giovedì 16 maggio 2013

Sulla rivista ILLUSTRATI


 "Mi hanno detto di Ofelia"
 a cura di Francesca Del Moro

  
“Hai sogni dipinti in verticale
come gli occhi dei gatti
tristi di vissuto a gabbie”
(La strada per il molo)

“Non sono più sicuro del mio nome / e dell’Ofelia / ho perso ogni contatto” dice Amleto nella poesia che dà il nome alla raccolta, richiamando l’attenzione su uno dei temi fondamentali del libro: il timore e al tempo stesso la costante attrazione verso il proprio e l’altrui svanire. La poesia di Cristina vive di due tensioni contrapposte: da un lato la grazia e la levità del ritmo, che evoca aeree partiture d’archi, tendono a sollevarla in volo col rischio di portarla alla sua negazione, al tacere di cui si parla appunto in “Quasi_volo” e “Verso il tacere”. Dall’altra, il ritmo stesso diventa funzionale a svuotare la mente, come nella meditazione, per predisporla ad accogliere la parola poetica in tutta la sua densità. Questi versi mirano a dare un nuovo impatto al nostro quotidiano, scomponendo il continuum di ciascuna esperienza in una serie di dettagli pregnanti che diventano arpioni con cui ancorarci alla realtà per non rischiare di scomparire. Emblematico di questo dualismo è il confronto tra due poesie: “A ripensare” e “Controsogno”. La prima offre una delle molte declinazioni dell’inconsistenza, puntando su ciò che potrebbe essere qualcosa e che non lo è: un pugno di nemmeno sabbia, parole impronunciate, impronte cancellate prima di essere impresse nella rena, e la conclusione, da brivido: “Eppure si può dire / a chi ha sostato stanco alla tua porta / vieni t’offro da bere / e presentare una bottiglia vuota”. “Controsogno”, invece, sostanzia la fenomenologia dell’attesa amorosa con immagini sorprendenti ma al contempo talmente calzanti da apparire necessarie (il chiavistello un nome da girare / lei seduta nel corpo ad aspettare / giunse che l’aria già lo conosceva / col cuore che suonava /più forte della sveglia / a ridestare). Non esente da puntate ironiche (come in “Piccoli omicidi”) e sicura nel giocare con la lingua a tutti i livelli, la poesia di Cristina ricorda i versi geniali di Pasquale Panella, in particolare quelli musicati da Battisti ne “L’apparenza”, nella misura in cui ci porta a esperire accadimenti, pensieri e sensazioni in maniera sfaccettata e consapevole, come se fossero prove di cui abbiamo bisogno per essere certi di esistere.

Francesca Del Moro



venerdì 19 aprile 2013

lunedì 15 aprile 2013

recensione di Augusto Benemeglio



CRISTINA BOVE PESCATRICE DI NEBBIA

Di Augusto Benemeglio



1.Ofelia.
Ho promesso a Cristina che l’avrei letto questo suo libro, “ Mi hanno detto di Ofelia” edizioni Smasher, 2012, e in effetti, ora che è primavera, l’ho letto e disletto, l’ho udito dentro di me, passar fuori, e lo riodo fuori di me, passar con me come un fiume che scorre ai miei piedi. Ecco la bianca, l’Ofelia di Rimbaud che ondeggia  “sull’acqua calma e nera/dove dormono le stelle / come un gran giglio” E l’Ofelia dietro la finestra di De Andrè (“Mai nessuno le ha detto che è bella/ a soli ventidue anni / è già una vecchia zitella/La sua morte sarà molto romantica/trasformandosi in ora se ne andrà /per adesso cammina avanti e indietro/la via della Povertà), e infine l’Ofelia tragica di Virginia Woolf, perché  senza madre e senza modelli femminili, senza identità ( “la sua identità se ne è andata quando le forze maschili non hanno più diretto le sue azioni”), l’Ofelia che in fondo non è mai esistita come donna, ma solo come personaggio, archetipo maschile (e maschilista) di donna a cui tutto è negato, in primis la libertà.   
Ma perché Ofelia? “Perché abita dentro ciascuno di noi, - dice Narda Fattori - coi suoi misteri, segreti e le sue acque, il suo mal di vita che si intreccia e fonde col mal di morte”.  Perché Cristina è una che attraverso le sue poesie dà voce e forza alle donne - dice Carmen Lama -,  una funzione che svolge con profonda empatia, e dare spazio ad Ofelia, in una società e in un mondo monco, è una scelta simbolica forte. Diventa per il lettore una chiave di lettura dei suoi testi poetici

