Visualizzazione post con etichetta recensioni. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta recensioni. Mostra tutti i post

martedì 21 gennaio 2014

Guido Mura

Romanzo di Cristina Bove
Romanzo di Cristina Bove
Una per mille
di Cristina Bove
Edizioni Smasher
http://www.edizionismasher.it/cristinabove2.html
Narrativa
ISBN 978-88-6300-098-6
Prezzo € 12,00


Libro molto particolare, questo di Cristina Bove, in cui la complessità del pensiero non diventa mai ostentazione sussiegosa (il che per chi scrive versi è una caratteristica rara). Ne è spia l’adozione di un linguaggio che, senza rinunciare all’uso di termini colti e di riferimenti culturali, si colloca spesso in una dimensione spontanea e popolare, con un atteggiamento colloquiale che ricerca volutamente il contatto con il lettore.
Il romanzo, se così lo vogliamo chiamare, riflette molto bene la personalità di Cristina, come emerge dalla sua ormai vasta produzione poetica. Capace di improvvisi guizzi di genialità, decisamente originale, ma anche fondamentalmente anarchica, almeno in apparenza. Personalmente apprezzo molto questo coraggio della diversità, questo voler essere spontanea fino allo spasimo, questo voler esprimere se stessi senza preoccuparsi troppo del giudizio dei critici più tradizionalisti.
Così certo, non si può richiedere alla prosa di Cristina assoluta uniformità e coerenza strutturale. Bisogna accettare le sue improvvise tirate, non raccontate dalla bocca di un personaggio, ma spesso introdotte da un intervento quasi saggistico del narratore.
Ma, a una lettura più attenta, non sfugge che il caos contenutistico e temporale è, nella realtà, un caos strutturato e che osserva le sue leggi. La molteplicità, che già si intravede dal titolo, si manifesta invece come una sorta di dualità, tra un io esterno, che percepisce e descrive, e un io oggettivo e calato nel tempo e nello spazio, che si lascia percepire e raccontare. Come potrebbe il narratore esterno, che si colloca in un eterno presente, seguire un ordine temporale preciso e ricomporre i frammenti di vita e di pensiero in una struttura saggistica o diegetica troppo condizionata dal nostro sentimento dell’ordine e della simmetria?
E allora dico a me stesso che per affrontare libri come questi bisogna avere il coraggio di abbandonare i preconcetti del critico o dell’editor nei confronti del romanzo, che viene ancora considerato come una struttura immutabile e sacra, un po’ come la forma-sonata nella composizione musicale ottocentesca. Il romanzo qui è insieme narrazione, autobiografia, ma anche pamphlet, saggio, cronaca, denuncia: è un’insieme ricco, anche troppo, e rimane una valida testimonianza di una vita e di una società. Ma non è quello che in fondo chiediamo da sempre alla buona letteratura?

mercoledì 27 febbraio 2013

Recensione di M. Carmen Lama




scansione0087(1)

“Mi hanno detto di Ofelia” è un titolo assai intrigante per questa nuova silloge di Cristina Bove, che sembra sempre essere giunta all’apice del suo discorso poetico e invece constatiamo che con ogni sua nuova opera l’apice si sposta indefinitamente e si rimane con la sensazione (di per sé piacevolissima) di un’illusione ottico-mentale, anticipatrice di nuove attese… in un crescendo che non ha mai fine.

Ofelia è un personaggio tragico, una donna immersa nel fiume della sua vita-morte, del cui dramma viene a conoscenza l’amato-amante Amleto, ma solo quando questo si è ormai consumato. E lo stesso Amleto non ha consapevolezza della realtà della donna e dell’accaduto, né di se stesso. Cristina Bove entra perfettamente nel personaggio di Amleto per mostrargli la sua in_coscienza di uomo, mentre gli fa confessare di aver saputo della tragedia di Ofelia ma di non credere, o meglio, di non sapersi decidere a credere alla realtà del fatto e della stessa vita-morte dell’amata, personaggio nel quale pure la poetessa si identifica, con lo scopo implicito di rappresentare simbolicamente il destino tragico che la donna in quanto tale molto spesso subisce.
Dare voce alle donne attraverso le sue poesie, è una funzione che Cristina svolge con profonda empatia, e dare spazio ad Ofelia già nel titolo di un’opera in cui molte sono le poesie che attraversano la fatica dell’essere donna, in una società e in un mondo monco, è una scelta simbolica forte.
Diventa per il lettore una prima chiave di lettura dei testi poetici presentati in questa raccolta.

Ma ci sono altre aperture, così come ci sono altri incontri con la stessa anima poetica di Cristina Bove.
Non è semplice trasferire in una poesia il proprio sentire, facendosi nel contempo carico di rappresentare un vissuto che appartiene anche ad un universo più vasto del proprio.
Ma l’opera poetica di Cristina è una fucina in continua evoluzione, dove la regia sapiente della poetessa consiste nel creare sempre nuove forme con un materiale di base reso duttile dalle sue stesse idee. L’uso del linguaggio, infatti, è sorprendente sia per gli accostamenti lessicali arditi,  sia per le immagini originali composte, sia per le atmosfere che può respirare chi oltrepassa la soglia del suo laboratorio poetico.
Ed è proprio grazie a questo sperimentare sempre nuove forme che la poesia di Cristina emerge.
La sua ricerca è incessante e profonda, il mondo che scandaglia è quello invisibile ai più, ma che a lei semplicemente si mostra, richiedendole soltanto un’immersione, come in apnea, e un ascolto attento della vita che nel profondo della psiche e del mondo si svolge.

