo che non ha mai fine.

Ofelia è un personaggio tragico, una donna immersa nel fiume della sua vita-morte, del cui dramma viene a conoscenza l’amato-amante Amleto, ma solo quando questo si è ormai consumato. E lo stesso Amleto non ha consapevolezza della realtà della donna e dell’accaduto, né di se stesso. Cristina Bove entra perfettamente nel personaggio di Amleto per mostrargli la sua in_coscienza di uomo, mentre gli fa confessare di aver saputo della tragedia di Ofelia ma di non credere, o meglio, di non sapersi decidere a credere alla realtà del fatto e della stessa vita-morte dell’amata, personaggio nel quale pure la poetessa si identifica, con lo scopo implicito di rappresentare simbolicamente il destino tragico che la donna in quanto tale molto spesso subisce.
Dare voce alle donne attraverso le sue poesie, è una funzione che Cristina svolge con profonda empatia, e dare spazio ad Ofelia già nel titolo di un’opera in cui molte sono le poesie che attraversano la fatica dell’essere donna, in una società e in un mondo monco, è una scelta simbolica forte.
Diventa per il lettore una prima chiave di lettura dei testi poetici presentati in questa raccolta.

Ma ci sono altre aperture, così come ci sono altri incontri con la stessa anima poetica di Cristina Bove.
Non è semplice trasferire in una poesia il proprio sentire, facendosi nel contempo carico di rappresentare un vissuto che appartiene anche ad un universo più vasto del proprio.
Ma l’opera poetica di Cristina è una fucina in continua evoluzione, dove la regia sapiente della poetessa consiste nel creare sempre nuove forme con un materiale di base reso duttile dalle sue stesse idee. L’uso del linguaggio, infatti, è sorprendente sia per gli accostamenti lessicali arditi,  sia per le immagini originali composte, sia per le atmosfere che può respirare chi oltrepassa la soglia del suo laboratorio poetico.
Ed è proprio grazie a questo sperimentare sempre nuove forme che la poesia di Cristina emerge.
La sua ricerca è incessante e profonda, il mondo che scandaglia è quello invisibile ai più, ma che a lei semplicemente si mostra, richiedendole soltanto un’immersione, come in apnea, e un ascolto attento della vita che nel profondo della psiche e del mondo si svolge.

Questa fondamentale caratteristica del lavoro poetico di Cristina, comune soltanto ai veri poeti, è una modalità legata alla ricerca della coincidenza, e quindi dell’unità, tra l’essere e la realtà.
Soltanto nella visione poetica (o nel sogno) quest’unità può essere vissuta come tale, ma è necessario successivamente risalire in superficie, (o destarsi dal sogno) per rielaborare la visione.
Trovarsi immersi in una sorta di atemporalità, in un’assenza di tempo, fa sì che all’essere proprio si restituisca la “purezza” originaria, che coincide con l’assoluto, ed è questa l’unica condizione in cui per pochi istanti si vive la realtà così come essa è, con_fusa con l’essere, unità assoluta che soddisfa la ricerca poetica.  
La poesia salva l’invisibile che si mostra per qualche istante. E l’invisibile è come un fantasma, intercessore del tempo, che appare per un momento, prima che la corrente del fiume del tempo lo trascini via, solo per un istante, poiché non è sua natura il durare, l’estendersi nel tempo, perché questo lo altererebbe nel suo “essere”. Può tornare, sì, ma se si ferma un istante lo fa per ottenere l’unica cosa che può salvarlo: essere fissato in un istante perenne. Ed è proprio quest’azione del fissare l’istante, la visione fugace, quello che si richiede al poeta e quello che Cristina Bove fa con le sue poesie. Un sogno o una visione possono essere salvati, rendendoli visibili, facendoli entrare nel mondo della realtà che è quella del tempo, quindi attraverso la rielaborazione cosciente del risveglio, del ritorno in superficie, e della presa di coscienza di quel che è stato e della scrittura poetica.

Tale condizione si addice ad ogni essere umano, ma molto spesso (e comunemente)  non si è capaci di discendere nelle profondità della propria anima, né di ascoltarne i richiami o di decifrarne i messaggi, neppure quando nella totale inconsapevolezza sono i sogni ad alimentare la nostra psiche.
Per il poeta invece è un aspetto imprescindibile e lo è tanto più quanto più si affina la sua sensibilità. Diventa, alla fine, il suo habitus psico-mentale. Ed è anche, possiamo dire, la realizzazione del sé. Che però non è mai finita, mai definitiva, se ci atteniamo a quanto, in merito a ciò, ha chiaramente espresso Maria Zambrano in tutto il percorso filosofico del suo pensiero.
Ogni essere umano ha bisogno di rinascere ogni giorno, e compie questa sua rinascita attraverso il risveglio dal sogno e la rielaborazione dello stesso o, per il poeta, attraverso la rielaborazione delle sue visioni dell’invisibile, della ulteriorità del reale, o, in altri termini, attraverso l’intuizione della trascendenza di tutte le cose, degli esseri umani e dei viventi in generale.
Cristina Bove, a mio modo di vedere incarna al più alto grado l’essenza poetica, perché questa coincide con il suo essere la persona che è.

Nelle sue poesie, in particolare in quelle di questa raccolta, si trova la sua anima dislocata, anche a piccoli frammenti, nei versi, nelle figure retoriche, nei ritmi, nella liricità.
Anche quando una poesia parla di cose minime, di oggetti comunissimi e che si potrebbero definire insignificanti, a maggior ragione per questo aspetto vi si coglie un frammento lirico perché l’anima abbandonata alle minimalia sembra essere rassegnata. E questa scoperta segna inevitabilmente l’animo di chi legge.

