di Grazia Calanna
mercoledì 7 gennaio 2015
la recensione di Simona Lo Iacono
Scriviamo sempre contro la morte, lanciamo dardi infuocati contro la fine. Gli scrittori sono forse le creature che più di altre hanno consapevolezza di morire, fiutano l’intima fragilità delle cose, intuiscono che abbiamo un tempo, una scadenza.
Perciò afferrano disperatamente ogni frammento e lo trattengono con le parole. Per eternarlo, e per trovarsi, per rivelarsi.
Scrivendo, si può forse arginare l’impetuoso galoppo verso quella conclusione, ci si può arrendere al fatto di essere tanto compiuti già all’atto di nascere. Stelle che avranno poche ore per fare luce, a cui non resta altro che lasciare traccia, un ricordo.
Così fa Cristina Bove, ricapitola momento per momento, non fugge né il tempo né quel mistero che è vivere, un mistero irrisolvibile, che si può solo raccontare.
Ma raccontare con la prosa che non si rassegna mai a essere memoriale, con le parole che ardono di bellezza, con i ricordi che giocano a mostrasi crudeli e veri, spietati e umilissimi, giocosi e arrendevoli, una baldoria di città attraversate, corpi sani e malati, precipizi e resurrezioni.
Cristina Bove non si sottrae alla ricerca della verità, non tesse assoluzioni o condanne, non scrive per dare un senso, ma per darsi un senso.
Scrivendo, si vede incedere tra orde di fantasmi benevoli, sfiora l’indicibile, quel pozzo in cui è caduta e dal quale riemerge a forza di braccia, e a forza di versi, e a forza di sillabe che intrecciano una corda di salvezza, una mano pietosa che la solleva dal buio, che la salva.
E avviene.
Il dolore si trasforma. E così le perdite, i salti oltre balconi e parapetti, i voli straziati di quando non si sa ancora che cosa sia – davvero – stare dentro la vita.
Una scoperta.
Mentre giace riversa tra la vita e la morte, è la semplicità delle cose a rivelarsi. Viviamo perché siamo parte di un’esperienza d’amore. Viviamo perché di quell’amore siamo una costola e una goccia, una parte segreta all’interno della quale germoglia sia il dolore che l’universo. Una particula, insomma, una su mille, o forse una per mille. Tanti noi dentro noi stessi, ma pure fuori, in una fratellanza caritatevole e necessaria degli uni con gli altri e persino del nostro io con noi stessi.
Cantrice dell’armonia, Cristina Bove arriva ad essa varcando portali dolorosi, tagliando epoche, eventi, scelte. Scoprendo che accogliere il mistero è l’unico modo per goderne anche gli impensabili vantaggi: una gioia pura e disarmata, una consapevolezza che dal passato corre verso il futuro e poi di nuovo avanti e indietro.
Raccontandosi si è scomposta e frammentata, ma non per perdersi, per ritrovarsi in ogni sfaccettatura, per cogliersi in completezza e verità, per scrutare l’essere umano con coraggio, e anche con la certezza di compiere un atto sacro e inviolabile.
Con “Una per mille” Cristina Bove ci consegna un’opera di altissima ricerca spirituale, in cui è impossibile scandagliare il confine tra essere che scrive e parola scritta, tra umanità e arte.
– Cristina, le chiedo, questo è un libro nato come un atto di pura necessità. Raccontaci perchè hai deciso di scriverlo.
Non conosco esattamente il perché, so che a un tratto sono cominciati i ricordi ad affacciarsi e ho sentito l’urgenza di condividerli. Non tanto per tramandare, quanto per dichiarare: esisto per qualche motivo imperscrutabile, la mia vita si è svolta in questo modo, se lo asserisco mi faccio garante della vita, e del rispetto, che avverto imprescindibile dall’amore, per me stessa e per tutti gli esseri viventi.
– E la prosa che incede con la bellezza dei versi, musicale, composta con guizzi di rivelazione. Cos’è per te la poesia? E che rapporto ha con questo libro?
Credo che per me lo scrivere abbia sempre quel senso di rivelazione, iniziato con la poesia come una sorta di linguaggio estremo, suggerito e necessario a rivelare quanto di misterioso e ineffabile ci avvolge, e confluito nella prosa, che comunque non sento così diversa se non per l’addensarsi discorsivo e la continuità, malgrado le apparenze, del ricordo. Raccontare, che siano vicende inventate o realmente accadute, in fondo è come persuadersi, e persuadere, che nulla è andato perso, delle nostre vite, della nostra fantasia, del nostro cuore.
– Questo però è anche un libro di visioni, di presenze dell’oltremondo. Come quando racconti: “La figura era sempre lì, al suo fianco…. una bilancia apparve a mezz’aria, tra il letto e la parete di fronte. Uno dei piatti era appesantito da un mucchio di spine. Su quello contrapposto una mano cominciò a deporne altre. La libra era sorretta da un essere tanto risplendente che non riusciva a distinguerne le fattezze e dal cui centro, più o meno all’altezza del cuore, cominciarono a scaturire rose, di tutte le sfumature, di tutte le dimensioni, aperte, chiuse, boccioli. Si riversavano nel piatto vuoto formando un mucchio sempre più alto; tuttavia, benchè si stesse colmando, non accennava a scendere”. Vuoi spiegarci la forza di questa immagine di potenza quasi biblica?