Questa fondamentale caratteristica del lavoro poetico di Cristina, comune soltanto ai veri poeti, è una modalità legata alla ricerca della coincidenza, e quindi dell’unità, tra l’essere e la realtà.
Soltanto nella visione poetica (o nel sogno) quest’unità può essere vissuta come tale, ma è necessario successivamente risalire in superficie, (o destarsi dal sogno) per rielaborare la visione.
Trovarsi immersi in una sorta di atemporalità, in un’assenza di tempo, fa sì che all’essere proprio si restituisca la “purezza” originaria, che coincide con l’assoluto, ed è questa l’unica condizione in cui per pochi istanti si vive la realtà così come essa è, con_fusa con l’essere, unità assoluta che soddisfa la ricerca poetica.  
La poesia salva l’invisibile che si mostra per qualche istante. E l’invisibile è come un fantasma, intercessore del tempo, che appare per un momento, prima che la corrente del fiume del tempo lo trascini via, solo per un istante, poiché non è sua natura il durare, l’estendersi nel tempo, perché questo lo altererebbe nel suo “essere”. Può tornare, sì, ma se si ferma un istante lo fa per ottenere l’unica cosa che può salvarlo: essere fissato in un istante perenne. Ed è proprio quest’azione del fissare l’istante, la visione fugace, quello che si richiede al poeta e quello che Cristina Bove fa con le sue poesie. Un sogno o una visione possono essere salvati, rendendoli visibili, facendoli entrare nel mondo della realtà che è quella del tempo, quindi attraverso la rielaborazione cosciente del risveglio, del ritorno in superficie, e della presa di coscienza di quel che è stato e della scrittura poetica.

Tale condizione si addice ad ogni essere umano, ma molto spesso (e comunemente)  non si è capaci di discendere nelle profondità della propria anima, né di ascoltarne i richiami o di decifrarne i messaggi, neppure quando nella totale inconsapevolezza sono i sogni ad alimentare la nostra psiche.
Per il poeta invece è un aspetto imprescindibile e lo è tanto più quanto più si affina la sua sensibilità. Diventa, alla fine, il suo habitus psico-mentale. Ed è anche, possiamo dire, la realizzazione del sé. Che però non è mai finita, mai definitiva, se ci atteniamo a quanto, in merito a ciò, ha chiaramente espresso Maria Zambrano in tutto il percorso filosofico del suo pensiero.
Ogni essere umano ha bisogno di rinascere ogni giorno, e compie questa sua rinascita attraverso il risveglio dal sogno e la rielaborazione dello stesso o, per il poeta, attraverso la rielaborazione delle sue visioni dell’invisibile, della ulteriorità del reale, o, in altri termini, attraverso l’intuizione della trascendenza di tutte le cose, degli esseri umani e dei viventi in generale.
Cristina Bove, a mio modo di vedere incarna al più alto grado l’essenza poetica, perché questa coincide con il suo essere la persona che è.

Nelle sue poesie, in particolare in quelle di questa raccolta, si trova la sua anima dislocata, anche a piccoli frammenti, nei versi, nelle figure retoriche, nei ritmi, nella liricità.
Anche quando una poesia parla di cose minime, di oggetti comunissimi e che si potrebbero definire insignificanti, a maggior ragione per questo aspetto vi si coglie un frammento lirico perché l’anima abbandonata alle minimalia sembra essere rassegnata. E questa scoperta segna inevitabilmente l’animo di chi legge.

In poesie come Bora, Una ciotola, Huaca, Riflesso marginale, Sbalordire, Perché la resa, Minime (?) COSE, Per aspera, VERSO IL TACERE, Daojiao, Legend, Fuori dal campo, è eclatante questo sentimento di marginalità in cui si sente risiedere la poetessa, e la lettura dei versi, se rallentata al ritmo del cuore di Cristina mentre “sentiva” quello che ha scritto, conduce immediatamente nei dintorni di una con_divisione del sentire.
Non una volta, ma più e più volte, leggendo e rileggendo le poesie di Cristina_Ofelia, ho provato questo senso di vicinanza con la sua anima, con il suo sentire profondo, qualcosa che mi fa essere partecipe di una vita SubLIMINALE, interiorità sofferta e lirica, appunto.

Senza pretendere di esaurire l’analisi delle poesie di questa silloge in una breve recensione, vorrei tuttavia segnalare due poesie per me fondamentali per individuare il senso più autentico anche di tutte le altre, proprio perché le ritengo emblematiche di un sentimento vitale che in qualche modo è scosso dalla vita stessa che procede su binari non previsti o non auspicati, come spesso accade per chiunque. Si tratta delle poesie Porta e Di solitudini.
La prima: Riconobbi la soglia / una fotografia fatta di vento / lo riportava a me dall’infinito // Il camino era spento e la finestra / si spalancava sull’eternità // le distanze incolmabili generavano spazio / su gradini sbreccati ero seduta / di crepa in crepa / a rattoppare il tempo.
La seconda: Alla tua solitudine lo posso raccontare / dei miei pensieri cavi, e delle notti / calate sulle rive di soppiatto. / Tu la conosci, è specchio al tuo sottrarti / anche la mia / ch’è sabbia, neve, voli e / speronate a picco. // A te lo posso dire, fatta di nebbia io sono / quindi nei vuoti d’aria m’abbandono / per una tregua minima / se vuoi / tu che ti specchi nel mio nulla / puoi, nella forma del buio, / porgere la tua mano alla mia assenza.
Non occorre commentare, credo. La bellezza e il senso di queste due poesie confermano (ovviamente, per me) il messaggio che ho recepito, sotteso nel complesso di tutte le poesie della silloge, e che ho cercato di esplicitare con questa recensione.