In poesie come Bora, Una ciotola, Huaca, Riflesso marginale, Sbalordire, Perché la resa, Minime (?) COSE, Per aspera, VERSO IL TACERE, Daojiao, Legend, Fuori dal campo, è eclatante questo sentimento di marginalità in cui si sente risiedere la poetessa, e la lettura dei versi, se rallentata al ritmo del cuore di Cristina mentre “sentiva” quello che ha scritto, conduce immediatamente nei dintorni di una con_divisione del sentire.
Non una volta, ma più e più volte, leggendo e rileggendo le poesie di Cristina_Ofelia, ho provato questo senso di vicinanza con la sua anima, con il suo sentire profondo, qualcosa che mi fa essere partecipe di una vita SubLIMINALE, interiorità sofferta e lirica, appunto.

Senza pretendere di esaurire l’analisi delle poesie di questa silloge in una breve recensione, vorrei tuttavia segnalare due poesie per me fondamentali per individuare il senso più autentico anche di tutte le altre, proprio perché le ritengo emblematiche di un sentimento vitale che in qualche modo è scosso dalla vita stessa che procede su binari non previsti o non auspicati, come spesso accade per chiunque. Si tratta delle poesie Porta e Di solitudini.
La prima: Riconobbi la soglia / una fotografia fatta di vento / lo riportava a me dall’infinito // Il camino era spento e la finestra / si spalancava sull’eternità // le distanze incolmabili generavano spazio / su gradini sbreccati ero seduta / di crepa in crepa / a rattoppare il tempo.
La seconda: Alla tua solitudine lo posso raccontare / dei miei pensieri cavi, e delle notti / calate sulle rive di soppiatto. / Tu la conosci, è specchio al tuo sottrarti / anche la mia / ch’è sabbia, neve, voli e / speronate a picco. // A te lo posso dire, fatta di nebbia io sono / quindi nei vuoti d’aria m’abbandono / per una tregua minima / se vuoi / tu che ti specchi nel mio nulla / puoi, nella forma del buio, / porgere la tua mano alla mia assenza.
Non occorre commentare, credo. La bellezza e il senso di queste due poesie confermano (ovviamente, per me) il messaggio che ho recepito, sotteso nel complesso di tutte le poesie della silloge, e che ho cercato di esplicitare con questa recensione.

E in conclusione di questo breve resoconto della “mia” lettura della silloge Mi hanno detto di Ofelia, vorrei sottolineare, se ce ne fosse bisogno, l’eleganza dello stile di Cristina Bove, l’originalità e la personalità di ogni suo componimento, che inutilmente ci si sforzerebbe di incanalare in una qualche corrente poetica.
Sono poesie, le sue, frutto di un vissuto di immedesimazione nella vita di tutti i giorni e nella vita sociale, umana e universale, frutto anche di una cultura molto ampia che affiora in molti modi, e frutto di una sensibilità fine, di un’intelligenza intuitiva straordinaria, di una generosità insita nel DNA del suo animo che le rende molto naturale darsi, attraverso le poesie, agli animi sensibili dei suoi lettori.



27 febbraio
M.Carmen Lama 

lunedì 25 febbraio 2013

recensione di Narda Fattori


scansione0087(1) 

Parafrasando: chi è Ofelia? Paradigma della devozione fino allo sfinimento e alla negazione di sé, fragile, incapace di trattenere Amleto dal suo delitto, strumento nelle mani altrui, folle? Soltanto nel contrasto con il destino acquista spessore. La sua devozione e la sua bellezza non la salveranno. Oppure Ofelia è solo un fantasma, la parte di psiche che si oppone al super-io, che resta rannicchiata sul fondo e compare come nei sogni (o negli incubi) a chiedere una ragione che non è meno folle della sua inconsistenza?
Ofelia sta nel titolo di questo libro di splendide poesie di Cristina Bove; non solo, Cristina afferma di averla incontrata. L’affermazione appare azzardata, dopotutto Ofelia è un personaggio letterario, ma sicuramente ha una sua giustificazione nelle poesie che costituiscono il corpus del libro non solo in quella che riporta lo stesso titolo. Essa riassume la filosofia sottesa all’insieme delle poesie: il vano tentativo di incidere sulla realtà quotidiana con le armi linguistiche, con la poesia come Ofelia disarmata, oblativa, inerme ma capace di profetare.
Le poesie della raccolta sono erratiche per argomento, c’è un io ingombrante che viene con cura celato e zittito, si legge chiaramente un discorso sui mala tempora e sulla irrimediabilità del disfaci-mento cui va incontro la bellezza sulla terra a cui fa da contraltare un decadimento della persona, la sua impossibilità di azione incisiva. E c’è il silenzio a capo rigo, quel silenzio detto con i bellissimi versi: “si tace/ quando/ si sta toccando l’anima/ di spalle.”
Guardare l’anima di spalle significa trovarsi dentro un’immensità che però non ha nessun tipo di appiglio per la sua decodifica, significa capire che la bellezza è ovunque ma ovunque si sgretola e noi non abbiamo né le parole né gli strumenti per porvi rimedio.
Il credente confida; Cristina dice chiaramente di non esserlo ma afferma di detenere forze e ali per
“proseguire a lato di me stessa”, incerta, con la visione sbieca e forse parziale ma con la chiarezza della meta accompagnata dal silenzio presuntuoso del sussurro del cuore.
Tanta fragilità è riscattata dall’umana pietà, dal mettersi all’interno del girotondo degli affaticati della vita. E la parola è al servizio della vita; Cristina la usa come un setaccio per comunicare, certamente, ma anche per lasciare che filtrino solo le parole ri-generate.
Le arti visive e la musica appartengono al mondo conoscitivo della poetessa e ne usa il lessico per espandere il mondo semantico delle sue liriche, coinvolgerle in quel discorso erratico di cui ho det-to, così a fianco del Tau può starci la consapevolezza del procedere solitario perché nessuno può en-trare del tutto nell’animo di un altro, perché Degas sta presso Vincent Van Gogh che sta presso Mo-zart che sta presso Cnosso che sta presso Cristina Bove.
Poiché si scrive poesia solo per passione, non avendo altre logiche motivazioni, avviene che essa, come succede per l’amore, accada; ci prende per mano, ci sussurra sibillina, ci spinge a scoprire le impronte del nostro cammino, i moti d’animo bruschi e/o intimi, padrona senza reticenze, libera e senza confini. La poesia. Poi esiste la scrittura cercata, ampiamente ragionata, condotta là dove si vuole che vada. Con quanto affermato non intendo dire che la poesia sia qualcosa di irrazionale, anzi; il setaccio della ragione e della competenza interviene e deve farlo per ripulire il materiale, sezionarlo, riportarlo al suo fine.
E’ la grande fatica dei veri poeti. Cristina, che annoveriamo fra questi, confessa che sì, potrebbe parlare di dolcetti al miele ma “la cantilena a mantice di un gatto/ suggerisce deliri/ e tu lo vuoi.”
La libertà della poesia trova il suo spazio d’azione nelle sinapsi della mente, fra le circonvoluzioni neuronali; non è anarchia, è audacia. E’audacia infatti restare ad aspettare Godot sapendo che non arriverà mai :
“……….
ma qui, sediamo tutti intabarrati
pesanti d’anni e di malinconia
stampigliata nel codice l’origine
la data di scadenza indecifrabile
pescatori di nebbia
nell’attesa di vivere davvero.”
La vita vera non è quella promessa da Dio; Cristina ci dice di porre un punto interrogativo dopo la parola; chissà che cosa è vivere davvero, forse è vivere senza aspettare inutilmente Godot, senza avere la testa in nugoli di cielo, è vivere la gioia che fa l’incontro con l’accoglienza dell’altro mentre invece siamo terrestramente dannati ad una finta accoglienza: all’assetato è offerta una bottiglia vuota.
Voglio tornare a citare qualche verso di due poesie consecutive molto diverse per tema ma quasi sovrapponibili per significato che danno ragione al colore di fondo del libro ( e di Ofelia?):
“ ma qui di niente si è sicuri/ mai” e “ sento che siamo il vuoto e il pieno/ a combaciare.”
Credo che questi pochi esempi aprano un barlume sulla erratica tematica; non diversamente lo stile è omogeneo: a versi icastici, di forti cesure si alternano dettati distesi; il timbro, la melodia del canto, però restano unici con ampi, ampissimi squarci semantici, accurata selezione di immagini così lontane che vanno oltre la metafora per introdurti in territori “poetici” appunto. Poco sostenuta dal lirismo, la poesia di Cristina non è neppure narrativa; la padronanza degli strumenti poetici consente alla poetessa di muoversi con corretta grazia lungo tutto il libro. L’insieme delle poesie è sorretto da una coreografia che non vuole stupire però è elegante e piena di forza inventiva e lessicale.
[...] continua qui