Certo, posso farlo, anche perché il ricordo, a distanza di anni si presenta con la stessa vividezza di allora. Stavo in una sorta di sospensione, intorno a me tutto si presentava rarefatto, e benché avessi la percezione di chi mi stava intorno, ero contemporaneamente in una bolla ovattata in cui si evidenziò la figura di cui scrivo.
Sapevo di essere presente in più realtà, se così posso dire, ma le parole sono davvero insufficienti a descrivere quanto stavo provando.
Posso dire soltanto che la visione luminosa con tutto quello che significava, tra rose e comunicazione del pensiero, mi diede una sferzata di energia, che non apparteneva soltanto al corpo, bensì a un quid pulsante e vivo, in una pluridimensionalità che mi rassicurava, e che “riconoscevo”.
E ci fu ancora modo di scegliere, perché, in definitiva, i due mondi si compenetrano, e andare o stare è sempre lo stesso esistere.
Simona Lo Iacono
Loredana Falcone
Quello
di Cristina Bove non è un
romanzo e nemmeno un'autobiografia. È un
viaggio nell'anima. Le prime pagine possono trarre in inganno aprendoci le
porte di un mondo di bambina, una piccola bambina con le treccine annodate in
testa che già nei gesti quotidiani, nelle parole e nelle
carezze dei propri cari, cercava risposte a domande ancora sconosciute. C'è in quella bambina il presagio di una vita che
l'avrebbe portata a respirare odori e popoli lontani. Ci sono in quegli occhi
d'azzurro innocente, le scintille di una sensibilità capace di penetrare un'anima. ...continua qui
martedì 6 gennaio 2015
Laura Costantini
su Una per mille"
Non è un romanzo.
Non è un'autobiografia.
È di più. Qualcuno ha detto che solo una poetessa poteva riuscire a rendere la poesia in prosa.
Un libro difficile. Molto personale. Eppure universalmente valido.
Una grande prova di scrittura che ammalia pur limitandosi a raccontare le pieghe di un'anima che vuole aprirsi a tutte le latre anime. E che regala una speranza dopo averle perse tutte.
La frase: "Ormai non sa più quando, e se, potrà essere scritta la parola fine, e questo è davvero straordinario." chiude il libro nel momento stesso in cui lo apre. Rendendocelo affine e necessario.
Non è un romanzo.
Non è un'autobiografia.
È di più. Qualcuno ha detto che solo una poetessa poteva riuscire a rendere la poesia in prosa.
Un libro difficile. Molto personale. Eppure universalmente valido.
Una grande prova di scrittura che ammalia pur limitandosi a raccontare le pieghe di un'anima che vuole aprirsi a tutte le latre anime. E che regala una speranza dopo averle perse tutte.
La frase: "Ormai non sa più quando, e se, potrà essere scritta la parola fine, e questo è davvero straordinario." chiude il libro nel momento stesso in cui lo apre. Rendendocelo affine e necessario.
Gaetano Vergara (Aitan)
Cristina,
ho appena finito di (ri-)leggere il tuo romanzo "Una per mille",
confermando le buone impressioni che avevo avuto quando avevo scorso le
anteprime che mandavi via blog.
È un romanzo/non-romanzo che racchiude la tua poliedricità di interessi, sentimenti e passioni; e scrivo romanzo/non-romanzo non tanto per la frammentarietà e la moltiplicazione dei punti di vista che lo contraddistinguono, ma per la voluta incompiutezza di quel finale/non-finale che si congeda dal lettore con quella "soluzione di continuità" che lascia ogni porta aperta, come nella vita reale (e non come nei romanzi, la cui caratteristica più peculiare è proprio il racchiudere gli eventi in un inizio e una fine; come tra parentesi).
"Ormai non sai più quando, e se, potrà essere scritta la parola fine, e questo è davvero straordinario."
Molte considerazioni te le avevo già mandate nei commenti del blog nel corso del tuo "work in progress"; aggiungo che i capitoli che mi hanno più intrigato e che mettono in mostra le diverse corde della tua scrittura sono il 31 (con quella felice alternanza della ricetta della "mesciueia" e il tuo quotidiano di donna), il 39 (in bilico tra metaletteratura, metafisica, considerazioni sull'arte e sulla religione), il 40 (umorismo puro) e il 43 (una summa di tutto quanto ho scritto nelle parentesi qui sopra).
È un romanzo/non-romanzo che racchiude la tua poliedricità di interessi, sentimenti e passioni; e scrivo romanzo/non-romanzo non tanto per la frammentarietà e la moltiplicazione dei punti di vista che lo contraddistinguono, ma per la voluta incompiutezza di quel finale/non-finale che si congeda dal lettore con quella "soluzione di continuità" che lascia ogni porta aperta, come nella vita reale (e non come nei romanzi, la cui caratteristica più peculiare è proprio il racchiudere gli eventi in un inizio e una fine; come tra parentesi).