E in conclusione di questo breve resoconto della “mia” lettura della silloge Mi hanno detto di Ofelia, vorrei sottolineare, se ce ne fosse bisogno, l’eleganza dello stile di Cristina Bove, l’originalità e la personalità di ogni suo componimento, che inutilmente ci si sforzerebbe di incanalare in una qualche corrente poetica.
Sono poesie, le sue, frutto di un vissuto di immedesimazione nella vita di tutti i giorni e nella vita sociale, umana e universale, frutto anche di una cultura molto ampia che affiora in molti modi, e frutto di una sensibilità fine, di un’intelligenza intuitiva straordinaria, di una generosità insita nel DNA del suo animo che le rende molto naturale darsi, attraverso le poesie, agli animi sensibili dei suoi lettori.



27 febbraio
M.Carmen Lama 

domenica 24 febbraio 2013

recensione di Simonetta Bumbi


Quando la poesia


scansione0087(1)

c’è una parola, nella prefazione, che m’ha colpita subito, ma ho continuato a leggere senza darle troppa attenzione. poi.
poi, man mano che i versi mi disegnavano storie e raccontavano i vari passaggi della pelle su cui la poetessa si sostava, quella parola s’è fatta sempre più prepotente.
eleganza.
dalla prefazione di anna maria curci: “…e l’eleganza che unisce talento innato a sapiente e originale rielaborazione è tratto caratteristico di tutti i componimenti…”
ecco, è vero, e l’ho detto a me stessa spesso, dopo.
cerco sempre di non lasciarmi coinvolgere dalla conoscenza di chi è dietro, a un libro o un disco, quando devo dire il mio pensiero, ché  credo l’onestà sia lo specchio delle dita, un po’ come quando stringiamo la mano a qualcuno con energia, quasi volessimo trasmettere tutto il piacere di quell’incontro.
ecco, incontrare cristina bove attraverso il profumo della carta stampata, è un rinnovare il piacere che si prova mentre la si legge nel virtuale, ché riesce a trasmetterti tutti i suoi voli terreni con ali d’anima, e sia che si pianga, si sorrida o si attraversi solo un sogno o un incubo, c’è sempre il desiderio della bellezza che esplode come un’impollinazione.
non è voluta, è innata nelle righe che scorrono e pian piano si manifestano. e restano.
il suo componimento “Sbalordire” termina con questi versi: “…una teiera bianca…”
ecco, una semplice immagine scolpisce la sua porcellana, e le sue poesie sono di questa materia. e calde, come i suoi incontri vissuti, proprio come il bianco che sa disegnare, sempre e comunque, l’eleganza.
lei è ovunque, ed anche loro, che possiamo essere noi vestiti da personaggi incontrati, e nei suoi viaggi tutto è collocato nell’universo naturale che la circonda, come ad esempio “…il sole nell’ampolla dell’aceto…” ( da “Minime (?) COSE“) o “…bevevo la luce dal turchino…” (da “Sherifa“).
Chi legge è invitato… a seguire vene sotterranee erroneamente date per esaurite, a percorrere traiettorie divergenti dal canone consolidato, anche da quello che l’epidermica impressione può far percepire come inusuale e innovativo e che troppo spesso, nella poesia contemporanea, non osa oltrepassare la striminzita e logora tessera del canovaccio pseudo-ermetico-essenziale.” (dalla prefazione).
sì, mi sento di condividere appieno le parole sopracitate, e quelle a seguire della post-fazione di francesco marotta: “…tutte “emersioni” a fior di lingua di un implacato fluttuare inconscio, del lento, persistente trascorrere di una materia che è già “oltranza”. Cioè: poesia.”
a chiusura non posso che…passare “la lingua intorno all’orologio”, ché nulla si chiude del tempo goduto…
simonetta bumbi

sabato 23 febbraio 2013

Recensione di Fernanda Ferraresso


Lungo il corso della parola e tra i rami di Ofelia che ancora là fiorisce


Prima delle note sul libro, che oggi presento, una piccola riflessione necessaria, secondo me, per trovare chiavi che sfuggono. Quando infatti si ha l’età di Cristina Bove, e non mi riferisco all’età anagrafica comune ma a quella dell’anima o del demone  interiore, che dunque è inconteggiabile, non si può non contenere l’universo negli occhi, nelle mani e nelle parole. Non posso, dalla distanza da cui a lei mi sento prossima, non vedere quanto con mano ferma tratteggia nitida, apre, spacca e riconduce in luce ed è ciò che è e significa la nostra presenza su questa galassia di abusi, di sconcezze, di infime lordure con cui si cancella l’umanità, in lei ricchissima e irrinunciabile, ma anche di non trangugiabile bellezza. La sua capacità di prendere tutte le erbe del prato e farne un grande mazzo di più voci e suoni profondi, la sua innata e matura abilità di ridere dell’ottusità, delle nostre pochezze oltre ad uno sguardo che irradia la sapienza della semplicità, derivata da una cultura profonda, fa della sua scrittura un polimorfo mondo in cui infero e magnifico riflettono le loro sostanze in ogni forma e sfaccettatura. E’ proprio con questa chiave che ho aperto e percorso tutte le stanze del suo ultimo libro MI HANNO DETTO DI OFELIA, per le Edizioni Smasher. Un occhio particolare meritano anche i trucchi, i salti, persino le interpunzioni che, spesso, sembrano le giuste punizioni per il lettore rapido, che vorrebbe correndo passare oltre,  mentre serve fermarsi, serve chinarsi, a volte scivolarsi dentro, per sentire tutto quanto ha da dire la parola, che altrimenti morirebbe, nel corso di una liquidità senza sostanza, sperdendosi nell’acqua torbida, nell’indifferenza.  Genesi e apocalisse stanno in queste pagine come ramificazioni del pensare dire fare quotidiano, e sono letture che Cristina Bove riprende dagli eventi di cui partecipa con reale profonda compassione e dalla storia. Pathos è per lei sinonimo di qualcosa che non lascia tregua e non confonde il sentire, anzi lo accuisce, ne appuntisce ogni pennino ricadendo in scrittura poetica, non in parola da vetrina o parola in vendita.

