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giovedì 16 maggio 2013

Sulla rivista ILLUSTRATI


 "Mi hanno detto di Ofelia"
 a cura di Francesca Del Moro

  
“Hai sogni dipinti in verticale
come gli occhi dei gatti
tristi di vissuto a gabbie”
(La strada per il molo)

“Non sono più sicuro del mio nome / e dell’Ofelia / ho perso ogni contatto” dice Amleto nella poesia che dà il nome alla raccolta, richiamando l’attenzione su uno dei temi fondamentali del libro: il timore e al tempo stesso la costante attrazione verso il proprio e l’altrui svanire. La poesia di Cristina vive di due tensioni contrapposte: da un lato la grazia e la levità del ritmo, che evoca aeree partiture d’archi, tendono a sollevarla in volo col rischio di portarla alla sua negazione, al tacere di cui si parla appunto in “Quasi_volo” e “Verso il tacere”. Dall’altra, il ritmo stesso diventa funzionale a svuotare la mente, come nella meditazione, per predisporla ad accogliere la parola poetica in tutta la sua densità. Questi versi mirano a dare un nuovo impatto al nostro quotidiano, scomponendo il continuum di ciascuna esperienza in una serie di dettagli pregnanti che diventano arpioni con cui ancorarci alla realtà per non rischiare di scomparire. Emblematico di questo dualismo è il confronto tra due poesie: “A ripensare” e “Controsogno”. La prima offre una delle molte declinazioni dell’inconsistenza, puntando su ciò che potrebbe essere qualcosa e che non lo è: un pugno di nemmeno sabbia, parole impronunciate, impronte cancellate prima di essere impresse nella rena, e la conclusione, da brivido: “Eppure si può dire / a chi ha sostato stanco alla tua porta / vieni t’offro da bere / e presentare una bottiglia vuota”. “Controsogno”, invece, sostanzia la fenomenologia dell’attesa amorosa con immagini sorprendenti ma al contempo talmente calzanti da apparire necessarie (il chiavistello un nome da girare / lei seduta nel corpo ad aspettare / giunse che l’aria già lo conosceva / col cuore che suonava /più forte della sveglia / a ridestare). Non esente da puntate ironiche (come in “Piccoli omicidi”) e sicura nel giocare con la lingua a tutti i livelli, la poesia di Cristina ricorda i versi geniali di Pasquale Panella, in particolare quelli musicati da Battisti ne “L’apparenza”, nella misura in cui ci porta a esperire accadimenti, pensieri e sensazioni in maniera sfaccettata e consapevole, come se fossero prove di cui abbiamo bisogno per essere certi di esistere.