"Ormai non sai più quando, e se, potrà essere scritta la parola fine, e questo è davvero straordinario."
Molte considerazioni te le avevo già mandate nei commenti del blog nel corso del tuo "work in progress"; aggiungo che i capitoli che mi hanno più intrigato e che mettono in mostra le diverse corde della tua scrittura sono il 31 (con quella felice alternanza della ricetta della "mesciueia" e il tuo quotidiano di donna), il 39 (in bilico tra metaletteratura, metafisica, considerazioni sull'arte e sulla religione), il 40 (umorismo puro) e il 43 (una summa di tutto quanto ho scritto nelle parentesi qui sopra).
G.V.
mercoledì 17 dicembre 2014
Metà del silenzio - Nota introduttiva di Anna Maria Curci
Una
mano sulla spalla, proprio là dove il dolore sordo e continuo accompagna i
giorni, il tocco lieve e fermo: questo è per me l’incontro, che si rinnova con
la raccolta Metà del silenzio, con la
poesia di Cristina Bove. Quella mano potrebbe scrollare - ne ha tutta la forza
e l’autorevolezza- ma non lo fa; al
contrario, quel tocco è l’invito alla sosta, alla riflessione, a un volteggio
perfino, a condividere una danza, a percorrere un tratto di strada insieme.
Quella mano e il suo tocco non possono essere disgiunti dagli occhi che la
guidano, e quegli occhi guardano oltre, verso una dimensione altra. Attenzione,
tuttavia: non ci troviamo dinanzi a una poesia che sfugge, spaurita e dimentica,
il reale; semplicemente, lo attraversa, cogliendone orrori tanto palesi quanto
palesemente ignorati dai più e, insieme, bellezze che si sottraggono alla
superficialità e che non tutti, quindi, sono in grado di percepire. Viene
spontaneo, dunque, l’accostamento a una raccolta precedente di Cristina Bove, Attraversamenti verticali, ma anche qui,
come ogni volta mi accade, penso al superamento, che dell’attraversamento è
compagno e affine e che ne costituisce una prosecuzione allo stesso tempo naturale
e dettata da una volontà inconsueta.
Attraversamento
e superamento, si diceva: sotto questa luce va letto, studiato, raccolto, il
titolo del libro, che è poi anche il titolo di uno dei testi che la compongono:
Metà del silenzio. Stavolta la pluralità,
ancor più della duplicità del significato dell’insieme, diversamente da come
avviene di solito nei titoli e nel corpo delle poesie di Cristina Bove (basti
leggere, anche qui, d’altronde, i primi titoli: Con_sensi, Di_versi fuochi
e, più avanti, Tra_scende_re, A(f)fondo) non è dichiarata e neanche
suggerita, almeno non esplicitamente: essa emerge dalla lettura dei testi,
cosicché è chi legge a chiedersi, dopo, se non sia percorribile il sentiero
tracciato qui dall’autrice anche alla luce di un accento tolto. Dunque, non
solo “metà”, una delle due parti, del silenzio, ma anche “meta”,
traguardo, del silenzio. Resta ancora
aperta una terza accezione della prima parola, “metà”: quella che la ricollega
alla preposizione che in greco antico reggeva proprio il caso genitivo e che
apre la strada quindi a un’altra interpretazione del complemento espresso dalle
parole “del silenzio”: insieme al silenzio, per mezzo del silenzio, oltre il
silenzio, riflessione sul silenzio, attraversamento e superamento grazie al silenzio?
Suggerisco,
per affrontare il cammino in Metà del
silenzio, questo viatico, vale a dire il tocco lieve e fermo della mano che
ho dichiarato in apertura essere tratto distintivo della poesia di Cristina
Bove. È un tratto semplice perché sceglie termini ed espressioni d’uso comune,
e insieme complesso, perché sul significato dei termini di uso comune riflette,
con piglio divertito e severo, piegando e dispiegando, mostrando e dimostrando
che oltre l’uso comune si può andare, a patto che, appunto, lo si sia
attraversato, con sguardo lucido, volontà e capacità critica.