Narda Fattori
 

domenica 24 febbraio 2013

recensione di Simonetta Bumbi


Quando la poesia


scansione0087(1)

c’è una parola, nella prefazione, che m’ha colpita subito, ma ho continuato a leggere senza darle troppa attenzione. poi.
poi, man mano che i versi mi disegnavano storie e raccontavano i vari passaggi della pelle su cui la poetessa si sostava, quella parola s’è fatta sempre più prepotente.
eleganza.
dalla prefazione di anna maria curci: “…e l’eleganza che unisce talento innato a sapiente e originale rielaborazione è tratto caratteristico di tutti i componimenti…”
ecco, è vero, e l’ho detto a me stessa spesso, dopo.
cerco sempre di non lasciarmi coinvolgere dalla conoscenza di chi è dietro, a un libro o un disco, quando devo dire il mio pensiero, ché  credo l’onestà sia lo specchio delle dita, un po’ come quando stringiamo la mano a qualcuno con energia, quasi volessimo trasmettere tutto il piacere di quell’incontro.
ecco, incontrare cristina bove attraverso il profumo della carta stampata, è un rinnovare il piacere che si prova mentre la si legge nel virtuale, ché riesce a trasmetterti tutti i suoi voli terreni con ali d’anima, e sia che si pianga, si sorrida o si attraversi solo un sogno o un incubo, c’è sempre il desiderio della bellezza che esplode come un’impollinazione.
non è voluta, è innata nelle righe che scorrono e pian piano si manifestano. e restano.
il suo componimento “Sbalordire” termina con questi versi: “…una teiera bianca…”
ecco, una semplice immagine scolpisce la sua porcellana, e le sue poesie sono di questa materia. e calde, come i suoi incontri vissuti, proprio come il bianco che sa disegnare, sempre e comunque, l’eleganza.
lei è ovunque, ed anche loro, che possiamo essere noi vestiti da personaggi incontrati, e nei suoi viaggi tutto è collocato nell’universo naturale che la circonda, come ad esempio “…il sole nell’ampolla dell’aceto…” ( da “Minime (?) COSE“) o “…bevevo la luce dal turchino…” (da “Sherifa“).
Chi legge è invitato… a seguire vene sotterranee erroneamente date per esaurite, a percorrere traiettorie divergenti dal canone consolidato, anche da quello che l’epidermica impressione può far percepire come inusuale e innovativo e che troppo spesso, nella poesia contemporanea, non osa oltrepassare la striminzita e logora tessera del canovaccio pseudo-ermetico-essenziale.” (dalla prefazione).
sì, mi sento di condividere appieno le parole sopracitate, e quelle a seguire della post-fazione di francesco marotta: “…tutte “emersioni” a fior di lingua di un implacato fluttuare inconscio, del lento, persistente trascorrere di una materia che è già “oltranza”. Cioè: poesia.”
a chiusura non posso che…passare “la lingua intorno all’orologio”, ché nulla si chiude del tempo goduto…
simonetta bumbi

