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sabato 16 novembre 2013

recensione di Marta Altieri

Una poesia moderna che osserva con occhi tinti di antichità PDF Stampa E-mail
BoveMiHannoDettodiOfeliaSmasher
Mi hanno detto di Ofelia (Edizioni Smasher, pp. 76, € 10,00) è il titolo che Cristina Bove sceglie di dare alla sua nuova silloge, in cui la poesia nasce dal saldo legame con un intero mondo di creazione e di pensieri erranti, guardato con la serenità di chi sa di poter unirsi ad esso quando vuole, se vuole. Un luogo dove arrivano notizie, da cui esce poesia, tinta di modernità.
L’interessante coloritura di questi versi liberi è data da alcuni tratti ricorrenti, come parole interrotte da tratti bassi, quasi fossero bloccate da altre sillabe e così scomposte svelassero quello che in realtà contengono («lame_nti», «stagno_la», «bi_sogni», «amorevol_mente», «di_stanze») e corsivi che mutano il senso di alcune parole o frasi («Appuntimenti», «Una lei senza età a un lui che non sa»).
E non mancano elementi tipici del discorso in prosa che di tanto in tanto affiorano come ad esempio parentesi (anche doppie) e domande; parti di discorso diretto introdotte senza avvertimento grafico («lo ricordate il film di Pasolini?»), mentre la punteggiatura che è quasi inesistente, senz’altro priva di virgole e che volentieri rinuncia a mettere un punto; proposizioni in cui non si distingue inizio e fine rendendo l’impressione di frammenti in un flusso di coscienza («il vuoto mi attraversa / su commessure d’argini sospesa / spessori infinitesimi / riversa in me di me che perdo il senso in questa moltitudine si sfoglia / quella che fui di spalle»). 
Il tutto è racchiuso in un discorso che risulta solo in apparenza slegato, ma composto in realtà da parole incastonate in modo originale nella frase. In Tau, uno fra gli esempi di poesia visuale, l’immagine finale riproduce la lettera greca appunto, ma non è così distante dalla figura di una donna prostrata «piegata / santa dei giorni / scoccati scaduti».
Più volte ci imbattiamo nella parola “contro” («Controsogno», «controcielo», «contromisure»), indice di un modo opposto a quello tradizionale di percepire l’interiorità del il mondo esterno, di farne poesia unendoli e, perché no, confondendoli. La tematica amorosa non ha un ruolo preponderante, ma emerge rare volte in modo dirompente. Un amore impossibile, che non finisce, vissuto (o meglio, non vissuto) da lontano e «a bassa voce». Nella descrizione di quella che sembra una serata d’amore predomina non la dolcezza del romanticismo “glicemico”, ma la visione stessa della scrittrice, un po’ beffarda e ironica, che preferisce «un angolo di luna / la cantilena a mantice di un gatto / suggerire deliri».
Ciò che caratterizza questi componimenti è una totale apertura, l’assenza di confini nei confronti di quello che può diventare oggetto di poesia, la libertà da tematiche e schemi fissi e individuabili; una poesia dal lessico esotico, ma anche specifico, una poesia scevra da stereotipi, in cui l’io poetico continuamente si fa spazio fra piccole epifanie della quotidianità, come in Una ciotola, e momenti limite o cruciali (Porta, Cardioversione), accompagnati da una patina lessicale corposa nella sua inventiva. Anche le poesie che contengono ritratti come La monaca e il vento, Sherifa o La strada per il molo, si sviluppano in modo singolare, unendo un descrittivismo che sfiora il metafisico («le jellabah a coprire corpi d’ebano / e bevevo la luce del turchino»; «scaffali imbarcati al centro a sostenere il peso dei miracoli […] vieni sul mare / a guardare velieri controluce / doppiare l’orizzonte e il calendario») all’accentuazione del carattere personaggio («il cuore indifferente alle stagioni / accarezzata mai sulle colline / dimenticò la valle e scelse il cielo»).
Potrebbe a questo punto risultare estranea l’immagine di Ofelia, di cui non viene ripercorsa la storia o creato un ritratto. Rappresenta bensì un telegrafico seguito dell’opera shakespeariana, la giustificazione di Amleto davanti alla morte di Ofelia. In questa poesia, che porta il senso di tutta la raccolta, si parla di entrambi, una coppia che si è persa nei meandri di una super-ragione fino al completo estraniamento dal mondo e da se stessi.
Ofelia è una figura «fuori dal campo» (titolo di uno dei componimenti), che per decisione di una forza maggiore, che sia la forza creatrice del drammaturgo o un amore lasciato a spegnersi per distrazione, è «tra-lasciata a tra-spirare in vasi di cantina». In questa poesia c’è il risveglio di Amleto, che parla, anzi, scrive da un luogo a noi sconosciuto e si ricorda di Ofelia che soffre. Sono in realtà figure che risiedono ai margini della vita, Ofelia donna abbandonata, Amleto uomo estraniato.
In sintonia con questi personaggi è la voce stessa della poetessa che chiede il suo «restare in disparte», e di «camminare ancora a testa alta», quello che Ofelia non ha mai fatto, se non nell’atto di decidere della sua morte, «un sereno e sicuro silenzio / e poi dormire». «Desidero accucciarmi nel silenzio», è una frase che veste bene l’Amleto shakespeariano, il quale decide di appartarsi dal mondo, si lamenta delle troppe parole degli altri e poi espleta il suo dolore in eccellenti monologhi. Le parole sono un inganno e una salvezza, ed è questo principio che i componimenti portano alla luce, tenendo a bada il pericolo di lasciarsi imprigionare con la pacatezza dei sentimenti mai portati all’estremo, senza tracimare nel “troppo” amletico.
A conferma di ciò, leggendo questi versi si avverte sempre la sensazione e il desiderio di un distacco, di voler essere altrove; emerge, paradossalmente, il desiderio di fare poesia senza usare le parole, di suggerirla a mezza bocca, perché darle fiato la rende forse meno potente.«Mi farò bastare il gioco» dice l’io poetico «tanto mi sveglierò, verrà il silenzio […] quello che non s’inganna con le impronte di parole calcate nella sabbia». Lo sforzo di imprimere sulla pagina questo volere risulta qui espletato, forse superato: «Le parole comprimono l’estasi / intralciano i poeti / li definiscono in cataloghi / allora ammutolisco per sentire / e non vendermi agli echi».
Marta Altieri
(www.excursus.org, anno V, n. 52, novembre 2013)