2.Pescatori di nebbia
Vi confesso che ho scoperto anch’io una certa fratellanza con l’Ofelia di Cristina, che contro il silenzio e il rumore inventa la Parola, “libertà che si inventa e mi inventa ogni giorno”, diceva Paz.  Direi che ho avvertito anche un senso di riconciliazione, e mi son detto, Oh, sì, è vero che la poesia lascia sconfinato al più alto grado il suo universo, anche quando parla di un’ Ofelia  in mezzo ai pomodori verdi fritti  e ai muri sbrecciati,  erba,  sassi, zip che s’inceppano, pessime chiusure del tempo, o aperture a latere,  losanghe di arlecchino; o fotografie fatte di vento. La poesia è per Cristina Bove, napoletana di Roma, come lo era un po’ mia madre, una parabola dell’impossibile, una tazza di tè nel lavandino che si trasforma in una nave oceanica che viaggia in cerca di sirene senza canto e in un paio di rose (che) scolorano di petali il giardino. Su fogli bianchi senza limite, né termine, ogni sua poesia è un tentativo, diciamo meglio una “tentazione”, un‘inquieta restituzione della parola vivente in oceani di solitudini. In fondo la sua Ofelia sta nella nebbia dei sogni di un quadro, di un nota musicale, di un verso  liquido e noi
siamo  pescatori di nebbia
nell’attesa di vivere davvero.
Siamo macerie di silenzio
della storia dell’uomo.

3.Proteo
In una poesia – diceva Borges – la cadenza e la collocazione di una parola possono pesare più del suo significato. E ogni verso dovrebbe avere due doveri: comunicare un fatto preciso e toccarci fisicamente, come la vicinanza del mare. Bisogna compiere una successione di esercizi magici, eseguiti con un mezzo modesto qual è la parola, bisogna convertire l’oltraggio degli anni in una musica, in un rumore e in un simbolo. E’ questo il gioco serrato e ironico sulla scacchiera dell’immaginazione di Cris, che non a caso è stata paragonata a Proteo, il dio che amava occultare ciò che sapeva ed intessere oracoli  ineguali. Inseguito dagli uomini assumeva la forma di un leone, di una tigre d’oro, o di un falò, o di un albero che dà ombra alla riva, o la forma dell’acqua che nell’acqua si smarrisce. Metà dio e metà bestia marina, ignorò la memoria che si china sopra il passato e le perdute cose.

4.Autoironia
Coglieva barlumi dal profondo e l’umiltà vera, quella con cui ogni giorno guardi in te per dare un senso al tuo breve e strano e ignoto viaggio, al giro intorno  alla tua prigione, che non riesci mai a compiere del tutto. Cristina ha uno sguardo attento, cerca e trova le parole in quel momento più incisive, senza fare concessioni al facile canto, o alla  mandolinata di turno.  Non è tipo del genere, né una che si lagna, ma se c’è  un  lamento in lei diventa vitalità, energia pura, roba da stoicismo.  Ci ricorda, con Borges, che nessuno può aiutare nessuno,  giacché ognuno deve salvarsi da solo, e andare sulla soglia
con le scarpe in mano/
a scuoterle dai sassi/
ma non ti chiederò quel che non puoi
se quello che non sai/
è l’ultimo dei mondi sul confine/
di un’ ignota galassia
Giochi verbali, riflessi letterari, divagazioni, “i trucchi, i salti, persino le interpunzioni che, spesso, sembrano le giuste punizioni per il lettore rapido, che vorrebbe correndo passare oltre”, scrive  Fernanda Ferraresso,  soprattutto autoironia
va tutto bene/ hai portato le coppe mon  amour?
Vedrai, stanotte un angolo di luna
la cantilena a mantice di un gatto
/ suggerire deliri/  e tu lo vuoi.