sabato 23 febbraio 2013

Recensione di Fernanda Ferraresso


Lungo il corso della parola e tra i rami di Ofelia che ancora là fiorisce


Prima delle note sul libro, che oggi presento, una piccola riflessione necessaria, secondo me, per trovare chiavi che sfuggono. Quando infatti si ha l’età di Cristina Bove, e non mi riferisco all’età anagrafica comune ma a quella dell’anima o del demone  interiore, che dunque è inconteggiabile, non si può non contenere l’universo negli occhi, nelle mani e nelle parole. Non posso, dalla distanza da cui a lei mi sento prossima, non vedere quanto con mano ferma tratteggia nitida, apre, spacca e riconduce in luce ed è ciò che è e significa la nostra presenza su questa galassia di abusi, di sconcezze, di infime lordure con cui si cancella l’umanità, in lei ricchissima e irrinunciabile, ma anche di non trangugiabile bellezza. La sua capacità di prendere tutte le erbe del prato e farne un grande mazzo di più voci e suoni profondi, la sua innata e matura abilità di ridere dell’ottusità, delle nostre pochezze oltre ad uno sguardo che irradia la sapienza della semplicità, derivata da una cultura profonda, fa della sua scrittura un polimorfo mondo in cui infero e magnifico riflettono le loro sostanze in ogni forma e sfaccettatura. E’ proprio con questa chiave che ho aperto e percorso tutte le stanze del suo ultimo libro MI HANNO DETTO DI OFELIA, per le Edizioni Smasher. Un occhio particolare meritano anche i trucchi, i salti, persino le interpunzioni che, spesso, sembrano le giuste punizioni per il lettore rapido, che vorrebbe correndo passare oltre,  mentre serve fermarsi, serve chinarsi, a volte scivolarsi dentro, per sentire tutto quanto ha da dire la parola, che altrimenti morirebbe, nel corso di una liquidità senza sostanza, sperdendosi nell’acqua torbida, nell’indifferenza.  Genesi e apocalisse stanno in queste pagine come ramificazioni del pensare dire fare quotidiano, e sono letture che Cristina Bove riprende dagli eventi di cui partecipa con reale profonda compassione e dalla storia. Pathos è per lei sinonimo di qualcosa che non lascia tregua e non confonde il sentire, anzi lo accuisce, ne appuntisce ogni pennino ricadendo in scrittura poetica, non in parola da vetrina o parola in vendita.

fernanda ferraresso

mercoledì 23 febbraio 2011

Francesco Marotta

sulla mia poesia

Ho sempre pensato che la poesia fosse un linguaggio particolare, che offrisse la possibilità di comunicare a parole ciò che non si riesce a esprimere altrimenti.
So che i testi poetici si scrivono per necessità, per non implodere, almeno a me così capita.
Ma estrinsecare il concetto di poesia, non certo presente in me mentre scrivo, non sarebbe stato nelle mie possibilità.
Quindi la mia sorpresa è stata grande nel leggere quanto ne pensa il poeta
Francesco Marotta nel seguente brano, replica a una serie di commenti, 
sul suo blog  La dimora del tempo sospeso "   :
 

“…siamo di fronte a una scrittura all’interno della quale …“anticlimax” è un “passo funzionale” all’espressione complessiva, una funzione di verifica e di controllo della materia e del dettato lirico – finalizzata, in modo consapevole o inconsapevole, a impedirne con estremo rigore il “tracimare”, l’enfasi, l’effetto che nulla aggiunge al ventaglio delle possibilità conoscitive che un testo comunque veicola.

La poetica di Cristina è un attraversamento lucidissimo della grande tradizione italiana novecentesca, ma a “testa sempre molto alta”, guardando “avanti” e non “intorno”. L’intorno suggestiona e, inconsciamente, finisce per legare il “passo” alla fascinazione dei modelli, dei monumenti, o dei ruderi, splendenti che popolano il paesaggio circostante; l’avanti è la fedeltà più intima e conseguente alla “propria” cadenza, al timbro della “propria” voce – il che non significa spogliarsi ad ogni costo delle atmosfere, dei profumi e dei suoni di cui, comunque, ci si impregna nel “passaggio”. Tutto sta nelle “strategie di controllo”, non solo formali, che si mettono in atto, per impedire che il “carico imbarcato” finisca per sostituirsi alla “sostanza” primaria di cui siamo unici e irripetibili portatori. Il testo deve restituire proprio quest’ultima, o non è: sarà anche uno splendido esercizio, ma la “calligrafia” non è, e non sarà mai, poesia. Non è e non sarà mai “stile”, ovverosia la cifra più specifica di una “voce”.


Nelle poesie di Cristina Bove di calligrafico non c’è assolutamente nulla, il che significa che l’attenzione critica alle procedure da cui la forma si origina è ben vigile, attiva. E non solo a livello cosciente, a mio modo di vedere – perché esiste anche una “forma occulta” (che ha i suoi tempi, i suoi modi e la sua sintassi) attraverso la quale l’inconscio, comunque, veicola la “materia poematica”, accentuando o declassando taluni vettori in virtù di meccanismi che solo l’ascolto più attento riesce a percepire e a restituire.