martedì 28 maggio 2013

recensione di Stefano Guglielmin



Mi hanno detto di Ofelia (Edizioni Smasher, 2012), di Cristina Bove, ha ricevuto numerose recensioni in rete, tutte positive. Così com'è entusiasta le Postfazione di Francesco Marotta, sempre acutissimo nel cogliere, di ciascun poeta, le inclinazioni stilistiche e la cifra che lo contraddistingue.
La mia impressione è che questo libro tenga insieme differenti temi e stili, che forse avrebbero dovuto trovare una migliore organizzazione complessiva, in capitoli in cui meglio sarebbe emersa una convergenza nei temi, pur nella diversa articolazione stilistica. Nonostante questo, la "Silloge proteiforme", come scrive Anna Maria Curci in prefazione, lascia trasparire la stessa mano. Alcuni elementi retorici e tematici tornano infatti con frequenza: l'uso di termini botanici e/o settoriali e/o rari (achillea, albedo, blastule, genomi, patagi, fusciacca, gracula, lunula, sdilinquisce, molcere), la nominazione anatomica di parti del corpo, l'attrazione per l'esotico (che talvolta si combina con il preziosismo decorativo, tutto giocato sulla fascinazione dei nomi, cfr. Sherifa), l'interesse per la sperimentazione segnica (l'uso del trattino basso, che troviamo anche negli inediti), l'attenzione all'esistenza, pensata nella sua effimera presenza, sempre sul punto di sparire, la venata malinconia per un altrove mai stato o per un tempo che non tornerà. Insomma: Cristina Bove è una donna colta e complessa, che ripensa la vita a partire da un verso denso, che attinge più da D'Annunzio e Gozzano che da Montale o dai crepuscolari alla Moretti. Anche se proprio dalla Cesena di quest'ultimo – contaminata con l'essenzialità dell'haiku – pare attinta la poesia Una ciotola, dove si dice "è Primavera / una forchetta in bilico / e / abbaiare di cani", in una sequenza organizzata per elementi emblematici di un quotidiano senza lampi. La sua poesia civile si gioca su questo piano, mettendo in luce il grigiore del vivere nella modernità, "noi che venimmo dal tempo / ch'era il mare un ritaglio di cielo / ed esultanze, ignote geometrie / carezzavano addosso. // E poi dimenticammo."
E' questa smemoratezza che va combattuta ("Adesso veglio – sola – a ricordare") perché la vita, pare dirci la Bove, lentamente si spegne, se non si cammina "a testa alta", in una solitudine feconda, fatta di interrogazioni al mondo e alla propria anima. Cristina Bove crede all'esistenza dell'anima, la nomina in questo libro, la chiama, forse, "Ofelia": morta Ofelia, il mondo scolora, si frantuma, Eppure non crede in Dio, non in modo evidente, almeno ("Dove s'affaccia Dio / lasciare un punto di / domanda"). Da laica illuminista diffida della religione; nemmeno alla poesia affida questo ruolo. E questo la salva da certa mistica dell'a-capo che attraversa la pratica contemporanea. Salvezza corroborata dal distacco ironico, che perde (e come potrebbe essere altrimenti?) quando parla d'amore o di solitudine: "Tu che ti specchi nel mio nulla" la dice lunga sulla natura tragica di questo libro, che forse pecca di qualche eccesso d'astrazione, come in questi due esempi: "Pregai col viso ch'era più un torrente / mani artigliate alla stadera delle / speranze equanimi / quel tanto da pensare che lo fossero"; e:  "E tu sarai fremente d'arabeschi / nel rovescio di_stanze della terra". Anche nell'uso di parole rare, io starei parco ("Nell'argilla gli steli d'achillea / sono ditate impresse / nell'albedo"), perché, forse senza volerlo, riportano al centro l'elitario quale cifra del poetico, in un tempo, il nostro, dove a vacillare è proprio il contrario: l'uguaglianza e l'antiretorica.