5.Una via di mezzo
Ma ogni verso ha una portata emotiva, anche se ci sono dietro inquisizioni filosofiche, estetiche, letterarie, etiche, religiose e mitiche. Bisogna cercare il riscatto e la riscoperta della parola, di una parola magica, di una parola musica, di una parola che sia simultaneamente  contenuto e forma.  E’ tutto un inseguimento della parola, della parola poetica, della parola strana, da napoletana  antibarocca, alla ricerca della semplicità che è  poi  la modesta e segreta complessità del vero segreto della scrittura.
Scusi, Cristina Bove, lei cosa pensa della vita?
Ci penso da quasi settant’anni. Quasi tutti i giorni, ma ne ho un’idea ancora confusa. Il fatto è che una persona  vive  veramente solo quando sogna.“Ogni essere umano ha bisogno di rinascere ogni giorno…ha bisogno di trascendenza”. Ma per sognare bene, il divino  Pitagora raccomandava di non mangiare le fave.  E poi amava predicare agli animali, anticipando  San Francesco  d’Assisi (“Oh, quanto hai  scucciato, France’   cu’ ste prediche agli ucelli!”, diceva l’attore - poeta napoletano Massimo Troisi)
Nacqui nelle terre di mezzo…//
Si mettevano nel campo dei papaveri a simulare le rose
C’è in Cristina Bove una sorta di  “sprezzatura”  alla Cristina Campo, come accennai per altre sue poesie, e un qualcosa che richiama uno come Brodskij, lontano dai clamori della protesta e del facile conformismo, ma sempre pronto a far gare di tenerezza  coi bambini, tra coriandoli  e sogni infranti. La sua poesia è, insomma,  una via di mezzo, tra la  crudele leggerezza della fiaba e il senso del gioco a carte scoperte, o del gioco al massacro, fate voi,  tra indicibili solitudini  e le traiettorie della rimembranza leopardiana, con una tendenza alla speculazione metafisica.
Però c’è quella elegante ironia  e una  consolidata geometria del linguaggio affidato a una scacchiera di cristallo. È un gioco che dubita della ragione che lo governa, è un gioco irreale  che però crede in fondo  nelle segrete finalità della letteratura, è un sogno manovrato e deliberato. Una pagina o un verso fortunato non ci devono inorgoglire, - diceva Borges -  sono il dono del caso o dello spirito, solo gli errori sono nostri, e sono tanti. Puoi aggiustare la rotta come credi, ma alla fine della tua navigazione  giungi  solo
…all’incaglio
stanca/ fui costretta a guardare l’altro volto
la me stessa sbiancata nei pensieri
e quella voce  diventata abbraccio
 fu la gomena tesa / ch’io non vidi

6. Incipit
L’ignoto è inesauribile. Ci sono cose inesprimibili. Il linguaggio non è che un mero strumento di un gioco che tuttavia pretende simmetrie.  In una rosa in punto di morte  senti che  il suo valore estetico è nella propria eternità, non nelle parole che noi, tuttavia, non potremo mai esprimere compiutamente. Spesso il meglio, o il tutto della poesia di Cristina, è nell’incipit, quasi sempre straordinario:
tra scimitarra e fiore //
lo so che verrà il tempo dei ciliegi
ed ecco tutto un panorama s’apre davanti a te, coi samurai giapponesi che fanno esercizi di guerra, nudi, nei giardini di ciliegi,  e cantano :” Oh, quanto è dolce morire al cader lieve dei fiori bianchi! 
vediamoci /nell’ora vuota/ io porterò un non-fiore/
e ti rivedi, garzone d’amore,  all’alba nei giardini di villa Ada, come un fidanzatino di Peynet,  sotto i rami dei platani appena potati,  cogli uccellini che cinguettano e  si baciano in corsa volando  tra un ramo e l’altro; ti rivedi senza un fiore, ma con una scatola di  cioccolatini.
sapeva fare nodi alla marinara/cazzare rande e ripassare bugne
ed eccomi davanti allo scenario del mare jonico, Gallipoli, con la barca a vela Icaro di D’Alema,  che ode  passare il vento di tramontana, e si tuffa come un’ancella bianca, e poi vede passare la musica tra onda e onda, e la barca  scivola, anzi vola inventando lo spazio, il cielo, il mare e il silenzio
si può avere una croce di nuvole basse appoggiata alle scapole nude
Versi che esprimono forza e dolore nella leggerezza estrema, ma anche fedeltà e  obbedienza  al potere del fato, del  destino ineluttabile, in questa fabbrica d’aria  scura  che è la vita, dove  crescere e  negarsi e  morire è (forse) espandersi.
hai sogni dipinti in verticale /come gli occhi dei gatti/ tristi /
E’ vero, se tu guardi il muso dei gatti nelle sere d’inverno appoggiate sull’abisso scopri tutta la loro tristezza verticale negli occhi gialli tagliati a strisce come frutti nella tenebra.
E potrei continuare ancora a navigare negli incipit, in tutto quell’ universo di Cristina che è frammentario, senza  nulla di preordinato,  prestabilito, non c’è un progetto, un disegno, una mappa catastale  della sua casa poetica, ma i suoi  frammenti  hanno un ordine interno, una musica, un’armonia, un’orchestra con  mille strumenti a sua disposizione,  e mille spartiti.  Lei si riserva la libertà di “non scegliere”. Ma solo di frequentare. Le scelte, alla fine, le facciamo noi lettori incrociando i suoi occhi e i suoi sospiri di eterna ragazza presa dal suo delirio circolare, Ofelia, appunto.