fernanda ferraresso

martedì 11 maggio 2010

recensione di Elisabetta Mori


L'armonia e l'effetto: la poesia di Cristina Bove




Cosimo Ortesta, uno dei più affermati poeti della fine del secolo scorso, una volta mi scrisse che in poesia "l' armonia non conta, conta l'effetto", la consapevolezza che l'armonia e la disarmonia della vita deve tutta bruciare, esaurirsi nell'effetto, nella forma -una particolare inconfondibile forma- l'unica cosa che conti, nella sua perfetta inutilità, se confrontata alla vita.

Non è il caso della poesia di Cristina Bove.



In "Attraversamenti Verticali" una sapiente e personalissima alchimia permette all'immagine poetica di giungere in superficie, si presenta con i suoi segni i quali incidono ma non svelano del tutto la comprensione dell' occulto, ciò che deve rimanere, semmai, chiaro solo alla poeta. Il risultato è un equilibrio stabile tra armonia ed effetto.

Nella ricerca costante del proprio Sé, la Bove appare in armonia con la vita e con la morte, con lo spirito e la materia, con ciò che fu e ciò che sarà, prospettiva di un continuum spazio-tempo eterno, tra ieri e domani.

E i temi sono quelli universali, l'appartenenza è del creato, animali piante e umani verso i quali la poeta volge il suo sguardo colmo di pietas, consapevole del comune destino:


L'olivo dalla chioma d'argento mi somiglia
solo che esisterà ancora
quando dalle mie ossa nemmeno la polvere
potrà nutrire le radici.


E lo saprò
che il tempo di una vita
sia tralcio foglia o frullare di ali
è soltanto un momento, irripetibile.

("Durata", da Attraversamenti verticali, edizioni Il Foglio, 2009)



Un effetto di circolarità sprigiona dai versi della Bove, tenuti insieme dallo stesso comune denominatore, il ritmo, una musicalità costante con l'endecasillabo spesso a fare da cornice. Ma non sfugge agli occhi del lettore attento, la ricerca del meraviglioso [secondo l'accezione di Todorov], la rappresentazione di una realtà desiderata che stia tra il possibile e lo strano e la parola che esce, dirompente, dalla materia:


Al posto di vedetta, nella dura scorza,
abbozzo d'angelo tratto dagli scalpelli
e dalle sgorbie a forza di deliri
io non ho pianto a dilavare scabre superfici
di granito o di lavica roccia
è nel mio interno il nucleo sasso


l'andirivieni è fuori
è tra le foglie camelie morte...

(Sabbia, da Attraversamenti Vericali, ed Il foglio, 2009)



E spesso il fantastico, legato a ricordi primordiali, prende il sopravvento


Ne raccontiamo forse le cocche
noi che a metraggio
ci avvolgiamo in rocchi
oppure in disarmo
di pepe, paprika, zenzero candito
lecchiamo falde e nocche dal sapore
d'aceto.
Mi apparto per decidere se vado
con zoccoli di paglia
oppure m'incarrozzo nella zucca
e oop
stelle e coriandoli
pioggia di cenerentole in pigiama
affollano il mio prato...

(Minima, da Attraversamenti Verticali, ed Il Foglio, 2009)



La fusione di uno stile personalissimo e la necessità di uno sperimetalismo linguistico che cambia registro, dà vita, in Attraversamenti Verticali, a un variegato percorso poetico che tiene conto dei diversi livelli di lettura e che la Bove porta avanti con la prospettiva di ancora nuove vie da sperimentare: perché la poesia sempre precede, solo essa conduce, e non si sa dove e quando l'avventura tra simboli e suoni troverà quiete.




Cristina Bove è nata a Napoli e vive a Roma. Pittrice e scultrice [arti nelle quali eccelle] ha pubblicato tre raccolte di poesia, tutte edite da Il Foglio