da Mi hanno detto di Ofelia


TAU

Si può avere una croce di nuvole basse appoggiata alle scapole nude
il destino di mezze parole -  bizzarrie di gesti - nei campi di sole e di
grano - amputarsi d'orecchio il pittore - non furono pane i tuoi versi
partiture d'assensi in forma univoca le frotte di cornacchie coefore
ingrigite dei tuoi giorni di fiele.
È di rosa il tuo viso
 si arresta se il ghiaccio
mi arriva al diaframma
e non posso morire.
Son io che mi stingo
di sangue la bocca
dipinta al di qua
delle ore, piegata
tu santa dei giorni
scoccati scaduti
insegnavi la vita
a chi muore.


APPUNTiMENTI

addensate tra costole
discostate dagli archi
io violoncello tra laringe e cuore
sonorità profondo
lungo le corde d'improvvisi
in gola

sono non sono solamente soglia
solve et coagula
argento mi distingue all'apparenza

se viaggiare sull'onda
è stringere lame_nti tra le mani
sapete bene come
può tagliare la carta

e allora questo che vi sembra un letto
già libro - o giaciglio disfatto -
infine è uno sbadiglio
in retroscena.



CONTROMISURE

Oh, beh, sì,
potrei parlare di dolcetti al miele
certo potrei
anche di quel loukhoum pistacchi e rose
e poi tutta la gamma dei colori
potrei metterci un tango
o il quartetto per archi in fa maggiore
potrei farvi venire
una crisi glicemica
invece no,
giro la sedia a vite
in calzamaglia
immagino trent'anni e lui be-bop
muscoli e fiato
forse una spruzzatina di far west
e
pupa vieni qui, fatti baciare
pizzi neri e due fucsie tra i capelli
odore che - miodio -
potrò mai farti giungere in ritardo
oh, beh, certo che sì
va tutto bene
hai portato le coppe mon amour?
Vedrai, stanotte un angolo di luna
la cantilena a mantice di un gatto
suggerire deliri
e tu lo vuoi.



 Che sia così?

Forse mistificazione
a sfavillare dove
resta il grumo a stagnare
e penne d'avvoltoio
mimetizzate da paradisea
una parte asseconda il sé
di meridiane e traffici illusori
l'altra spinge ed assedia
è quello che misura il do di petto
dei polli da spennare
il rigetto di cavoli e caviale
si sdilinquisce a  “molcere”
(quale parola-orrore)
sa di moccio, di scivolata in sol_chi
ma tu
quale ansare ti porta sulla porta?
Qual'effrazione pratichi all'udito?
E per salvarmi appendo alla pineale
il  guitto colpo di tosse
a calare di tela
e adesso dimmi pure una parola
tipo “catalogna” chessò...
ti spiego di verdura ripassata in padella
ti piace l'aglio?
Se hai fame non ti vendo
la poesia



 DIVERSAMENTE STABILE

C'è l'idiosincrasia
- quanto le piace questo lemma -
per la parola cuore
le dovesse scappare non sia mai
spalmata su parole altisonanti
prosodia
rea sconfessa
un ragazzo che viene dal passato
occhi di broncio
- di sensi all'erta le concede l'uomo
in minutaglie sparse
e il suo andare di fretta -
lui di bevute solitarie
nel palmo della mano in senso lato
lei che si gioca l'ultimo bicchiere
col piede nella staffa.