Ed è proprio una “lettura/ascolto” così configurata che permette di verificare l’intersecarsi dei due piani. Da una parte il controllo dei livelli di “vocazione emozionale”; la “restrizione” del campo di azione della tensione che, lasciata a se stessa, sfocerebbe, inevitabilmente, nella “commozione”, nella ricerca dell’effetto e della “complicità”; la chiusura di alcuni spazi verbali (con il significato polverizzato e disseminato ad arte nel gioco riflessivo dei significanti) – tutte strategie dove il “pensiero poetico” agisce in piena consapevolezza, con estrema decisione. Dall’altra, le cadute di ritmo che spezzano una cadenza e frustrano l’aspettativa facile del “canto”, aprendo, contemporaneamente, “spazi impensati” di riflessione che solo il lettore può colmare; la “natura ricorsiva” di alcune strutture testuali, con la conseguente insistenza su determinati termini che accentuano la reiterazione dell’immagine o dell’azione; la percezione, fuori controllo, dell’incompiuto, e l’incompiutezza “perturbante” che affiora a increspare l’ordine del discorso o quella che appariva, a tutta prima, come la più “naturale” delle aperture e conclusioni di senso – tutte “emersioni” a fior di lingua di un implacato fluttuare inconscio, del lento, persistente trascorrere di una materia che è già “oltranza”. Cioè poesia.

fm

martedì 11 maggio 2010

recensione di Elisabetta Mori


L'armonia e l'effetto: la poesia di Cristina Bove




Cosimo Ortesta, uno dei più affermati poeti della fine del secolo scorso, una volta mi scrisse che in poesia "l' armonia non conta, conta l'effetto", la consapevolezza che l'armonia e la disarmonia della vita deve tutta bruciare, esaurirsi nell'effetto, nella forma -una particolare inconfondibile forma- l'unica cosa che conti, nella sua perfetta inutilità, se confrontata alla vita.

Non è il caso della poesia di Cristina Bove.



In "Attraversamenti Verticali" una sapiente e personalissima alchimia permette all'immagine poetica di giungere in superficie, si presenta con i suoi segni i quali incidono ma non svelano del tutto la comprensione dell' occulto, ciò che deve rimanere, semmai, chiaro solo alla poeta. Il risultato è un equilibrio stabile tra armonia ed effetto.

Nella ricerca costante del proprio Sé, la Bove appare in armonia con la vita e con la morte, con lo spirito e la materia, con ciò che fu e ciò che sarà, prospettiva di un continuum spazio-tempo eterno, tra ieri e domani.

E i temi sono quelli universali, l'appartenenza è del creato, animali piante e umani verso i quali la poeta volge il suo sguardo colmo di pietas, consapevole del comune destino:


L'olivo dalla chioma d'argento mi somiglia
solo che esisterà ancora
quando dalle mie ossa nemmeno la polvere
potrà nutrire le radici.


E lo saprò
che il tempo di una vita
sia tralcio foglia o frullare di ali
è soltanto un momento, irripetibile.

("Durata", da Attraversamenti verticali, edizioni Il Foglio, 2009)



Un effetto di circolarità sprigiona dai versi della Bove, tenuti insieme dallo stesso comune denominatore, il ritmo, una musicalità costante con l'endecasillabo spesso a fare da cornice. Ma non sfugge agli occhi del lettore attento, la ricerca del meraviglioso [secondo l'accezione di Todorov], la rappresentazione di una realtà desiderata che stia tra il possibile e lo strano e la parola che esce, dirompente, dalla materia:


Al posto di vedetta, nella dura scorza,
abbozzo d'angelo tratto dagli scalpelli
e dalle sgorbie a forza di deliri
io non ho pianto a dilavare scabre superfici
di granito o di lavica roccia
è nel mio interno il nucleo sasso


l'andirivieni è fuori
è tra le foglie camelie morte...

(Sabbia, da Attraversamenti Vericali, ed Il foglio, 2009)



E spesso il fantastico, legato a ricordi primordiali, prende il sopravvento


Ne raccontiamo forse le cocche
noi che a metraggio
ci avvolgiamo in rocchi
oppure in disarmo
di pepe, paprika, zenzero candito
lecchiamo falde e nocche dal sapore
d'aceto.
Mi apparto per decidere se vado
con zoccoli di paglia
oppure m'incarrozzo nella zucca
e oop
stelle e coriandoli
pioggia di cenerentole in pigiama
affollano il mio prato...

(Minima, da Attraversamenti Verticali, ed Il Foglio, 2009)



La fusione di uno stile personalissimo e la necessità di uno sperimetalismo linguistico che cambia registro, dà vita, in Attraversamenti Verticali, a un variegato percorso poetico che tiene conto dei diversi livelli di lettura e che la Bove porta avanti con la prospettiva di ancora nuove vie da sperimentare: perché la poesia sempre precede, solo essa conduce, e non si sa dove e quando l'avventura tra simboli e suoni troverà quiete.




Cristina Bove è nata a Napoli e vive a Roma. Pittrice e scultrice [arti nelle quali eccelle] ha pubblicato tre raccolte di poesia, tutte edite da Il Foglio