Roma, 15 Aprile 2013                              Augusto Benemeglio

lunedì 1 aprile 2013

Recensione di Maria D'Ambra

"Mi hanno detto di Ofelia"

Quasi_volo
un tempo diverso
per camminare astratti
non proprio volare
ma quasi
come essere foglie e pappi
in sentieri di vento

appoggiare a mezz’aria
passi senz’orma
vestiti solamente del tacere

le parole comprimono l’estasi
intralciano i poeti
li definiscono in cataloghi

allora ammutolisco per sentire
e non vendermi agli echi.
Sarò d’ali permesse appena
in tempo
per proseguire a lato di me stessa.
mi hanno detto di ofeliaDall’assenza prende vita la materia, dal vuoto apparente prendono forma le figure, i gesti, da un non-tempo personale si tracciano le linee del ricordo, fino alla grande negazione, la parola che si fa muta, che tace proprio per farsi udire meglio, per distinguersi dal chiasso indistinto che offende la Poesia.
Mi hanno detto di Ofelia è la quarta silloge di Cristina Bove, poetessa dalla parola fluida e potente, dotata di un lirismo innato che le permette di trasformare in versi tutto ciò che la circonda. Forse l’abbondanza degli spunti deriva dalla sua molteplicità, dal sapere prendersi gioco di sé, dal riuscire ad ironizzare sulle tante manifestazioni dell’esperienza umana e su tutto quello che non ha a che fare con la realtà tangibile, ma che ciascuno di noi conosce, anche se non ne è cosciente. Ed è questa la capacità dei grandi poeti d’ogni tempo, quella di riuscire a sentire e poi trasmettere qualcosa che la maggior parte di noi nemmeno ipotizza, trasferendo su carta il canto doloroso oppure gaio di tutte quelle cose che non hanno voce.
Appaio
il tempo di far credere che esisto
e poi scompaio
geco fantasma
m’inerpico sui vetri
e dico al vento
amico mio non scuotere
le imposte
respirami profondo, a distaccare.
[...]
Come tutti i precursori, gli sperimentatori, gli indagatori di percorsi inusitati Cristina si diverte a disorientare il lettore, laddove sembra concedere squarci di luce, presto fa ripiombare nell’incertezza cognitiva, in una girandola di ellissi ed iperbole in cui le trame oscure del significato sembrano perdersi, per poi accorgersi invece che il senso era proprio lì, davanti agli occhi stupefatti di fronte ad una chiusa chiarificatrice e al tempo stesso culmine poetico (ed è così che sento il mio vissuto / farsi macigno quando / vorrei poter partire / e non posso che stare).
Si potrebbe obiettare che è un percorso già sfruttato, ma non è forse vero che la reale sperimentazione passa proprio per il già visto? La particolarità della poesia di Cristina Bove sta anche nel fatto che qui non si crea innovazione a tavolino, con la volontà di smussare e rimaneggiare fino all’ottenimento del prodotto ideato, qui gioca tutto la spontaneità creativa, quella che sgorga da fonti normalmente inavvicinabili e pure invisibili. E mi sconnette il cuore un soliloquio. La poetessa dialoga con se stessa, con le tante sé e con il lettore utilizzando immagini, suoni, accostamenti improbabili, una profonda ironia, realizzando un nuovo modo di comunicare, con un linguaggio inedito fatto però delle parole quotidiane e al tempo stesso di termini arcaici o scientifici, messi lì, quasi a caso, ma sempre intonati alla musicalità dell’insieme. Sì perché la poesia è anche musica.
Aperture a latere
Il sole non candeggia
la biancheria ammuffita o il seno brullo
né l’ala del cucù
filtra soltanto tra listelli e buchi
disegnato di punti su piastrelle
                            il piatto cede, rifornisce rose.
In deltaplano
funambola in assetto
gioca la mia ragazza dei silenzi
la muta dei ritorni e degli infissi
cardini sottotraccia
                             sa di quella finestra mai richiusa.
Qualora fosse il caso
se le porte sprangate a fil di buio
reggessero per anni
avrebbe almeno via d’uscita
il non ritorno sugli stessi passi…
                              un volo finalmente completato.
Cristina non offre soltanto la voce, ma sa anche ascoltare con la pazienza di chi conosce bene il silenzio e il vuoto incolmabile che solo le parole sanno dare, (le parole comprimono l’estasi / intralciano i poeti). E poi ci sono suoni, sveglie, ticchettii, echi, violoncelli e l’impalpabile, aria in movimento, fondali che pulsano, voli a mezz’aria, dissolvimenti, dislocazioni e i profumi, spezie arabe, petali di rosa, piante dai nomi impronunciabili e i colori dei luoghi, delle cose, dei paesaggi interiori, della memoria.