UNA CIOTOLA

Una ciotola
e il colore del pomodoro
di striscio
un’avanzata di foglie di basilico
dalle casse Vivaldi
è Primavera
una forchetta in bilico
e
abbaiare di cani
ti frughi nei cassetti
prendi a casaccio nomi
e pepe e sale
ti si inceppa un pensiero
lo appendi ad asciugare…




DI SOLITUDINI

Alla tua solitudine lo posso raccontare
dei miei pensieri cavi, e delle notti
calate sulle rive di soppiatto.
Tu la conosci, è specchio al tuo sottrarsi
anche la mia
ch'è sabbia, neve, voli e
speronate a picco.
A te lo posso dire, fatta di nebbia io sono
quindi nei vuoti d’aria m’abbandono
per una tregua minima
se vuoi
tu che ti specchi nel mio nulla
puoi, nella forma del buio,
porgere la tua mano alla mia assenza.

 

Inedito

Tecniche di sparizione
Sono le trasparenze a fare il quadro
non c’è ombra che affondi nel catrame
per quanto denso e colorato
indicativo dell’incirca e mai
la pulizia di netto, il senso che preciso
lascia il segno
_l’anima si tratteggia a mano libera_
è ciò che amo 
quell’essere soltanto suggerito
che riconduce al fiato, alla misura nota
univoca, lontana il più possibile dal corpo
quando perfino il sesso ha un suo candore
e nella  dignità tesse ogni cosa
il rito delle proprie tinte arrese
ad ogni mezzo lieve
m’ispira il numero aureo
la coclea a svolgimento senza fne
il raggio
che coglie in pieno petto chi già vive
della sua morte luminosa
e ancora sta



 
Cristina Bove è nata a Napoli il 16 settembre 1942, vive a Roma dal '63.
Si è occupata di pittura e scultura. Ha vissuto da giovane a Tunisi dove fu allestita con successo la sua  prima personale di pittura.  È sua la scultura in bronzo dell’hotel Sabbiadoro a  S. Benedetto del Tronto. Negli ultimi tempi si dedica alla scrittura, alla fotografia e all’arte digitale.
Scrive soprattutto poesia.
    
Per le edizioni Il Foglio Letterario ha pubblicato: Fiori e fulmini (2007), Il respiro della luna (2008), Attraversamenti verticali (2009).
Mi hanno detto di Ofelia (2012 - Edizioni Smasher)
Metà del silenzio (eBook  2014 -  Edizioni PiBuk).
Ultimo lavoro pubblicato:  Una per mille (romanzo – 2016 edizioni Fusibilia).   
Il suo blog personale https://cristinabove.net/
Webmaster  del blog collettivo  https://giardinodeipoeti.wordpress.com/
 

Alcuni dei siti in cui è presente: La poesia e lo spirito   La dimora del tempo sospeso   Neobar



lunedì 15 aprile 2013

recensione di Augusto Benemeglio



CRISTINA BOVE PESCATRICE DI NEBBIA

Di Augusto Benemeglio



1.Ofelia.
Ho promesso a Cristina che l’avrei letto questo suo libro, “ Mi hanno detto di Ofelia” edizioni Smasher, 2012, e in effetti, ora che è primavera, l’ho letto e disletto, l’ho udito dentro di me, passar fuori, e lo riodo fuori di me, passar con me come un fiume che scorre ai miei piedi. Ecco la bianca, l’Ofelia di Rimbaud che ondeggia  “sull’acqua calma e nera/dove dormono le stelle / come un gran giglio” E l’Ofelia dietro la finestra di De Andrè (“Mai nessuno le ha detto che è bella/ a soli ventidue anni / è già una vecchia zitella/La sua morte sarà molto romantica/trasformandosi in ora se ne andrà /per adesso cammina avanti e indietro/la via della Povertà), e infine l’Ofelia tragica di Virginia Woolf, perché  senza madre e senza modelli femminili, senza identità ( “la sua identità se ne è andata quando le forze maschili non hanno più diretto le sue azioni”), l’Ofelia che in fondo non è mai esistita come donna, ma solo come personaggio, archetipo maschile (e maschilista) di donna a cui tutto è negato, in primis la libertà.   
Ma perché Ofelia? “Perché abita dentro ciascuno di noi, - dice Narda Fattori - coi suoi misteri, segreti e le sue acque, il suo mal di vita che si intreccia e fonde col mal di morte”.  Perché Cristina è una che attraverso le sue poesie dà voce e forza alle donne - dice Carmen Lama -,  una funzione che svolge con profonda empatia, e dare spazio ad Ofelia, in una società e in un mondo monco, è una scelta simbolica forte. Diventa per il lettore una chiave di lettura dei suoi testi poetici