sabato 31 ottobre 2009

recensione di Carmen Lama


Attraversamenti verticali
di Cristina Bove
- Il Foglio ed. -

Attraversamenti verticali dell’universo per scandagliarlo nelle sue infinite possibilità di enigmi e misteri, con la speranza di coglierne qualche minimo barbaglio?
Oppure, più semplicemente, ricerca accurata, a partire dalla propria esperienza, del significato dell’esistenza umana, di cui poter cogliere almeno i tratti essenziali?
In un caso e nell’altro, la ricerca della Bove non si presenta affatto come esercizio mentale semplice e non approda (non sarebbe possibile!) a risultati definitivi. Questa consapevolezza è così forte e profonda che passa nelle poesie sotto forma di struggimento, di melanconia, di incompiutezza, di quasi rassegnazione, a volte. Ma con il sottile intendimento di “tornare alla carica” prendendo vie nuove, cercando di scavare più a fondo, per giungere al momento in cui le cose, le parole, gli uomini e le loro caratteristiche essenziali hanno origine, come per poterne poi seguire passo passo l’evoluzione e comprendere così il perché di ogni cosa, di ogni fatto, di ogni comportamento. Ricerca filosofico-poetica a tutto tondo, insomma.
L’evidenza è però sempre velata da qualcosa che non permette di comprendere per intero, c’è sempre uno scarto tra quel che appare e quel che è. E ciò è tanto più vero, quanto più l’oggetto della ricerca poetica di Cristina è rivolta alla psiche umana, alle emozioni che danno vita ai sentimenti, talvolta così imprevedibili, talaltra così contradditori, oppure del tutto inspiegabili sotto il profilo logico, eppure così reali e profondi da costituire l’unica possibilità di esistenza per chi li vive.
Trattandosi della terza silloge poetica di Cristina, le considerazioni fin qui svolte possono ritenersi più che plausibili, in quanto, proprio con questa nuova raccolta, la Bove dimostra di stare costantemente in allerta, sul filo della continuità della sua ricerca, ma ora con nuove modalità espressive, con nuovi strumenti di indagine che le permettano un’analisi sempre più fine, sempre più approfondita.
Analizzando più da vicino le singole poesie, cominciamo a trovare una conferma di quanto sopra accennato, già a partire dalla bellissima Attraversamenti verticali, a cui fa da contrappunto Impermanenza.
Nella prima, viene utilizzata un’efficacissima metafora tratta dalla scultura, (altra arte in cui Cristina eccelle), per parlare del corpo come “modello a cera persa”, contenuto in un incavo (il calco) da cui ricavare l’impronta: ma è difficile estrarre la vera forma (come dire, l’essenza) dell’essere umano che, quanto più si sente in qualche modo minacciato nella propria interiorità, tanto più la difende contraendosi sempre più fino a mostrare solo la punta della fiamma (della propria vita, la parte più superficiale), attraverso la luce degli occhi. Ma è un lampo, un istante, e poi si ritorna a nascondere il proprio nucleo, il centro della propria anima, o così sembra agli altri, che non osano palesare nemmeno a se stessi l’incapacità di cogliere la vera essenza umana. E se qualcuno volesse credere d’aver compreso nel profondo l’altro da sé, sappia che di sola immagine riflessa (lune dipinte…) si tratta, sembra voler dire la poeta con gli ultimi tre versi, mentre continua a sentire la propria unicità, fluttuando lenta nell’ondeggiare delle poseidonie, incurante (e quasi compiaciuta) di non mostrare agli altri in modo completo il proprio vero sé. Qui si potrebbe forse anche intercalare un’interpretazione che mette in evidenza una sorta di inevitabilità: attingendo alla psicologia di Joe Luft e Harry Ingham, entriamo metaforicamente in uno dei quadranti della finestra detta di Johari (dalle iniziali dei loro nomi) e scopriamo che c’è una parte di noi che anche volendo non potremo mai svelare agli altri perché è ignota anche a noi stessi, ed è il nostro inconscio, che pure agisce in noi a livello profondo.
In questa poesia sono anche bellissime le immagini utilizzate nelle tre strofe e seguendole, attraverso le espressioni poetiche e metaforiche che le rappresentano, con un’analisi ancora più ampia di quanto abbiamo fatto con il primo scandaglio, sembra quasi di vedere i movimenti di questo corpo che si trova “costretto” in una forma che non ha scelto e da cui cerca quasi di divincolarsi per assumerne una più completa (nel cammino dell’esistenza, ogni essere umano cerca di migliorare, aspirando a realizzare la propria maturità in un modo che sia per sé sempre più soddisfacente), salvo mostrare la propria vitalità nel breve giro di boa dell’esistenza (sboccio come fiamma dalla brace) per spegnersi poi nella sabbia sul fondale. E qui riprendendo e continuando in altra forma la vita.
In quest’altro senso, ancora più complesso e direi, ancestrale, la poesia trova il suo completamento nella seconda indicata più sopra e che già dal titolo indirizza il lettore verso il significato: Impermanenza, infatti, è una qualità riferita al corpo, alla materialità dell’essere umano, che sperimenta la sua scarsa maniera di consistere, un’approssimazione per difetto e s’infila di sbieco nella storia, soffermandosi almeno un giorno a credere di essere, di stare, senza accorgersi invece che è tutta un’illusione, che il corpo è un’apparenza.
Sembra di ripercorrere qui la ricerca schopenhaueriana della distinzione tra il fenomeno, ciò che appare, e il noumeno, ciò che è la vera essenza, quest’ultima sempre nascosta dal velo di Maya, cosicché l’illusione si perpetua facendoci credere vero ciò che invece è solo mera apparenza.
Ho intenzionalmente mostrato il senso di queste due poesie, analizzandole per prime, perché questo senso filosofico dell’esistenza si ritrova poi sotteso in molte altre poesie nelle quali il contenuto è di tutt’altra natura: proviamo, ad esempio, ad entrare in Simbiosi con la natura, come fa Cristina costruendosi il suo attico in cima ai rami di un albero, da cui vedremo anche noi avanzare il nulla e non potremo far altro che racchiuderci dentro la nostra forma (che è umana e di albero nello stesso tempo, perché in questo ci siamo identificati simbioticamente), e sentire soltanto il respiro dell’anima, in attesa….
Così, ci accadrà di non essere compresi neanche da chi, pur essendoci stato vicino tutta la vita e pur potendo attingere ai ricordi, non se ne può servire a questo scopo, in quanto incapace di scrutare nel nostro nucleo più profondo, ha Lo sguardo altrove, esattamente come chi, dell’albero, vede solo la corteccia e invece ignora il suo modo di crescita, di cui solo gli anelli interni possono dar veramente conto.
In un’altra bella poesia, Vuoto, la Bove utilizza ancora la metafora dell’albero, ma questa volta assediato da rampicanti e piante parassite che si nutrono della sua linfa, lasciandolo sempre più vuoto: con questa immagine, ripercorre le sue sensazioni più intime, le sole capaci di ridestare la sua vitalità e di riempire il vuoto dell’esistenza, altrimenti visibile come abisso ignoto ed eterna solitudine.
Ancora riappare lo sfondo filosofico-esistenziale discusso più sopra, in una bella poesia d’amore, Accade, nella quale diventa possibile perfino toccare un sogno, accendere un sorriso tra le mani, pur non comprendendo il misterioso realizzarsi, vero, concreto, di questo atto. Infatti è la stessa poeta a sorprendersi per prima e ad essere contemporaneamente incredula e felice, tanto da esprimere l’audace desiderio che si potesse dipanare il sole (affinché permanga accesa la luce del cuore) / e che un prodigio tridimensionale / unisse due figure sul confine (passando dalla bidimensionalità del sogno, alla materializzazione e unione concreta dei due amanti).
In Capovolgimento, Cristina svela tutta la sua cruda consapevolezza che la verità si nasconde ai nostri occhi, proponendo di capovolgere la realtà per far sì che diventi quella che dev’essere, che i concetti significhino quello che si vuole con essi esprimere, e che anche il futuro si concretizzi nel modo voluto. Ma è solo un desiderio, ed è irrealizzabile.
E tuttavia, la poeta persiste nella sua volontà di mostrare la realtà dei sogni, ad esempio in un’altra bellissima lirica d’amore, SSSHHH, dove la descrizione dell’amato ha inizio con alcune titubanze, come se lei stessa non fosse del tutto sicura di ciò che vede.
Eppure, al minimo accenno di possibilità di considerare astratto l’amato, si erge a difesa della propria visione e lo rende così reale che lo si vede mentre con le sue campiture nette / ai quattro lati / nel giardino di rose a volte sbuca / e mi attraversa. Ride. Immagine nitidissima, quasi filmica.
Non è possibile esaminare nello specifico tutte le poesie, né sarebbe opportuno. Il farlo toglierebbe al lettore la responsabilità di comprenderle a suo modo, di seguire il suo intuito e la sua logica, forte del proprio background culturale che, solo, può aiutare a discernere il senso profondo di ogni creazione poetica.
Ma seguendo la scia segnata da alcuni argomenti che a Cristina stanno particolarmente a cuore, in questa come nelle sue due precedenti pubblicazioni, non si può lasciare sotto silenzio la sua attenzione alla sorte degli altri esseri umani, siano essi bambini, donne, o semplicemente gente comune che si lascia irretire da chi in vari modi sa indurre falsi bisogni, sa sacrificare gli altri a falsi idoli, sa impadronirsi della loro stessa anima: due esempi per tutte: Resto, e Velo. Quest’ultima particolarmente toccante, in quanto rivela come si possa del tutto cancellare un essere umano e la sua identità, spegnendo il nome sotto il manto. Qui è evidente il riferimento alla vessazione delle donne da parte di chi dovrebbe salvaguardarne in massimo grado la dignità.
Un ultimo accenno ad una lirica (Nulla da raccontare) in cui Cristina ripercorre un po’ la sua vita: da quando, ancora adolescente, credeva di non avere nulla da raccontare, a quando sopraffatta dal dolore e dalla sofferenza ancora credeva di non avere nulla da raccontare ma pregava che le fosse risparmiata la vita per potersi prender cura dei suoi affetti familiari, a quando scambiando versi poetici con altri cultori di poesia ancora credeva di non avere di suo nulla da raccontare, a quando finalmente ha sperato di poter avere tutto da raccontare a qualcuno che mostrava interesse ad ascoltarla, dovendo invece verificare che spesso la stessa vita si presenta in forma di metafora e il branco uccide a colpi di sorrisi: con un guizzo delicato quanto elegante, la lirica si conclude con un volo nel sole, cioè nella luce dell’esistenza, mettendo a frutto l’insegnamento dantesco (Inf. III, 51) del “non ragioniam di lor, ma guarda e passa”.
Una recensione che potesse dirsi all’altezza del libro che sta esaminando dovrebbe poter spaziare anche su altri aspetti che, in particolare nel campo poetico, sono ritenuti essenziali. E cioè, lo stile, la musicalità dei versi, l’originalità dei contenuti, il messaggio poetico, e quant’altro possa dar modo di comprendere che la lettura che si intraprenderà sarà stimolante e soddisfacente. Su tutti questi elementi invece non mi soffermerò, sia perché ritengo esaurita a questo punto la pazienza di chi sta leggendo queste mie riflessioni, sia soprattutto perché avendo recensito i due precedenti volumi di poesie della Bove, non farei altro che confermare la peculiarità del suo modo poetico di esprimersi, anche se mi piace sfidare il lettore a soffermarsi, da solo, nel modo e nel tempo che ritiene più opportuni, su quegli aspetti delle poesie qui non indagati, ferma restando la fiducia in ciò che ho all’inizio affermato e che ancora sottolineo: Cristina Bove, nelle liriche di questa raccolta, ha reso la sua ricerca poetica più sofisticata, ha sfruttato le sue potenzialità espressive ad alto livello, tuttavia mantenendo la sobrietà che la caratterizza come poeta e l’efficacia nella comunicazione delle sue emozioni più profonde, con l’umiltà che solo un grande poeta possiede.