Se
il viatico è un tocco lieve e fermo della mano, il viaggio non teme di andare a
fondo e di affrontare, nel tendersi oltre la soglia dell’immediatamente
riconoscibile – e si torna qui alla dimensione ‘meta-“ – ciò che è ‘oltre’, che
si pone ‘al di là’, ciò che nella vita
di superficie, nella ‘esistenza di galleggiamento’ viene accuratamente evitato,
cancellato, ignorato e dunque, non senza una non più ingenua e senz’altro
sbrigativa superstizione, taciuto. Il
passaggio a questa altra dimensione della conoscenza attraversa, e non salta a
piè pari, esperienze dolorose di perdita, di allontanamento dal rassicurante,
di divisione, di lacerazione e di «parole inferte». Un’esistenza di frontiera,
questa, che è resa con andamento dei versi e termini che non temono il salto di
tonalità – l’uso comune della lingua è affiancato da termini di minore
frequenza, inusuali, ma mai inseriti per il mero fine dell’effetto ricercato,
del preziosismo a tutti i costi – e il chiaroscuro spiazzante all’interno della
composizione. Chi è l’io lirico? Acheronte il traghettatore, la fanciulla che
in volo scopre verità, Dorothy dal Mago
di Oz, la donna «dal dolore contratto», il fabbro che «spezza faville» (e
che dà corpo al felice sospetto che l’associazione tra favilla e favella, tra
lo spezzare faville e solcare favelle non sia soltanto efficace analogia, ma
intento programmatico), colei che per una volta sceglie di essere Criptica, oppure colei che «da tempi infiniti»
reca fiori? L’io lirico è tutti loro, ed è, ancora, qualcosa di più: assume
forme molteplici – tratto questo che è proprio della poesia di Cristina Bove,
come ebbi occasione di affermare a proposito della sua precedente raccolta Mi hanno detto di Ofelia – e si
manifesta, come recita il titolo del romanzo di Cristina Bove, come Una per mille. L’intima coerenza, nel
perenne mutamento e nell’attraversamento come valore che non esito a definire
etico, sta nel tendere alla luce, nella ricerca, e non di rado nella percezione
netta, di quello che il poeta Michael Krüger chiamò in una sua raccolta “il
coro del mondo”. Raccolta del residuo, di ciò che altri scartano (“ma ciò che
resta…” di Hölderlin risuona nelle orecchie) e contributo vivissimo a una
nuova, insospettata armonia che si libra e libera; a chi legge non resta, ed è
tanto, che accogliere l’invito che conclude la poesia Di voli e altri viaggi: «Non
fatela atterrare / portate via il frastuono / ha il sonno lieve / anche il
frusciare minimo la desta. / sogna di porti e navi / di biglietti per dove».
©
Anna Maria Curci
Parole inferte
Sotto la chioma bruna
che parla in strato sferico
riferimenti in sovran_numero
si calano le fronti corrugate
strade d'asfalto accelerando il passo
non il respiro, quello
rimane appeso al chiodo.
E sbeffeggiare chi la vita stringe
filo di ferro infisso tra le vertebre
a consentirle transiti di scarto
- ecco un bacino idrico -
la ninfa delle ellissi
di quello che non ha ferisce a morte
ché se appena si approssima d'un cielo
bavero di cristallo
termina l'alfabeto nella forra
e nel suo manto nero sfoga l'urlo.
Io sono qui, mi accosto con prudenza
perché ho paura d'essere ferita
la millesima volta.
E sì che vorrei essere un abbraccio.
(p. 18)
Donna
chissà...
Portale un guizzo di vita
una lama diretta nel centro
a infilzarle pensieri
oppure a mormorii
di sé precipitando che le strappa
il vestito
il chiaro-luna pelle
l'ansimo di un'ora resa insolita
se ti trema la voce
poi non chiudere a sassi l'apertura
non trafiggerne l'ombra.
le mani te le rendo
non sono indispensabili al morire.
(p. 21)
Acherontia
Allora ti avvicini con la bocca
alle cose sentite dire altrove
che non sono le tue
raccogli cenci
spolveri le travi - i ragni li farai infelici -
e se
pronunci ancora altre parole
otterrai
sei monete e due lustrini
di
fandonie sgargianti
tu non
conosci decerebrazione
l'essere
solo corpo - il pesce anfiosso -
il suono
delle cellule che cade
transitorio
giù per
accenti tonici
emerge da
cunicoli
deflagrando
crisalidi - l'atropa sfinge -
separata
ristagna e si nasconde
sotto
lemmi e cifrari
l'anima
mia
per un
destino d'ali.
(p. 32)
Almeno
chiedersi
Ci sono tombe in cielo fatte di fumo
tante hanno misure piccole
portano solo nomi illeggibili
sono però nel cuore delle stelle
conservano la cenere degli uomini
i loro corpi mutilati e offesi
madri svuotate di bambini a sangue
c'erano scarpe a tonnellate
fuori dai forni, denti
occhiali una montagna
e ceste di capelli
prima d'essere fumo li spogliarono
d'identità e di pelle
chi scuoiava, conciava, a chi pareva
logico
fare d'esseri umani suppellettili?
Più delle sentinelle
dei cavalli di frisia
del gelo e della fame
li uccise chi
non vedeva orrore
in quei bambini ossuti
strappati dalle braccia delle madri
chi non provava pena
per i corpi indifesi nella neve
e che li raccoglieva
per gettarli nel fuoco e nelle fosse
quelli per cui la strage fu normale.
Di quelli ancora è pieno il mondo
brandiscono randelli
e vorrebbero forni da sfamare.
(p. 40)
Criptica (della quale non do spiegazione)
S’inceppano
dentro
ehm… colpi di
tosse e un sorso
a mandar giù
rospi di maggio
ma solo
perché è maggio
se fosse
stato agosto
rospi
d’agosto.