2.Pescatori di nebbia
Vi confesso che ho scoperto anch’io una certa fratellanza con l’Ofelia di Cristina, che contro il silenzio e il rumore inventa la Parola, “libertà che si inventa e mi inventa ogni giorno”, diceva Paz.  Direi che ho avvertito anche un senso di riconciliazione, e mi son detto, Oh, sì, è vero che la poesia lascia sconfinato al più alto grado il suo universo, anche quando parla di un’ Ofelia  in mezzo ai pomodori verdi fritti  e ai muri sbrecciati,  erba,  sassi, zip che s’inceppano, pessime chiusure del tempo, o aperture a latere,  losanghe di arlecchino; o fotografie fatte di vento. La poesia è per Cristina Bove, napoletana di Roma, come lo era un po’ mia madre, una parabola dell’impossibile, una tazza di tè nel lavandino che si trasforma in una nave oceanica che viaggia in cerca di sirene senza canto e in un paio di rose (che) scolorano di petali il giardino. Su fogli bianchi senza limite, né termine, ogni sua poesia è un tentativo, diciamo meglio una “tentazione”, un‘inquieta restituzione della parola vivente in oceani di solitudini. In fondo la sua Ofelia sta nella nebbia dei sogni di un quadro, di un nota musicale, di un verso  liquido e noi
siamo  pescatori di nebbia
nell’attesa di vivere davvero.
Siamo macerie di silenzio
della storia dell’uomo.

3.Proteo
In una poesia – diceva Borges – la cadenza e la collocazione di una parola possono pesare più del suo significato. E ogni verso dovrebbe avere due doveri: comunicare un fatto preciso e toccarci fisicamente, come la vicinanza del mare. Bisogna compiere una successione di esercizi magici, eseguiti con un mezzo modesto qual è la parola, bisogna convertire l’oltraggio degli anni in una musica, in un rumore e in un simbolo. E’ questo il gioco serrato e ironico sulla scacchiera dell’immaginazione di Cris, che non a caso è stata paragonata a Proteo, il dio che amava occultare ciò che sapeva ed intessere oracoli  ineguali. Inseguito dagli uomini assumeva la forma di un leone, di una tigre d’oro, o di un falò, o di un albero che dà ombra alla riva, o la forma dell’acqua che nell’acqua si smarrisce. Metà dio e metà bestia marina, ignorò la memoria che si china sopra il passato e le perdute cose.

4.Autoironia
Coglieva barlumi dal profondo e l’umiltà vera, quella con cui ogni giorno guardi in te per dare un senso al tuo breve e strano e ignoto viaggio, al giro intorno  alla tua prigione, che non riesci mai a compiere del tutto. Cristina ha uno sguardo attento, cerca e trova le parole in quel momento più incisive, senza fare concessioni al facile canto, o alla  mandolinata di turno.  Non è tipo del genere, né una che si lagna, ma se c’è  un  lamento in lei diventa vitalità, energia pura, roba da stoicismo.  Ci ricorda, con Borges, che nessuno può aiutare nessuno,  giacché ognuno deve salvarsi da solo, e andare sulla soglia
con le scarpe in mano/
a scuoterle dai sassi/
ma non ti chiederò quel che non puoi
se quello che non sai/
è l’ultimo dei mondi sul confine/
di un’ ignota galassia
Giochi verbali, riflessi letterari, divagazioni, “i trucchi, i salti, persino le interpunzioni che, spesso, sembrano le giuste punizioni per il lettore rapido, che vorrebbe correndo passare oltre”, scrive  Fernanda Ferraresso,  soprattutto autoironia
va tutto bene/ hai portato le coppe mon  amour?
Vedrai, stanotte un angolo di luna
la cantilena a mantice di un gatto
/ suggerire deliri/  e tu lo vuoi.