Carmen Lama

domenica 11 ottobre 2009

recensione di MARIA ALLO





''Attraversamenti verticali'' di Cristina Bove
Data: Domenica, 11 ottobre 2009 ore 10:04:27 CEST
Argomento: Letterarie e umanistiche

"Attraversamenti verticali", terza silloge poetica di Cristina Bove

E' poièin dolente ,negli anfratti dell'esistere umano, il messaggio lucido e sincero dell'autrice, è volontà a denudare il cuore e la mente da ogni residuo di falsa speranza, da ogni infingimento del vivere quotidiano che, molte volte, si rivela a chi, come la poetessa, ha occhi per vedere
"..perchè di un tronco da contar gli anelli
vederti solamente la corteccia".Ogni elemento del pensiero poetico è scandito nei versi con magistrale scelta ritmica, eco della sensibilità estrema della poetessa, con ricercatezza e direi, preziosismo formale e lessicale,mentre la realtà è evocata sempre con suggestive modulazioni che riflettono il consapevole impegno artistico della poetessa anche pittrice e scultrice.
Alla consapevolezza della condizione di dolore in cui viviamo, c'è il bisogno dell'autrice di trovare un appiglio , di dare un senso all'esistenza, di avere la forza di giungere alla fine.
"..Di fiori d'artemisia distillati
bevo l'assenzio
mi aggrappo ai corrimani
nel silenzio sartiame arrotolato
infine
non ho voglia di attraccare."
Leggere queste poesie dà l'impressione di trovarsi dinanzi a una porta spalancata di cui il lettore non mostra alcuna difficoltà a varcarne la soglia, ad entrare per scoprire l'abisso dell'esistenza quotidiana, ma poi riemerge e come Ungaretti:
"E subito riprende
il viaggio
come dopo il naufragio
un superstite
lupo di mare.M.Allo