Ti prende
alla sprovvista
al nord dei
desideri
iperborea
presenza
- sapresti
mai di me se non sentissi
il vuoto
dell’assenza?-
esisto in
quanto sono una mancanza.
Si arresta al
filo dell’ascolto
chi non
conosce la parola giusta
e crede che
una capra
campi di più
sopra la panca
o che le
fisarmoniche soffrano di raucedine
e la natrice
senza sibilare
rimanga nella
nebbia.
(p. 46)
Di
voli e altri viaggi
Una corazza d'anni arrugginiti
o cavalli di frisia
a protezione della carne tenera
si potrebbe spacciarla per culla
infiocchettarla di violamammola
e tanto per
appuntarle due spille a fior di
labbra.
Gradisce la signora
nastri di taffettà?
E chi lo sa, se poi sfatta di cera
a una candela basta uno stoppino
- evitare tragedie, un piccolo
bruciare
a colar via -
e la vedete infissa
dal millenovecentosessantuno
a volo d'angelo.
Non fatela atterrare
portate via il frastuono
ha il sonno lieve
anche il frusciare minimo la desta.
Sogna di porti e navi
di biglietti per dove.
(p. 48)
Donne
A quelle donne di meraviglie e fiori
quelle che silenziose fanno andare
casupole e favelas, figli portati
sulle
spalle chine, lana pungente sulla
pelle
dita affondate negli inverni
donne dismesse a ricamare perle
e chatouches per quelle fortunate.
Donne dai pianti occulti per i figli
perduti,
donne dalle carezze rassegnate
sulle deformità dei loro nati e quelli
d'altre.
Vanno con passo celere
più avanti della vita
più pietose del quadro sugli altari
che spiega nel suo ebete sorriso
quanto non fu mai loro e di quei figli
abnormi,
l'opposto dei bei riccioli dipinti
e lineamenti rosa.
Donne delle catene di montaggio
recluse per un tralcio di mimosa
donne dei mille passi nel deserto
per un una goccia d'acqua
donne a scacciare mosche dai sorrisi
dei loro figli condannati a sete.
Donne vendute
donne vilipese
Qui ci piangiamo addosso
per uno specchio rotto, una sedia
tarlata
solitudine in versi che dovrebbe
consacrarci poeti
roba che non soccorre i derelitti
che non reclama l'equità dovuta
e niente fa per togliere al potente
quello che ruba ai miseri.
Donne di ceri e cere
prigioniere d'inganni, occhi cuciti,
che al prete per figliare e per morire
pagano sempre il truogolo e
l'ingrasso.
Spossessate del corpo, incubatrici
di vittime innocenti.
Madri di stupratori e santi
donne comunque e sempre.
(pp. 50- 51)
Guardami
potrei
anche non esserci
nel
buio sono o non sono
come
il famoso gatto di Schrödinger
esisto
solo se qualcuno osserva.
La
logica dei quanti
sarà
pure dei tanti compassati cervelli
espressa
a formule
le
nonmisure mie sulla lavagna
e_vasi
comunicanti
per
una fenditura
sangue
a con_fondere
ti
prometto quel bacio di carbonio
diamante
a mezzanotte
solo
se ti soffermi
alla
sua luce.
(p. 57)
Di una poesia della raccolta, Dorothy e il mago, esiste una versione
in tedesco:
Dorothy
e il Mago
Non gridare se nasci d'autunno
se la tua voce è traccia del vissuto
la città di smeraldo ha le sue tane
e non temere il freddo sulle vie
battute dal maestrale
vieni a braccia distese
portami ombrelli rosa d'artemisia
ti disegno col dito nelle fragole
i contorni di Oz
e tu da quel velario che separa
giorni di grigio dalle luminarie
scrivimi fiabe a margine
ti leggerò le labbra
e basterà.
Di una poesia della raccolta, Dorothy e il mago, esiste una versione in tedesco:
Dorothy e il Mago
Non gridare se nasci d'autunno
se la tua voce è traccia del vissuto
la città di smeraldo ha le sue tane
e non temere il freddo sulle vie
battute dal maestrale
vieni a braccia distese
portami ombrelli rosa d'artemisia
ti disegno col dito nelle fragole
i contorni di Oz
e tu da quel velario che separa
giorni di grigio dalle luminarie
scrivimi fiabe a margine
ti leggerò le labbra
e basterà.
Dorothy und der Zauberer
Schrei nicht, wenn du im Herbst geboren wirst,
wenn deine Stimme Spur des Erlebten ist
die Stadt aus Smaragd hat ihre Höhlen
und fürchte dich nicht vor der Kälte auf den
vom Mistral gepeitschten Straßen
komm mit ausgestreckten Armen
bring mir rosenrote Schirme aus Beifuß
ich zeichne dir mit dem Finger in den Erdbeeren
die Umrisse von Oz
und du aus dem Vorhang, der Tage
aus Grau von der Lichterflut trennt,
schreib mir Märchen am Rand
ich werde dich von den Lippen ablesen
und das wird reichen.