5.Una via di mezzo
Ma ogni verso ha una portata emotiva, anche se ci sono dietro inquisizioni filosofiche, estetiche, letterarie, etiche, religiose e mitiche. Bisogna cercare il riscatto e la riscoperta della parola, di una parola magica, di una parola musica, di una parola che sia simultaneamente  contenuto e forma.  E’ tutto un inseguimento della parola, della parola poetica, della parola strana, da napoletana  antibarocca, alla ricerca della semplicità che è  poi  la modesta e segreta complessità del vero segreto della scrittura.
Scusi, Cristina Bove, lei cosa pensa della vita?
Ci penso da quasi settant’anni. Quasi tutti i giorni, ma ne ho un’idea ancora confusa. Il fatto è che una persona  vive  veramente solo quando sogna.“Ogni essere umano ha bisogno di rinascere ogni giorno…ha bisogno di trascendenza”. Ma per sognare bene, il divino  Pitagora raccomandava di non mangiare le fave.  E poi amava predicare agli animali, anticipando  San Francesco  d’Assisi (“Oh, quanto hai  scucciato, France’   cu’ ste prediche agli ucelli!”, diceva l’attore - poeta napoletano Massimo Troisi)
Nacqui nelle terre di mezzo…//
Si mettevano nel campo dei papaveri a simulare le rose
C’è in Cristina Bove una sorta di  “sprezzatura”  alla Cristina Campo, come accennai per altre sue poesie, e un qualcosa che richiama uno come Brodskij, lontano dai clamori della protesta e del facile conformismo, ma sempre pronto a far gare di tenerezza  coi bambini, tra coriandoli  e sogni infranti. La sua poesia è, insomma,  una via di mezzo, tra la  crudele leggerezza della fiaba e il senso del gioco a carte scoperte, o del gioco al massacro, fate voi,  tra indicibili solitudini  e le traiettorie della rimembranza leopardiana, con una tendenza alla speculazione metafisica.
Però c’è quella elegante ironia  e una  consolidata geometria del linguaggio affidato a una scacchiera di cristallo. È un gioco che dubita della ragione che lo governa, è un gioco irreale  che però crede in fondo  nelle segrete finalità della letteratura, è un sogno manovrato e deliberato. Una pagina o un verso fortunato non ci devono inorgoglire, - diceva Borges -  sono il dono del caso o dello spirito, solo gli errori sono nostri, e sono tanti. Puoi aggiustare la rotta come credi, ma alla fine della tua navigazione  giungi  solo
…all’incaglio
stanca/ fui costretta a guardare l’altro volto
la me stessa sbiancata nei pensieri
e quella voce  diventata abbraccio
 fu la gomena tesa / ch’io non vidi

6. Incipit
L’ignoto è inesauribile. Ci sono cose inesprimibili. Il linguaggio non è che un mero strumento di un gioco che tuttavia pretende simmetrie.  In una rosa in punto di morte  senti che  il suo valore estetico è nella propria eternità, non nelle parole che noi, tuttavia, non potremo mai esprimere compiutamente. Spesso il meglio, o il tutto della poesia di Cristina, è nell’incipit, quasi sempre straordinario:
tra scimitarra e fiore //
lo so che verrà il tempo dei ciliegi
ed ecco tutto un panorama s’apre davanti a te, coi samurai giapponesi che fanno esercizi di guerra, nudi, nei giardini di ciliegi,  e cantano :” Oh, quanto è dolce morire al cader lieve dei fiori bianchi! 
vediamoci /nell’ora vuota/ io porterò un non-fiore/
e ti rivedi, garzone d’amore,  all’alba nei giardini di villa Ada, come un fidanzatino di Peynet,  sotto i rami dei platani appena potati,  cogli uccellini che cinguettano e  si baciano in corsa volando  tra un ramo e l’altro; ti rivedi senza un fiore, ma con una scatola di  cioccolatini.
sapeva fare nodi alla marinara/cazzare rande e ripassare bugne
ed eccomi davanti allo scenario del mare jonico, Gallipoli, con la barca a vela Icaro di D’Alema,  che ode  passare il vento di tramontana, e si tuffa come un’ancella bianca, e poi vede passare la musica tra onda e onda, e la barca  scivola, anzi vola inventando lo spazio, il cielo, il mare e il silenzio
si può avere una croce di nuvole basse appoggiata alle scapole nude
Versi che esprimono forza e dolore nella leggerezza estrema, ma anche fedeltà e  obbedienza  al potere del fato, del  destino ineluttabile, in questa fabbrica d’aria  scura  che è la vita, dove  crescere e  negarsi e  morire è (forse) espandersi.
hai sogni dipinti in verticale /come gli occhi dei gatti/ tristi /
E’ vero, se tu guardi il muso dei gatti nelle sere d’inverno appoggiate sull’abisso scopri tutta la loro tristezza verticale negli occhi gialli tagliati a strisce come frutti nella tenebra.
E potrei continuare ancora a navigare negli incipit, in tutto quell’ universo di Cristina che è frammentario, senza  nulla di preordinato,  prestabilito, non c’è un progetto, un disegno, una mappa catastale  della sua casa poetica, ma i suoi  frammenti  hanno un ordine interno, una musica, un’armonia, un’orchestra con  mille strumenti a sua disposizione,  e mille spartiti.  Lei si riserva la libertà di “non scegliere”. Ma solo di frequentare. Le scelte, alla fine, le facciamo noi lettori incrociando i suoi occhi e i suoi sospiri di eterna ragazza presa dal suo delirio circolare, Ofelia, appunto.