VERSO il TACERE
Saranno secoli? Attimi che mi giro
a tascapane, a giustacuore, a scudo
e di necessità virtù mi allaccio scarpe

camminare dovrò
per la carrozza han già preso la zucca
a me non resta che la mezzanotte
la mia fata madrina s’è distratta.

Mi cucio sulla lingua un che di fiato
zenzero e cinnamomo retrogusto
enzima di saliva mordiefuggi
e mi farò bastare ancora il gioco.

Tanto mi sveglierò, verrà il silenzio
quello che non sopporta ancora voci
né le cose sospese
quello che non s’inganna con le impronte
di parole calcate nella sabbia.

E avrò la colpa d’essere poeta
per abuso di suono.
Ma allora qual è il reale segreto di tanta bellezza? Quella piacevole concatenazione delle parole tesa fino allo scatenarsi di forti emozioni? Oltre alla rivelazione della conoscenza, c’è la grazia della creazione che ha come scopo principale il piacere senza attese, la gioia di poter scrivere poesia solo per diletto e perciò senza alcun tipo d’ansia e con in tasca uno scacco contro il Tempo, privato in tal modo d’ogni potere, di ogni urgenza, essendo modellato a propria misura, compreso nel cerchio senza inizio e senza fine.
[…]
semplice non è mai piegare il tempo
né tantomeno mascherare il dire
m’accompagna il silenzio
presuntuoso
di sussurrargli al cuore.
E poi c’è l’incarico fondamentale d’ogni portavoce, quello di fare ricordare tutto ciò che si è dimenticato, l’essenza di sé, quello che siamo e che sempre ci sfugge.
[…]
noi venimmo dal tempo
ch’era il mare un ritaglio di cielo
ed esultanze, ignote geometrie
carezzavano addosso.

E poi dimenticammo.

Adesso veglio – sola – a ricordare.
Quando si crea per necessità, la spinta arriva da luoghi insondabili e scrivere allora è sì moto d’inchiostro che s’incide sulla carta, ma è anche attraversamento, un continuo sconfinare in un’ansia di fuga e al tempo stesso consapevolezza d’essere in ogni istante, ovunque ci si trovi, è lo sguardo commosso di chi si vede dall’esterno con tutte le debolezze dell’umanità addosso, testimone di quella parte che vaga ancora nell’oscurità, inconsapevole d’essere sempre anche altrove. L’attesa è nel dissolversi della linea di confine, nel riportare, finalmente, quell’essere limitato all’interno del tutto che lo comprende. (Scrivo per chi / non taglia l’acqua con le mani / affonda e non ha voce)

Case abissali
Parole orfane
come lutto del dire
a fluttuare in uno schermo di
cristalli liquidi

nascoste nelle mani
al riaffiorare
d’alga di sale plancton
carezza d’ombra
scena depositata sui fondali

si tace
quando
si sta toccando l’anima
di spalle.
E tacere si può quando la Poesia vive di vita propria.


mercoledì 27 febbraio 2013

Recensione di M. Carmen Lama




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“Mi hanno detto di Ofelia” è un titolo assai intrigante per questa nuova silloge di Cristina Bove, che sembra sempre essere giunta all’apice del suo discorso poetico e invece constatiamo che con ogni sua nuova opera l’apice si sposta indefinitamente e si rimane con la sensazione (di per sé piacevolissima) di un’illusione ottico-mentale, anticipatrice di nuove attese… in un crescendo che non ha mai fine.