Cristina Bove, da: Metà del silenzio, Pibuk 2014, p. 30
(traduzione in tedesco di Anna Maria Curci)
Qui per ascoltare l’audio
Una
mano sulla spalla, proprio là dove il dolore sordo e continuo accompagna i
giorni, il tocco lieve e fermo: questo è per me l’incontro, che si rinnova con
la raccolta Metà del silenzio, con la
poesia di Cristina Bove. Quella mano potrebbe scrollare - ne ha tutta la forza
e l’autorevolezza- ma non lo fa; al
contrario, quel tocco è l’invito alla sosta, alla riflessione, a un volteggio
perfino, a condividere una danza, a percorrere un tratto di strada insieme.
Quella mano e il suo tocco non possono essere disgiunti dagli occhi che la
guidano, e quegli occhi guardano oltre, verso una dimensione altra. Attenzione,
tuttavia: non ci troviamo dinanzi a una poesia che sfugge, spaurita e dimentica,
il reale; semplicemente, lo attraversa, cogliendone orrori tanto palesi quanto
palesemente ignorati dai più e, insieme, bellezze che si sottraggono alla
superficialità e che non tutti, quindi, sono in grado di percepire. Viene
spontaneo, dunque, l’accostamento a una raccolta precedente di Cristina Bove, Attraversamenti verticali, ma anche qui,
come ogni volta mi accade, penso al superamento, che dell’attraversamento è
compagno e affine e che ne costituisce una prosecuzione allo stesso tempo naturale
e dettata da una volontà inconsueta.
Attraversamento
e superamento, si diceva: sotto questa luce va letto, studiato, raccolto, il
titolo del libro, che è poi anche il titolo di uno dei testi che la compongono:
Metà del silenzio. Stavolta la pluralità,
ancor più della duplicità del significato dell’insieme, diversamente da come
avviene di solito nei titoli e nel corpo delle poesie di Cristina Bove (basti
leggere, anche qui, d’altronde, i primi titoli: Con_sensi, Di_versi fuochi
e, più avanti, Tra_scende_re, A(f)fondo) non è dichiarata e neanche
suggerita, almeno non esplicitamente: essa emerge dalla lettura dei testi,
cosicché è chi legge a chiedersi, dopo, se non sia percorribile il sentiero
tracciato qui dall’autrice anche alla luce di un accento tolto. Dunque, non
solo “metà”, una delle due parti, del silenzio, ma anche “meta”,
traguardo, del silenzio. Resta ancora
aperta una terza accezione della prima parola, “metà”: quella che la ricollega
alla preposizione che in greco antico reggeva proprio il caso genitivo e che
apre la strada quindi a un’altra interpretazione del complemento espresso dalle
parole “del silenzio”: insieme al silenzio, per mezzo del silenzio, oltre il
silenzio, riflessione sul silenzio, attraversamento e superamento grazie al silenzio?
Suggerisco,
per affrontare il cammino in Metà del
silenzio, questo viatico, vale a dire il tocco lieve e fermo della mano che
ho dichiarato in apertura essere tratto distintivo della poesia di Cristina
Bove. È un tratto semplice perché sceglie termini ed espressioni d’uso comune,
e insieme complesso, perché sul significato dei termini di uso comune riflette,
con piglio divertito e severo, piegando e dispiegando, mostrando e dimostrando
che oltre l’uso comune si può andare, a patto che, appunto, lo si sia
attraversato, con sguardo lucido, volontà e capacità critica.
Se
il viatico è un tocco lieve e fermo della mano, il viaggio non teme di andare a
fondo e di affrontare, nel tendersi oltre la soglia dell’immediatamente
riconoscibile – e si torna qui alla dimensione ‘meta-“ – ciò che è ‘oltre’, che
si pone ‘al di là’, ciò che nella vita
di superficie, nella ‘esistenza di galleggiamento’ viene accuratamente evitato,
cancellato, ignorato e dunque, non senza una non più ingenua e senz’altro
sbrigativa superstizione, taciuto. Il
passaggio a questa altra dimensione della conoscenza attraversa, e non salta a
piè pari, esperienze dolorose di perdita, di allontanamento dal rassicurante,
di divisione, di lacerazione e di «parole inferte». Un’esistenza di frontiera,
questa, che è resa con andamento dei versi e termini che non temono il salto di
tonalità – l’uso comune della lingua è affiancato da termini di minore
frequenza, inusuali, ma mai inseriti per il mero fine dell’effetto ricercato,
del preziosismo a tutti i costi – e il chiaroscuro spiazzante all’interno della
composizione. Chi è l’io lirico? Acheronte il traghettatore, la fanciulla che
in volo scopre verità, Dorothy dal Mago
di Oz, la donna «dal dolore contratto», il fabbro che «spezza faville» (e
che dà corpo al felice sospetto che l’associazione tra favilla e favella, tra
lo spezzare faville e solcare favelle non sia soltanto efficace analogia, ma
intento programmatico), colei che per una volta sceglie di essere Criptica, oppure colei che «da tempi infiniti»
reca fiori? L’io lirico è tutti loro, ed è, ancora, qualcosa di più: assume
forme molteplici – tratto questo che è proprio della poesia di Cristina Bove,
come ebbi occasione di affermare a proposito della sua precedente raccolta Mi hanno detto di Ofelia – e si
manifesta, come recita il titolo del romanzo di Cristina Bove, come Una per mille. L’intima coerenza, nel
perenne mutamento e nell’attraversamento come valore che non esito a definire
etico, sta nel tendere alla luce, nella ricerca, e non di rado nella percezione
netta, di quello che il poeta Michael Krüger chiamò in una sua raccolta “il
coro del mondo”. Raccolta del residuo, di ciò che altri scartano (“ma ciò che
resta…” di Hölderlin risuona nelle orecchie) e contributo vivissimo a una
nuova, insospettata armonia che si libra e libera; a chi legge non resta, ed è
tanto, che accogliere l’invito che conclude la poesia Di voli e altri viaggi: «Non
fatela atterrare / portate via il frastuono / ha il sonno lieve / anche il
frusciare minimo la desta. / sogna di porti e navi / di biglietti per dove».