sabato 31 ottobre 2009

recensione di Carmen Lama


Attraversamenti verticali
di Cristina Bove
- Il Foglio ed. -

Attraversamenti verticali dell’universo per scandagliarlo nelle sue infinite possibilità di enigmi e misteri, con la speranza di coglierne qualche minimo barbaglio?
Oppure, più semplicemente, ricerca accurata, a partire dalla propria esperienza, del significato dell’esistenza umana, di cui poter cogliere almeno i tratti essenziali?
In un caso e nell’altro, la ricerca della Bove non si presenta affatto come esercizio mentale semplice e non approda (non sarebbe possibile!) a risultati definitivi. Questa consapevolezza è così forte e profonda che passa nelle poesie sotto forma di struggimento, di melanconia, di incompiutezza, di quasi rassegnazione, a volte. Ma con il sottile intendimento di “tornare alla carica” prendendo vie nuove, cercando di scavare più a fondo, per giungere al momento in cui le cose, le parole, gli uomini e le loro caratteristiche essenziali hanno origine, come per poterne poi seguire passo passo l’evoluzione e comprendere così il perché di ogni cosa, di ogni fatto, di ogni comportamento. Ricerca filosofico-poetica a tutto tondo, insomma.
L’evidenza è però sempre velata da qualcosa che non permette di comprendere per intero, c’è sempre uno scarto tra quel che appare e quel che è. E ciò è tanto più vero, quanto più l’oggetto della ricerca poetica di Cristina è rivolta alla psiche umana, alle emozioni che danno vita ai sentimenti, talvolta così imprevedibili, talaltra così contradditori, oppure del tutto inspiegabili sotto il profilo logico, eppure così reali e profondi da costituire l’unica possibilità di esistenza per chi li vive.
Trattandosi della terza silloge poetica di Cristina, le considerazioni fin qui svolte possono ritenersi più che plausibili, in quanto, proprio con questa nuova raccolta, la Bove dimostra di stare costantemente in allerta, sul filo della continuità della sua ricerca, ma ora con nuove modalità espressive, con nuovi strumenti di indagine che le permettano un’analisi sempre più fine, sempre più approfondita.
Analizzando più da vicino le singole poesie, cominciamo a trovare una conferma di quanto sopra accennato, già a partire dalla bellissima Attraversamenti verticali, a cui fa da contrappunto Impermanenza.
Nella prima, viene utilizzata un’efficacissima metafora tratta dalla scultura, (altra arte in cui Cristina eccelle), per parlare del corpo come “modello a cera persa”, contenuto in un incavo (il calco) da cui ricavare l’impronta: ma è difficile estrarre la vera forma (come dire, l’essenza) dell’essere umano che, quanto più si sente in qualche modo minacciato nella propria interiorità, tanto più la difende contraendosi sempre più fino a mostrare solo la punta della fiamma (della propria vita, la parte più superficiale), attraverso la luce degli occhi. Ma è un lampo, un istante, e poi si ritorna a nascondere il proprio nucleo, il centro della propria anima, o così sembra agli altri, che non osano palesare nemmeno a se stessi l’incapacità di cogliere la vera essenza umana. E se qualcuno volesse credere d’aver compreso nel profondo l’altro da sé, sappia che di sola immagine riflessa (lune dipinte…) si tratta, sembra voler dire la poeta con gli ultimi tre versi, mentre continua a sentire la propria unicità, fluttuando lenta nell’ondeggiare delle poseidonie, incurante (e quasi compiaciuta) di non mostrare agli altri in modo completo il proprio vero sé. Qui si potrebbe forse anche intercalare un’interpretazione che mette in evidenza una sorta di inevitabilità: attingendo alla psicologia di Joe Luft e Harry Ingham, entriamo metaforicamente in uno dei quadranti della finestra detta di Johari (dalle iniziali dei loro nomi) e scopriamo che c’è una parte di noi che anche volendo non potremo mai svelare agli altri perché è ignota anche a noi stessi, ed è il nostro inconscio, che pure agisce in noi a livello profondo.
In questa poesia sono anche bellissime le immagini utilizzate nelle tre strofe e seguendole, attraverso le espressioni poetiche e metaforiche che le rappresentano, con un’analisi ancora più ampia di quanto abbiamo fatto con il primo scandaglio, sembra quasi di vedere i movimenti di questo corpo che si trova “costretto” in una forma che non ha scelto e da cui cerca quasi di divincolarsi per assumerne una più completa (nel cammino dell’esistenza, ogni essere umano cerca di migliorare, aspirando a realizzare la propria maturità in un modo che sia per sé sempre più soddisfacente), salvo mostrare la propria vitalità nel breve giro di boa dell’esistenza (sboccio come fiamma dalla brace) per spegnersi poi nella sabbia sul fondale. E qui riprendendo e continuando in altra forma la vita.
In quest’altro senso, ancora più complesso e direi, ancestrale, la poesia trova il suo completamento nella seconda indicata più sopra e che già dal titolo indirizza il lettore verso il significato: Impermanenza, infatti, è una qualità riferita al corpo, alla materialità dell’essere umano, che sperimenta la sua scarsa maniera di consistere, un’approssimazione per difetto e s’infila di sbieco nella storia, soffermandosi almeno un giorno a credere di essere, di stare, senza accorgersi invece che è tutta un’illusione, che il corpo è un’apparenza.
Sembra di ripercorrere qui la ricerca schopenhaueriana della distinzione tra il fenomeno, ciò che appare, e il noumeno, ciò che è la vera essenza, quest’ultima sempre nascosta dal velo di Maya, cosicché l’illusione si perpetua facendoci credere vero ciò che invece è solo mera apparenza.
Ho intenzionalmente mostrato il senso di queste due poesie, analizzandole per prime, perché questo senso filosofico dell’esistenza si ritrova poi sotteso in molte altre poesie nelle quali il contenuto è di tutt’altra natura: proviamo, ad esempio, ad entrare in Simbiosi con la natura, come fa Cristina costruendosi il suo attico in cima ai rami di un albero, da cui vedremo anche noi avanzare il nulla e non potremo far altro che racchiuderci dentro la nostra forma (che è umana e di albero nello stesso tempo, perché in questo ci siamo identificati simbioticamente), e sentire soltanto il respiro dell’anima, in attesa….