Francesca Del Moro



lunedì 25 febbraio 2013

recensione di Narda Fattori


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Parafrasando: chi è Ofelia? Paradigma della devozione fino allo sfinimento e alla negazione di sé, fragile, incapace di trattenere Amleto dal suo delitto, strumento nelle mani altrui, folle? Soltanto nel contrasto con il destino acquista spessore. La sua devozione e la sua bellezza non la salveranno. Oppure Ofelia è solo un fantasma, la parte di psiche che si oppone al super-io, che resta rannicchiata sul fondo e compare come nei sogni (o negli incubi) a chiedere una ragione che non è meno folle della sua inconsistenza?
Ofelia sta nel titolo di questo libro di splendide poesie di Cristina Bove; non solo, Cristina afferma di averla incontrata. L’affermazione appare azzardata, dopotutto Ofelia è un personaggio letterario, ma sicuramente ha una sua giustificazione nelle poesie che costituiscono il corpus del libro non solo in quella che riporta lo stesso titolo. Essa riassume la filosofia sottesa all’insieme delle poesie: il vano tentativo di incidere sulla realtà quotidiana con le armi linguistiche, con la poesia come Ofelia disarmata, oblativa, inerme ma capace di profetare.
Le poesie della raccolta sono erratiche per argomento, c’è un io ingombrante che viene con cura celato e zittito, si legge chiaramente un discorso sui mala tempora e sulla irrimediabilità del disfaci-mento cui va incontro la bellezza sulla terra a cui fa da contraltare un decadimento della persona, la sua impossibilità di azione incisiva. E c’è il silenzio a capo rigo, quel silenzio detto con i bellissimi versi: “si tace/ quando/ si sta toccando l’anima/ di spalle.”
Guardare l’anima di spalle significa trovarsi dentro un’immensità che però non ha nessun tipo di appiglio per la sua decodifica, significa capire che la bellezza è ovunque ma ovunque si sgretola e noi non abbiamo né le parole né gli strumenti per porvi rimedio.
Il credente confida; Cristina dice chiaramente di non esserlo ma afferma di detenere forze e ali per
“proseguire a lato di me stessa”, incerta, con la visione sbieca e forse parziale ma con la chiarezza della meta accompagnata dal silenzio presuntuoso del sussurro del cuore.
Tanta fragilità è riscattata dall’umana pietà, dal mettersi all’interno del girotondo degli affaticati della vita. E la parola è al servizio della vita; Cristina la usa come un setaccio per comunicare, certamente, ma anche per lasciare che filtrino solo le parole ri-generate.
Le arti visive e la musica appartengono al mondo conoscitivo della poetessa e ne usa il lessico per espandere il mondo semantico delle sue liriche, coinvolgerle in quel discorso erratico di cui ho det-to, così a fianco del Tau può starci la consapevolezza del procedere solitario perché nessuno può en-trare del tutto nell’animo di un altro, perché Degas sta presso Vincent Van Gogh che sta presso Mo-zart che sta presso Cnosso che sta presso Cristina Bove.
Poiché si scrive poesia solo per passione, non avendo altre logiche motivazioni, avviene che essa, come succede per l’amore, accada; ci prende per mano, ci sussurra sibillina, ci spinge a scoprire le impronte del nostro cammino, i moti d’animo bruschi e/o intimi, padrona senza reticenze, libera e senza confini. La poesia. Poi esiste la scrittura cercata, ampiamente ragionata, condotta là dove si vuole che vada. Con quanto affermato non intendo dire che la poesia sia qualcosa di irrazionale, anzi; il setaccio della ragione e della competenza interviene e deve farlo per ripulire il materiale, sezionarlo, riportarlo al suo fine.
E’ la grande fatica dei veri poeti. Cristina, che annoveriamo fra questi, confessa che sì, potrebbe parlare di dolcetti al miele ma “la cantilena a mantice di un gatto/ suggerisce deliri/ e tu lo vuoi.”
La libertà della poesia trova il suo spazio d’azione nelle sinapsi della mente, fra le circonvoluzioni neuronali; non è anarchia, è audacia. E’audacia infatti restare ad aspettare Godot sapendo che non arriverà mai :
“……….
ma qui, sediamo tutti intabarrati
pesanti d’anni e di malinconia
stampigliata nel codice l’origine
la data di scadenza indecifrabile
pescatori di nebbia
nell’attesa di vivere davvero.”
La vita vera non è quella promessa da Dio; Cristina ci dice di porre un punto interrogativo dopo la parola; chissà che cosa è vivere davvero, forse è vivere senza aspettare inutilmente Godot, senza avere la testa in nugoli di cielo, è vivere la gioia che fa l’incontro con l’accoglienza dell’altro mentre invece siamo terrestramente dannati ad una finta accoglienza: all’assetato è offerta una bottiglia vuota.
Voglio tornare a citare qualche verso di due poesie consecutive molto diverse per tema ma quasi sovrapponibili per significato che danno ragione al colore di fondo del libro ( e di Ofelia?):
“ ma qui di niente si è sicuri/ mai” e “ sento che siamo il vuoto e il pieno/ a combaciare.”
Credo che questi pochi esempi aprano un barlume sulla erratica tematica; non diversamente lo stile è omogeneo: a versi icastici, di forti cesure si alternano dettati distesi; il timbro, la melodia del canto, però restano unici con ampi, ampissimi squarci semantici, accurata selezione di immagini così lontane che vanno oltre la metafora per introdurti in territori “poetici” appunto. Poco sostenuta dal lirismo, la poesia di Cristina non è neppure narrativa; la padronanza degli strumenti poetici consente alla poetessa di muoversi con corretta grazia lungo tutto il libro. L’insieme delle poesie è sorretto da una coreografia che non vuole stupire però è elegante e piena di forza inventiva e lessicale.
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Narda Fattori