©
Anna Maria Curci
Parole inferte
Sotto la chioma bruna
che parla in strato sferico
riferimenti in sovran_numero
si calano le fronti corrugate
strade d'asfalto accelerando il passo
non il respiro, quello
rimane appeso al chiodo.
E sbeffeggiare chi la vita stringe
filo di ferro infisso tra le vertebre
a consentirle transiti di scarto
- ecco un bacino idrico -
la ninfa delle ellissi
di quello che non ha ferisce a morte
ché se appena si approssima d'un cielo
bavero di cristallo
termina l'alfabeto nella forra
e nel suo manto nero sfoga l'urlo.
Io sono qui, mi accosto con prudenza
perché ho paura d'essere ferita
la millesima volta.
E sì che vorrei essere un abbraccio.
(p. 18)
Donna
chissà...
Portale un guizzo di vita
una lama diretta nel centro
a infilzarle pensieri
una lama diretta nel centro
a infilzarle pensieri
oppure a mormorii
di sé precipitando che le strappa
il vestito
il chiaro-luna pelle
l'ansimo di un'ora resa insolita
se ti trema la voce
poi non chiudere a sassi l'apertura
non trafiggerne l'ombra.
le mani te le rendo
non sono indispensabili al morire.
(p. 21)
Acherontia
Allora ti avvicini con la bocca
alle cose sentite dire altrove
che non sono le tue
raccogli cenci
spolveri le travi - i ragni li farai infelici -
spolveri le travi - i ragni li farai infelici -
e se
pronunci ancora altre parole
otterrai
sei monete e due lustrini
di
fandonie sgargianti
tu non
conosci decerebrazione
l'essere
solo corpo - il pesce anfiosso -
il suono
delle cellule che cade
transitorio
giù per
accenti tonici
emerge da
cunicoli
deflagrando
crisalidi - l'atropa sfinge -
separata
ristagna e si nasconde
sotto
lemmi e cifrari
l'anima
mia
per un
destino d'ali.
(p. 32)
Almeno
chiedersi
Ci sono tombe in cielo fatte di fumo
tante hanno misure piccole
portano solo nomi illeggibili
sono però nel cuore delle stelle
conservano la cenere degli uomini
i loro corpi mutilati e offesi
madri svuotate di bambini a sangue
c'erano scarpe a tonnellate
fuori dai forni, denti
occhiali una montagna
e ceste di capelli
prima d'essere fumo li spogliarono
d'identità e di pelle
chi scuoiava, conciava, a chi pareva
logico
fare d'esseri umani suppellettili?
Più delle sentinelle
dei cavalli di frisia
del gelo e della fame
li uccise chi
non vedeva orrore
in quei bambini ossuti
strappati dalle braccia delle madri
chi non provava pena
per i corpi indifesi nella neve
e che li raccoglieva
per gettarli nel fuoco e nelle fosse
quelli per cui la strage fu normale.
Di quelli ancora è pieno il mondo
brandiscono randelli
e vorrebbero forni da sfamare.
(p. 40)
Criptica (della quale non do spiegazione)
S’inceppano
dentro
ehm… colpi di
tosse e un sorso
a mandar giù
rospi di maggio
ma solo
perché è maggio
se fosse
stato agosto
rospi
d’agosto.
Ti prende
alla sprovvista
al nord dei
desideri
iperborea
presenza
- sapresti
mai di me se non sentissi
il vuoto
dell’assenza?-
esisto in
quanto sono una mancanza.
Si arresta al
filo dell’ascolto
chi non
conosce la parola giusta
e crede che
una capra
campi di più
sopra la panca
o che le
fisarmoniche soffrano di raucedine
e la natrice
senza sibilare
rimanga nella
nebbia.
(p. 46)
Di
voli e altri viaggi
Una corazza d'anni arrugginiti
o cavalli di frisia
a protezione della carne tenera
si potrebbe spacciarla per culla
infiocchettarla di violamammola
e tanto per
appuntarle due spille a fior di
labbra.