Roma, 15 Aprile 2013                              Augusto Benemeglio

lunedì 1 aprile 2013

Recensione di Maria D'Ambra

"Mi hanno detto di Ofelia"

Quasi_volo
un tempo diverso
per camminare astratti
non proprio volare
ma quasi
come essere foglie e pappi
in sentieri di vento

appoggiare a mezz’aria
passi senz’orma
vestiti solamente del tacere

le parole comprimono l’estasi
intralciano i poeti
li definiscono in cataloghi

allora ammutolisco per sentire
e non vendermi agli echi.
Sarò d’ali permesse appena
in tempo
per proseguire a lato di me stessa.
mi hanno detto di ofeliaDall’assenza prende vita la materia, dal vuoto apparente prendono forma le figure, i gesti, da un non-tempo personale si tracciano le linee del ricordo, fino alla grande negazione, la parola che si fa muta, che tace proprio per farsi udire meglio, per distinguersi dal chiasso indistinto che offende la Poesia.
Mi hanno detto di Ofelia è la quarta silloge di Cristina Bove, poetessa dalla parola fluida e potente, dotata di un lirismo innato che le permette di trasformare in versi tutto ciò che la circonda. Forse l’abbondanza degli spunti deriva dalla sua molteplicità, dal sapere prendersi gioco di sé, dal riuscire ad ironizzare sulle tante manifestazioni dell’esperienza umana e su tutto quello che non ha a che fare con la realtà tangibile, ma che ciascuno di noi conosce, anche se non ne è cosciente. Ed è questa la capacità dei grandi poeti d’ogni tempo, quella di riuscire a sentire e poi trasmettere qualcosa che la maggior parte di noi nemmeno ipotizza, trasferendo su carta il canto doloroso oppure gaio di tutte quelle cose che non hanno voce.
Appaio
il tempo di far credere che esisto
e poi scompaio
geco fantasma
m’inerpico sui vetri
e dico al vento
amico mio non scuotere
le imposte
respirami profondo, a distaccare.
[...]
Come tutti i precursori, gli sperimentatori, gli indagatori di percorsi inusitati Cristina si diverte a disorientare il lettore, laddove sembra concedere squarci di luce, presto fa ripiombare nell’incertezza cognitiva, in una girandola di ellissi ed iperbole in cui le trame oscure del significato sembrano perdersi, per poi accorgersi invece che il senso era proprio lì, davanti agli occhi stupefatti di fronte ad una chiusa chiarificatrice e al tempo stesso culmine poetico (ed è così che sento il mio vissuto / farsi macigno quando / vorrei poter partire / e non posso che stare).
Si potrebbe obiettare che è un percorso già sfruttato, ma non è forse vero che la reale sperimentazione passa proprio per il già visto? La particolarità della poesia di Cristina Bove sta anche nel fatto che qui non si crea innovazione a tavolino, con la volontà di smussare e rimaneggiare fino all’ottenimento del prodotto ideato, qui gioca tutto la spontaneità creativa, quella che sgorga da fonti normalmente inavvicinabili e pure invisibili. E mi sconnette il cuore un soliloquio. La poetessa dialoga con se stessa, con le tante sé e con il lettore utilizzando immagini, suoni, accostamenti improbabili, una profonda ironia, realizzando un nuovo modo di comunicare, con un linguaggio inedito fatto però delle parole quotidiane e al tempo stesso di termini arcaici o scientifici, messi lì, quasi a caso, ma sempre intonati alla musicalità dell’insieme. Sì perché la poesia è anche musica.
Aperture a latere
Il sole non candeggia
la biancheria ammuffita o il seno brullo
né l’ala del cucù
filtra soltanto tra listelli e buchi
disegnato di punti su piastrelle
                            il piatto cede, rifornisce rose.
In deltaplano
funambola in assetto
gioca la mia ragazza dei silenzi
la muta dei ritorni e degli infissi
cardini sottotraccia
                             sa di quella finestra mai richiusa.
Qualora fosse il caso
se le porte sprangate a fil di buio
reggessero per anni
avrebbe almeno via d’uscita
il non ritorno sugli stessi passi…
                              un volo finalmente completato.
Cristina non offre soltanto la voce, ma sa anche ascoltare con la pazienza di chi conosce bene il silenzio e il vuoto incolmabile che solo le parole sanno dare, (le parole comprimono l’estasi / intralciano i poeti). E poi ci sono suoni, sveglie, ticchettii, echi, violoncelli e l’impalpabile, aria in movimento, fondali che pulsano, voli a mezz’aria, dissolvimenti, dislocazioni e i profumi, spezie arabe, petali di rosa, piante dai nomi impronunciabili e i colori dei luoghi, delle cose, dei paesaggi interiori, della memoria.