Ofelia è un personaggio tragico, una donna immersa nel fiume della sua vita-morte, del cui dramma viene a conoscenza l’amato-amante Amleto, ma solo quando questo si è ormai consumato. E lo stesso Amleto non ha consapevolezza della realtà della donna e dell’accaduto, né di se stesso. Cristina Bove entra perfettamente nel personaggio di Amleto per mostrargli la sua in_coscienza di uomo, mentre gli fa confessare di aver saputo della tragedia di Ofelia ma di non credere, o meglio, di non sapersi decidere a credere alla realtà del fatto e della stessa vita-morte dell’amata, personaggio nel quale pure la poetessa si identifica, con lo scopo implicito di rappresentare simbolicamente il destino tragico che la donna in quanto tale molto spesso subisce.
Dare voce alle donne attraverso le sue poesie, è una funzione che Cristina svolge con profonda empatia, e dare spazio ad Ofelia già nel titolo di un’opera in cui molte sono le poesie che attraversano la fatica dell’essere donna, in una società e in un mondo monco, è una scelta simbolica forte.
Diventa per il lettore una prima chiave di lettura dei testi poetici presentati in questa raccolta.

Ma ci sono altre aperture, così come ci sono altri incontri con la stessa anima poetica di Cristina Bove.
Non è semplice trasferire in una poesia il proprio sentire, facendosi nel contempo carico di rappresentare un vissuto che appartiene anche ad un universo più vasto del proprio.
Ma l’opera poetica di Cristina è una fucina in continua evoluzione, dove la regia sapiente della poetessa consiste nel creare sempre nuove forme con un materiale di base reso duttile dalle sue stesse idee. L’uso del linguaggio, infatti, è sorprendente sia per gli accostamenti lessicali arditi,  sia per le immagini originali composte, sia per le atmosfere che può respirare chi oltrepassa la soglia del suo laboratorio poetico.
Ed è proprio grazie a questo sperimentare sempre nuove forme che la poesia di Cristina emerge.
La sua ricerca è incessante e profonda, il mondo che scandaglia è quello invisibile ai più, ma che a lei semplicemente si mostra, richiedendole soltanto un’immersione, come in apnea, e un ascolto attento della vita che nel profondo della psiche e del mondo si svolge.

Questa fondamentale caratteristica del lavoro poetico di Cristina, comune soltanto ai veri poeti, è una modalità legata alla ricerca della coincidenza, e quindi dell’unità, tra l’essere e la realtà.
Soltanto nella visione poetica (o nel sogno) quest’unità può essere vissuta come tale, ma è necessario successivamente risalire in superficie, (o destarsi dal sogno) per rielaborare la visione.
Trovarsi immersi in una sorta di atemporalità, in un’assenza di tempo, fa sì che all’essere proprio si restituisca la “purezza” originaria, che coincide con l’assoluto, ed è questa l’unica condizione in cui per pochi istanti si vive la realtà così come essa è, con_fusa con l’essere, unità assoluta che soddisfa la ricerca poetica.  
La poesia salva l’invisibile che si mostra per qualche istante. E l’invisibile è come un fantasma, intercessore del tempo, che appare per un momento, prima che la corrente del fiume del tempo lo trascini via, solo per un istante, poiché non è sua natura il durare, l’estendersi nel tempo, perché questo lo altererebbe nel suo “essere”. Può tornare, sì, ma se si ferma un istante lo fa per ottenere l’unica cosa che può salvarlo: essere fissato in un istante perenne. Ed è proprio quest’azione del fissare l’istante, la visione fugace, quello che si richiede al poeta e quello che Cristina Bove fa con le sue poesie. Un sogno o una visione possono essere salvati, rendendoli visibili, facendoli entrare nel mondo della realtà che è quella del tempo, quindi attraverso la rielaborazione cosciente del risveglio, del ritorno in superficie, e della presa di coscienza di quel che è stato e della scrittura poetica.