Gradisce la signora
nastri di taffettà?
E chi lo sa, se poi sfatta di cera
a una candela basta uno stoppino
- evitare tragedie, un piccolo
bruciare
a colar via -
e la vedete infissa
dal millenovecentosessantuno
a volo d'angelo.
Non fatela atterrare
portate via il frastuono
ha il sonno lieve
anche il frusciare minimo la desta.
Sogna di porti e navi
di biglietti per dove.
(p. 48)
Donne
A quelle donne di meraviglie e fiori
quelle che silenziose fanno andare
casupole e favelas, figli portati
sulle
spalle chine, lana pungente sulla
pelle
dita affondate negli inverni
donne dismesse a ricamare perle
e chatouches per quelle fortunate.
Donne dai pianti occulti per i figli
perduti,
donne dalle carezze rassegnate
sulle deformità dei loro nati e quelli
d'altre.
Vanno con passo celere
più avanti della vita
più pietose del quadro sugli altari
che spiega nel suo ebete sorriso
quanto non fu mai loro e di quei figli
abnormi,
l'opposto dei bei riccioli dipinti
e lineamenti rosa.
Donne delle catene di montaggio
recluse per un tralcio di mimosa
donne dei mille passi nel deserto
per un una goccia d'acqua
donne a scacciare mosche dai sorrisi
dei loro figli condannati a sete.
Donne vendute
donne vilipese
Qui ci piangiamo addosso
per uno specchio rotto, una sedia
tarlata
solitudine in versi che dovrebbe
consacrarci poeti
roba che non soccorre i derelitti
che non reclama l'equità dovuta
e niente fa per togliere al potente
quello che ruba ai miseri.
Donne di ceri e cere
prigioniere d'inganni, occhi cuciti,
che al prete per figliare e per morire
pagano sempre il truogolo e
l'ingrasso.
Spossessate del corpo, incubatrici
di vittime innocenti.
Madri di stupratori e santi
donne comunque e sempre.
(pp. 50- 51)
Guardami
potrei
anche non esserci
nel
buio sono o non sono
come
il famoso gatto di Schrödinger
esisto
solo se qualcuno osserva.
La
logica dei quanti
sarà
pure dei tanti compassati cervelli
espressa
a formule
le
nonmisure mie sulla lavagna
e_vasi
comunicanti
per
una fenditura
sangue
a con_fondere
ti
prometto quel bacio di carbonio
diamante
a mezzanotte
solo
se ti soffermi
alla
sua luce.
(p. 57)
Di una poesia della raccolta, Dorothy e il mago, esiste una versione
in tedesco:
Dorothy
e il Mago
Non gridare se nasci d'autunno
se la tua voce è traccia del vissuto
la città di smeraldo ha le sue tane
e non temere il freddo sulle vie
battute dal maestrale
vieni a braccia distese
portami ombrelli rosa d'artemisia
ti disegno col dito nelle fragole
i contorni di Oz
e tu da quel velario che separa
giorni di grigio dalle luminarie
scrivimi fiabe a margine
ti leggerò le labbra
e basterà.
Di una poesia della raccolta, Dorothy e il mago, esiste una versione in tedesco:
Dorothy e il Mago
Non gridare se nasci d'autunno
se la tua voce è traccia del vissuto
la città di smeraldo ha le sue tane
e non temere il freddo sulle vie
battute dal maestrale
vieni a braccia distese
portami ombrelli rosa d'artemisia
ti disegno col dito nelle fragole
i contorni di Oz
e tu da quel velario che separa
giorni di grigio dalle luminarie
scrivimi fiabe a margine
ti leggerò le labbra
e basterà.
Dorothy und der Zauberer
Schrei nicht, wenn du im Herbst geboren wirst,
wenn deine Stimme Spur des Erlebten ist
die Stadt aus Smaragd hat ihre Höhlen
und fürchte dich nicht vor der Kälte auf den
vom Mistral gepeitschten Straßen
komm mit ausgestreckten Armen
bring mir rosenrote Schirme aus Beifuß
wenn deine Stimme Spur des Erlebten ist
die Stadt aus Smaragd hat ihre Höhlen
und fürchte dich nicht vor der Kälte auf den
vom Mistral gepeitschten Straßen
komm mit ausgestreckten Armen
bring mir rosenrote Schirme aus Beifuß
ich zeichne dir mit dem Finger in den Erdbeeren
die Umrisse von Oz
und du aus dem Vorhang, der Tage
aus Grau von der Lichterflut trennt,
schreib mir Märchen am Rand
ich werde dich von den Lippen ablesen
und das wird reichen.
die Umrisse von Oz
und du aus dem Vorhang, der Tage
aus Grau von der Lichterflut trennt,
schreib mir Märchen am Rand
ich werde dich von den Lippen ablesen
und das wird reichen.
Cristina Bove, da: Metà del silenzio, Pibuk 2014, p. 30
(traduzione in tedesco di Anna Maria Curci)
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