VERSO il TACERE
Saranno secoli? Attimi che mi giro
a tascapane, a giustacuore, a scudo
e di necessità virtù mi allaccio scarpe

camminare dovrò
per la carrozza han già preso la zucca
a me non resta che la mezzanotte
la mia fata madrina s’è distratta.

Mi cucio sulla lingua un che di fiato
zenzero e cinnamomo retrogusto
enzima di saliva mordiefuggi
e mi farò bastare ancora il gioco.

Tanto mi sveglierò, verrà il silenzio
quello che non sopporta ancora voci
né le cose sospese
quello che non s’inganna con le impronte
di parole calcate nella sabbia.

E avrò la colpa d’essere poeta
per abuso di suono.
Ma allora qual è il reale segreto di tanta bellezza? Quella piacevole concatenazione delle parole tesa fino allo scatenarsi di forti emozioni? Oltre alla rivelazione della conoscenza, c’è la grazia della creazione che ha come scopo principale il piacere senza attese, la gioia di poter scrivere poesia solo per diletto e perciò senza alcun tipo d’ansia e con in tasca uno scacco contro il Tempo, privato in tal modo d’ogni potere, di ogni urgenza, essendo modellato a propria misura, compreso nel cerchio senza inizio e senza fine.
[…]
semplice non è mai piegare il tempo
né tantomeno mascherare il dire
m’accompagna il silenzio
presuntuoso
di sussurrargli al cuore.
E poi c’è l’incarico fondamentale d’ogni portavoce, quello di fare ricordare tutto ciò che si è dimenticato, l’essenza di sé, quello che siamo e che sempre ci sfugge.
[…]
noi venimmo dal tempo
ch’era il mare un ritaglio di cielo
ed esultanze, ignote geometrie
carezzavano addosso.

E poi dimenticammo.

Adesso veglio – sola – a ricordare.
Quando si crea per necessità, la spinta arriva da luoghi insondabili e scrivere allora è sì moto d’inchiostro che s’incide sulla carta, ma è anche attraversamento, un continuo sconfinare in un’ansia di fuga e al tempo stesso consapevolezza d’essere in ogni istante, ovunque ci si trovi, è lo sguardo commosso di chi si vede dall’esterno con tutte le debolezze dell’umanità addosso, testimone di quella parte che vaga ancora nell’oscurità, inconsapevole d’essere sempre anche altrove. L’attesa è nel dissolversi della linea di confine, nel riportare, finalmente, quell’essere limitato all’interno del tutto che lo comprende. (Scrivo per chi / non taglia l’acqua con le mani / affonda e non ha voce)

Case abissali
Parole orfane
come lutto del dire
a fluttuare in uno schermo di
cristalli liquidi

nascoste nelle mani
al riaffiorare
d’alga di sale plancton
carezza d’ombra
scena depositata sui fondali

si tace
quando
si sta toccando l’anima
di spalle.
E tacere si può quando la Poesia vive di vita propria.