Così, ci accadrà di non essere compresi neanche da chi, pur essendoci stato vicino tutta la vita e pur potendo attingere ai ricordi, non se ne può servire a questo scopo, in quanto incapace di scrutare nel nostro nucleo più profondo, ha Lo sguardo altrove, esattamente come chi, dell’albero, vede solo la corteccia e invece ignora il suo modo di crescita, di cui solo gli anelli interni possono dar veramente conto.
In un’altra bella poesia, Vuoto, la Bove utilizza ancora la metafora dell’albero, ma questa volta assediato da rampicanti e piante parassite che si nutrono della sua linfa, lasciandolo sempre più vuoto: con questa immagine, ripercorre le sue sensazioni più intime, le sole capaci di ridestare la sua vitalità e di riempire il vuoto dell’esistenza, altrimenti visibile come abisso ignoto ed eterna solitudine.
Ancora riappare lo sfondo filosofico-esistenziale discusso più sopra, in una bella poesia d’amore, Accade, nella quale diventa possibile perfino toccare un sogno, accendere un sorriso tra le mani, pur non comprendendo il misterioso realizzarsi, vero, concreto, di questo atto. Infatti è la stessa poeta a sorprendersi per prima e ad essere contemporaneamente incredula e felice, tanto da esprimere l’audace desiderio che si potesse dipanare il sole (affinché permanga accesa la luce del cuore) / e che un prodigio tridimensionale / unisse due figure sul confine (passando dalla bidimensionalità del sogno, alla materializzazione e unione concreta dei due amanti).
In Capovolgimento, Cristina svela tutta la sua cruda consapevolezza che la verità si nasconde ai nostri occhi, proponendo di capovolgere la realtà per far sì che diventi quella che dev’essere, che i concetti significhino quello che si vuole con essi esprimere, e che anche il futuro si concretizzi nel modo voluto. Ma è solo un desiderio, ed è irrealizzabile.
E tuttavia, la poeta persiste nella sua volontà di mostrare la realtà dei sogni, ad esempio in un’altra bellissima lirica d’amore, SSSHHH, dove la descrizione dell’amato ha inizio con alcune titubanze, come se lei stessa non fosse del tutto sicura di ciò che vede.
Eppure, al minimo accenno di possibilità di considerare astratto l’amato, si erge a difesa della propria visione e lo rende così reale che lo si vede mentre con le sue campiture nette / ai quattro lati / nel giardino di rose a volte sbuca / e mi attraversa. Ride. Immagine nitidissima, quasi filmica.
Non è possibile esaminare nello specifico tutte le poesie, né sarebbe opportuno. Il farlo toglierebbe al lettore la responsabilità di comprenderle a suo modo, di seguire il suo intuito e la sua logica, forte del proprio background culturale che, solo, può aiutare a discernere il senso profondo di ogni creazione poetica.
Ma seguendo la scia segnata da alcuni argomenti che a Cristina stanno particolarmente a cuore, in questa come nelle sue due precedenti pubblicazioni, non si può lasciare sotto silenzio la sua attenzione alla sorte degli altri esseri umani, siano essi bambini, donne, o semplicemente gente comune che si lascia irretire da chi in vari modi sa indurre falsi bisogni, sa sacrificare gli altri a falsi idoli, sa impadronirsi della loro stessa anima: due esempi per tutte: Resto, e Velo. Quest’ultima particolarmente toccante, in quanto rivela come si possa del tutto cancellare un essere umano e la sua identità, spegnendo il nome sotto il manto. Qui è evidente il riferimento alla vessazione delle donne da parte di chi dovrebbe salvaguardarne in massimo grado la dignità.
Un ultimo accenno ad una lirica (Nulla da raccontare) in cui Cristina ripercorre un po’ la sua vita: da quando, ancora adolescente, credeva di non avere nulla da raccontare, a quando sopraffatta dal dolore e dalla sofferenza ancora credeva di non avere nulla da raccontare ma pregava che le fosse risparmiata la vita per potersi prender cura dei suoi affetti familiari, a quando scambiando versi poetici con altri cultori di poesia ancora credeva di non avere di suo nulla da raccontare, a quando finalmente ha sperato di poter avere tutto da raccontare a qualcuno che mostrava interesse ad ascoltarla, dovendo invece verificare che spesso la stessa vita si presenta in forma di metafora e il branco uccide a colpi di sorrisi: con un guizzo delicato quanto elegante, la lirica si conclude con un volo nel sole, cioè nella luce dell’esistenza, mettendo a frutto l’insegnamento dantesco (Inf. III, 51) del “non ragioniam di lor, ma guarda e passa”.
Una recensione che potesse dirsi all’altezza del libro che sta esaminando dovrebbe poter spaziare anche su altri aspetti che, in particolare nel campo poetico, sono ritenuti essenziali. E cioè, lo stile, la musicalità dei versi, l’originalità dei contenuti, il messaggio poetico, e quant’altro possa dar modo di comprendere che la lettura che si intraprenderà sarà stimolante e soddisfacente. Su tutti questi elementi invece non mi soffermerò, sia perché ritengo esaurita a questo punto la pazienza di chi sta leggendo queste mie riflessioni, sia soprattutto perché avendo recensito i due precedenti volumi di poesie della Bove, non farei altro che confermare la peculiarità del suo modo poetico di esprimersi, anche se mi piace sfidare il lettore a soffermarsi, da solo, nel modo e nel tempo che ritiene più opportuni, su quegli aspetti delle poesie qui non indagati, ferma restando la fiducia in ciò che ho all’inizio affermato e che ancora sottolineo: Cristina Bove, nelle liriche di questa raccolta, ha reso la sua ricerca poetica più sofisticata, ha sfruttato le sue potenzialità espressive ad alto livello, tuttavia mantenendo la sobrietà che la caratterizza come poeta e l’efficacia nella comunicazione delle sue emozioni più profonde, con l’umiltà che solo un grande poeta possiede.