Edizioni Il Foglio Letterario
www.ilfoglioletterario.it
ilfoglio@infol.it
Collana Autori Contemporanei Poesia
Poesia Silloge
Pagg. 110
ISBN: 978 - 88 - 7606 - 238 – 4
Prezzo: € 10,00





Questo Articolo proviene da AetnaNet
http://www.aetnanet.org

L'URL per questa storia è:
http://www.aetnanet.org/modules.php?name=News&file=article&sid=18140

mercoledì 30 settembre 2009

Renzo Montagnoli per Attraversamenti verticali

Attraversamenti verticali di Cristina Bove Edizioni Il Foglio Letterario www.ilfoglioletterario.it ilfoglio@infol.it
Prefazione di Renzo Montagnoli
Collana Autori Contemporanei Poesia
Poesia Silloge

C'è un famoso detto che recita che non c'è il due senza il tre. Sono modi di dire che si trascinano nella tradizione popolare, per giustificare una certa catena di eventi, di cui poi magari si verificano solo i primi due, mentre il terzo viene rinviato sine die.
Non è il caso delle pubblicazioni di Cristina Bove, poiché dopo Fiori e fulmini del 2007 e Il respiro della luna del 2008, è fresca di stampa una terza silloge e, senza voler fare previsioni azzardate, sono dell'idea che, data la prolificità dell'autrice, ne seguiranno senza dubbio altre.
Questa messe produttiva trova il suo motivo nel fatto che in lei ormai è talmente connaturato il linguaggio poetico al punto che, per esprimersi sui più svariati temi e comunque sempre cercando di fare un discorso approfondito, finisce con il ricorrere ai versi, una forma di esposizione che le risulta particolarmente congeniale, in particolar modo già nell'aspetto propedeutico dell'elaborazione del pensiero.
Che questo modo sia efficace è dimostrato poi dalla qualità della sua produzione, costante, senza cadute, ma eventualmente in una continua evoluzione dello stile, dapprima più semplice e ora appena un po' più complesso, con versi anche secchi, troncature e concentrazione del messaggio, il che finisce per avvicinarla ancor di più alla corrente ermetica.
Già nel titolo, Attraversamenti verticali, c'è infatti la volontà di pervenire a una scrittura meno corrente e comunque emblematica di un pensiero che va a cogliere ogni aspetto della società e dell'animo umano. Del resto l'intera silloge prende il nome da una delle poesie presenti che nella sua dinamica mi sembra supporti adeguatamente quanto ho fino ad ora scritto.

ATTRAVERSAMENTI VERTICALI

Modello a cera persa
in fonderia dove tracima e scorre
si lamenta
nello sbuffo di scarico l'impronta
cavità mi contiene, io sono il segno
dell'avido contrarsi, il luogo e il tempo
il mantice d'intorno
e sboccio come fiamma dalla brace
un'immersione
poi, raggio corrusco
mi spengo nella sabbia del fondale.
Lune dipinte erettili
mi navigano il dorso e fluttuo lenta
nell'ondeggiare delle posidonie.

C'è indubbiamente il tentativo di andare oltre una normale forma espositiva per addentrarsi in un'altra dimensione, in parte ancora non del tutto conosciuta.
Peraltro è presente pure la tendenza a un ritorno alla forma stilistica precedente che ben conosciamo, forse anche perché non è mai possibile troncare totalmente con il nostro passato e allora appare palpitante il cuore messo a nudo di Cristina Bove (Allora anch'io mi chiedo se è così / che si fa poesia / se basta avere l'aria nella testa / un pulviscolo in petto / o una notte di lucciole in cantina /…) oppure (La luna apre le braccia e chiama il mare / nei capelli d'argento /…).
La creatività così si armonizza bene con il concetto e il sentimento, la sensazione ha l'innegabile vantaggio della traslazione immediata all'animo del lettore.
Comunque questo insieme di stile consueto e di esperimento innovativo appare bene amalgamato e tale da accontentare sia chi già conosce l'autrice per il suo verseggiare sciolto e armonico, sia per chi cerca nuovi percorsi espressivi, che sono un segno di vitalità e di perpetuo rinnovamento in un autore che ha ancora da dire molto.
Se mi è consentito un paragone, dico solo che Cristina Bove è come un roseto, che ogni anno si concede una fioritura di diversa scenografia, fermo restando l'originario colore.

Cristina Bove
E' nata a Napoli il 16 settembre 1942, vive nelle vicinanze di Roma dal '63, anno in cui si è sposata. Da quando si ricorda ha sempre dipinto, scolpito, letto molto e qualche volta scritto, famiglia permettendo, poiché la sua stata alquanto numerosa e la sua vita intensa, ricca di eventi meravigliosi come la nascita dei suoi quattro figli, la creatività, gli amici, il miracolo di esserci ancora, sopravvissuta non sa quante volte. Presente in diversi siti Internet con le sue poesie, ha pubblicato le sillogi Fiori e fulmini (Edizioni Il Foglio Letterario, 2007) e Il respiro della luna (Edizioni Il Foglio Letterario, 2008).
Blog: Cristina Bove; Giardino dei poeti; Cristella.
Renzo Montagnoli

http://www.arteinsieme.net/renzo/index.php?m=31&det=5739