Tale condizione si addice ad ogni essere umano, ma molto spesso (e comunemente)  non si è capaci di discendere nelle profondità della propria anima, né di ascoltarne i richiami o di decifrarne i messaggi, neppure quando nella totale inconsapevolezza sono i sogni ad alimentare la nostra psiche.
Per il poeta invece è un aspetto imprescindibile e lo è tanto più quanto più si affina la sua sensibilità. Diventa, alla fine, il suo habitus psico-mentale. Ed è anche, possiamo dire, la realizzazione del sé. Che però non è mai finita, mai definitiva, se ci atteniamo a quanto, in merito a ciò, ha chiaramente espresso Maria Zambrano in tutto il percorso filosofico del suo pensiero.
Ogni essere umano ha bisogno di rinascere ogni giorno, e compie questa sua rinascita attraverso il risveglio dal sogno e la rielaborazione dello stesso o, per il poeta, attraverso la rielaborazione delle sue visioni dell’invisibile, della ulteriorità del reale, o, in altri termini, attraverso l’intuizione della trascendenza di tutte le cose, degli esseri umani e dei viventi in generale.
Cristina Bove, a mio modo di vedere incarna al più alto grado l’essenza poetica, perché questa coincide con il suo essere la persona che è.

Nelle sue poesie, in particolare in quelle di questa raccolta, si trova la sua anima dislocata, anche a piccoli frammenti, nei versi, nelle figure retoriche, nei ritmi, nella liricità.
Anche quando una poesia parla di cose minime, di oggetti comunissimi e che si potrebbero definire insignificanti, a maggior ragione per questo aspetto vi si coglie un frammento lirico perché l’anima abbandonata alle minimalia sembra essere rassegnata. E questa scoperta segna inevitabilmente l’animo di chi legge.

In poesie come Bora, Una ciotola, Huaca, Riflesso marginale, Sbalordire, Perché la resa, Minime (?) COSE, Per aspera, VERSO IL TACERE, Daojiao, Legend, Fuori dal campo, è eclatante questo sentimento di marginalità in cui si sente risiedere la poetessa, e la lettura dei versi, se rallentata al ritmo del cuore di Cristina mentre “sentiva” quello che ha scritto, conduce immediatamente nei dintorni di una con_divisione del sentire.
Non una volta, ma più e più volte, leggendo e rileggendo le poesie di Cristina_Ofelia, ho provato questo senso di vicinanza con la sua anima, con il suo sentire profondo, qualcosa che mi fa essere partecipe di una vita SubLIMINALE, interiorità sofferta e lirica, appunto.

Senza pretendere di esaurire l’analisi delle poesie di questa silloge in una breve recensione, vorrei tuttavia segnalare due poesie per me fondamentali per individuare il senso più autentico anche di tutte le altre, proprio perché le ritengo emblematiche di un sentimento vitale che in qualche modo è scosso dalla vita stessa che procede su binari non previsti o non auspicati, come spesso accade per chiunque. Si tratta delle poesie Porta e Di solitudini.
La prima: Riconobbi la soglia / una fotografia fatta di vento / lo riportava a me dall’infinito // Il camino era spento e la finestra / si spalancava sull’eternità // le distanze incolmabili generavano spazio / su gradini sbreccati ero seduta / di crepa in crepa / a rattoppare il tempo.
La seconda: Alla tua solitudine lo posso raccontare / dei miei pensieri cavi, e delle notti / calate sulle rive di soppiatto. / Tu la conosci, è specchio al tuo sottrarti / anche la mia / ch’è sabbia, neve, voli e / speronate a picco. // A te lo posso dire, fatta di nebbia io sono / quindi nei vuoti d’aria m’abbandono / per una tregua minima / se vuoi / tu che ti specchi nel mio nulla / puoi, nella forma del buio, / porgere la tua mano alla mia assenza.
Non occorre commentare, credo. La bellezza e il senso di queste due poesie confermano (ovviamente, per me) il messaggio che ho recepito, sotteso nel complesso di tutte le poesie della silloge, e che ho cercato di esplicitare con questa recensione.

E in conclusione di questo breve resoconto della “mia” lettura della silloge Mi hanno detto di Ofelia, vorrei sottolineare, se ce ne fosse bisogno, l’eleganza dello stile di Cristina Bove, l’originalità e la personalità di ogni suo componimento, che inutilmente ci si sforzerebbe di incanalare in una qualche corrente poetica.
Sono poesie, le sue, frutto di un vissuto di immedesimazione nella vita di tutti i giorni e nella vita sociale, umana e universale, frutto anche di una cultura molto ampia che affiora in molti modi, e frutto di una sensibilità fine, di un’intelligenza intuitiva straordinaria, di una generosità insita nel DNA del suo animo che le rende molto naturale darsi, attraverso le poesie, agli animi sensibili dei suoi lettori.



27 febbraio
M.Carmen Lama