Carmen Lama

giovedì 12 febbraio 2009

recensione di Orsola Hochkofler a

"Il respiro della luna"

Quello che mi affascina è l'animo umano, la sua evoluzione, le paure, i sogni. Credo di aver individuato che cosa mi prende nella poesia più di tutto:

l’animo di chi scrive.

Una poesia da sola in certi casi mi prende completamente ma non mi comunica l’essenza di chi dall’altra parte è stato spinto, da cuore e mente, a mettere le sue tracce su un foglio.



Ecco perché il libro di Cristina Bove ‘Il respiro della luna’ mi è piaciuto tanto …

La costante del suo essere integra e limpidamente pulita è palese ed è stupendo vedere i suoi passi, seguirla ed avere la conferma – anche se non era necessario per chi, come me, la conosce e stima – di quello che è.



Le sue poesie, ed intendo proprio tutte, sono molto profonde ed ognuna smuove qualche cosa.

Ho amato meno, per gusto personale, le ultime quelle con i versi cortissimi, pur essendomi piaciute anche quelle.



Il Bel paese … satira bellissima ed attuale più che mai, potrebbe essere letta da Dario Fo … credo la farebbe sua.

Alcune, stilisticamente più vicine, alla Cristina Bove che conosco meglio, sono quelle che mi sono arrivate più immediate (da Cantare ancora a sto percorrendo compresa) ma in questo istante faccio fatica a dirvi quale sia la più amata.

Adesso la sua scrittura ha un livello diverso ma non potrei dire superiore, solo diverso.

Si sente nell’oggi, una spiritualità – nulla a che vedere con la religione – più consapevole che è come sbocciata senza freni inibitori o veli.



Nel libro, quello che mi è balzato agli occhi, sopra a tutto, è la visione sociale di questa donna, attenta ad ogni più piccola sollecitazione: le donne, i figli, la politica, l’amicizia, l’amore. Tutto, ma proprio tutto.

Un bellissimo percorso, in un universo che ha la consapevolezza del suo essere femminile, da indossare come un gioiello dono dell’amato: la vita.



Credo che dopo averlo letto vi riterrete, come me, fortunati d’aver ricevuto questo dono.



Orsola Hochkofler

domenica 11 gennaio 2009

Recensione di Laura Costantini e Loredana Falcone





IL RESPIRO DELLA LUNA

silloge di Cristina Bove

Non è stato possibile scindere la poetessa dalla donna e dall’amica. Ne viene che queste poche righe, lungi dall’essere una recensione, sono piuttosto un omaggio ad una persona straordinaria che, nella poesia, sublima se stessa e il senso stesso della vita.
Se Fiori e fulmini aveva scavato un solco profondo nelle nostre anime Il respiro della luna ha lasciato in quel solco i suoi semi produttivi che hanno germogliato una riflessione sul tema portante di questa seconda silloge poetica: il passare del tempo.
Sono moltissime le liriche che vorremmo portare all’attenzione di chi ci legge. Ma non vogliamo togliere a coloro che amano la lieve sonorità dei versi di Cristina il piacere di fruirle nella solitudine della lettura.
Ne segnaliamo soltanto tre:
Nel cortile, racconta la tristezza di un’infanzia trascorsa tra le gelide mura di un collegio. … ed ora è tardi, in me sedimentata
ai confini di un tempo mai vissuto
se ne resta nascosta e rannicchiata
una bambina mesta, mai cresciuta
una bambina che non è invecchiata.
Candidi i miei capelli, suggerisce l’addio di una madre che lascia ai propri figli un’eredità morale.
… serberai nel cassetto con le tue
le mie poesie
te ne farai ricordo e testamento
sarai l’erede
delle mie parole.
In punta di piedi, è Cristina in versi, il suo modo di concepire la vita.
… ma è solo il morire di un’ombra
nel mentre mi stacco
con l’ultimo colpo
ti tacco. Poi spicco il mio volo.
Difficile, anche per chi come noi, è abituato a giocare con le parole, aggiungerne di nuove a quelle che Cristina ci ha donato. Rimane solo un consiglio: assaporate questo libro, lasciatelo sul vostro comodino e, di tanto in tanto, quando sentite che l’essenza della vita vi sta sfuggendo di mano, ripercorretene i versi e abbandonatevi al Respiro della luna.

Laura e Lory

sabato 10 gennaio 2009

recensione di Franca Canapini

IL RESPIRO DELLA LUNA


Visionario e femminile Il respiro della luna di Cristina Bove, dove Selene sorride di luce misteriosa e soffusa.

Ad accoglierci un colpo di tacco, su palcoscenico vuoto. La ballerina ha lasciato la scena; resta il suo respiro, una musica di metafore leggere nella quale ci sperdiamo.

Poesia dopo poesia, lentamente emerge la figura di una donna consapevole di sé:

bambina trascurata

“ quando scendeva l’ombra sul cortile/in fila indiana tristi e rassegnate”,

giovane fremente

“ ero fiume d’inverno/e nella piena/cavalcavo la terra/e il mio vestito d’acqua/era seta di luna/e gioia/e canto/”,

madre stupefatta

“ inginocchiata l’anima e sorpresa/da nubifragi e squarci nella mente/a provare l’effetto dei miracoli/vedersi fuoriuscire dalla carne/fiori pulsanti e vivi di respiro”

infine donna che riconsidera il proprio percorso

“ Raccogli le tue cose/questo è il tempo/di vestirti di tutta la tua vita/di rovistare il fondo dei bauli”. Il presente è il tempo della struggente malinconia di nidi vuoti,

”allora dentro un nido depredato/quattro pagliuzze al vento/lavoro di una vita/si sparpaglia/tra cucine disfatte e letti vuoti”

degli affetti consumati, degli splendori perduti; il momento dell’elegia “nello stremato tempo del declino”.

Talvolta l’anima, generosamente radicata nel sociale, esce dall’autobiografia per gettarsi con furiosa passione nella denuncia dell’ ingiustizia, e diventa angelo di mezzanotte

“raccoglierei il dolore degli umani/il loro pianto in una coppa d’ombra/il loro grido dentro un’arca nera/e trapassando nuvole e bagliori/ai piedi tuoi li deporrei/e ti rassegnerei le dimissioni/d’angelo disilluso dal divino”

mente razionale che considera come la razza losca dei predoni distorca il significato dei simboli religiosi;

donna dei nostri tempi, madre e sorella di tutte le altre “ cambiamo noi le regole/e il valore/facciamolo consistere nell’anima/insegniamo noi stesse altro potere/che non sia solamente possedere “



Questo in sintesi il messaggio dell’opera, ma molte altre suggestioni possiamo trovare nella silloge che va letta e riletta lentamente, per scoprirne tutte le sfumature emotive e coglierne in pieno la ricchezza.

Se ne esce portandosi nel cuore quell’eco di tacco, la traccia di una vita,”sparpagliata nel tempo/squinternata/smarrita nel pulviscolo”, la testimonianza di un’anima bella che ha compendiato la sua vicenda personale, inserendola nel tempo e nello spazio; e lasciandocene una luce, come di lucciola sfregata sul muro della vita.

lunedì 15 dicembre 2008

recensione di Morena Fanti


-->
Il respiro della luna Cristina Bove
Ass. Culturale Il Foglio, 2008
pp. 110, euro 12.00
Parte lentamente, con delicatezza di danza, questa nuova raccolta di Cristina Bove: “Accenno un giro lento / un cadenzato assorto paso doble / avvitamento / sul perno di me stessa …”, ma fin dall’inizio si percepisce nelle parole la sete di sapere, il desiderio di comprendere e approfondire i grandi temi della vita e i sentimenti che ci accompagnano nella scoperta e nel vissuto quotidiano.
C’è attenzione per le piccole cose, il senso e la misura in versi che scorrono come “quei giorni uggiosi / che la tenda del crepuscolo / appanna ancor più di tristezza”; oppure fluidi come l’acqua di un fiume a primavera, una stagione che ricorre spesso in questa silloge, come un segno preciso di speranza e di rinascita: i dolori, le rughe del terreno, le crepe in cui inciampare sono necessari accidenti di percorso per Cristina, sempre dentro ai sentimenti e mai estranea al mondo circostante. Nei suoi versi si percepisce una forte presenza della natura: fiori, alberi, prati, fino al cielo e al suo azzurro scandito da nubi: “Ancora però vince l’azzurro / alto di cirri in movimento / ancora nel profumo dei giacinti / si percorrono / sentieri a primavera…”.
Qui il tempo avvolge e sovrasta, nel suo scorrere senza interruzioni, e ci trascina con la potenza dei sentimenti che, al pari della luna, agitano e trasformano, diventano poesia. La solitudine, una delle ossessioni che accompagnano la nostra quotidianità, è rappresentata dall’autrice nel modo dolente che, fin da bambina, le segnerà la vita: “e si cresceva sole e sconsolate / si mettevano in fila anche i pensieri / lungo quei corridoi privi di luce / a cuore muto e senza trovar pace / si finiva di vivere ogni sera / tra quattro avemaria cinque rosari / mentre serviva solo un po’ d’amore / magari solo un pizzico di luce”, per passare poi a quella adulta sublimazione delle emozioni a lungo incatenate e vissute nel profondo, alle quali dare valore e misura: “non la temo / questa mia solitudine / essenziale / so che dentro di me posso trovare / conforto alla condanna all’abitudine” fino all’assunto finale: “ Nessuno è solo / eppure ognuno è solo”.
La scrittura in queste poesie è limpida e spontanea, senza retorica o parole preconfezionate, anche quando parla di asprezze e difficoltà: è come una salita in montagna, che taglia le gambe ma che si affronta con la gioia di sapere che ci attende la cima. Serenità e bellezza passano anche attraverso la malinconia, e se non tutto nella vita può sistemarsi come si vorrebbe che fosse, possiamo però cercare di aprire la porta della possibilità: “Al mercato dei sogni / in vetrina / ho scelto il più caro / ed era il più bello e il più vero”. Così la poesia accompagna Cristina Bove, le cammina a fianco, rischiarandole la buia strada, quella che talvolta siamo costretti a percorrere anche “quando è necessità / forzare l’allegria”.
Uscita un anno dopo la precedente raccolta, Fiori e fulmini (Il Foglio, 2007), questa silloge conferma una capacità linguistica ed emozionale verso la vita che attrae e appassiona.

Morena Fanti

Cristina Bove è nata a Napoli il 16 settembre 1942 e dal ’63 vive nei pressi di Roma. Ha sempre dipinto, scolpito, letto molto e qualche volta scritto. Presente in diversi siti Internet con le sue poesie, ha pubblicato nel 2007 la silloge Fiori e fulmini (Edizioni Il Foglio).